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Il dirito di uccidere


Tao
 Tao
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Mettere le mani nell’orrore: i dilemmi morali nella guerra contro Daesh

Al cinema. «Il diritto di uccidere» di Gavin Hood, i «danni collaterali» dei conflitti. Protagonisti Helen Mirren e Alan Rickman nella sua ultima interpretazione

Gavin Hood, sudafricano in prestito a Hollywood, ama i destini esemplari. Siano essi quello di Tsotsi o di Wolverine, il destino è la somma dell’ambiente che circonda l’eroe e le scelte che compie. Un cineasta assolutamente non banale Hood, anche se il suo cinema non si eleva dal conforto dell’esecuzione lineare della commissione. In Il diritto di uccidere l’ oggetto – o meglio: tema – è già nel titolo; sia in quello italiano, più contenutistico, che in quello inglese Eye in the Sky, l’occhio nel cielo che non può non ricordare il tormentone pop-prog di Alan Parsons.
Il film si pone il problema del cosiddetto collateral damage (ossia le vittime innocenti delle guerre giuste). Che fare quando ci si trova davanti a un covo di Al Shabaab e la decisione da prendere comporta l’ipotesi di uccidere anche innocenti? Il film di Hood è contenuto tutto in questa premessa che, per esempio, Eastwood ha risolto ammirevolmente con la soggettiva iniziale di American Sniper.

Hood, invece, autentico bleeding heart, mette in scena un teatro morale nel quale un polo (Helen Mirren) si confronta con il suo opposto (Alan Rickman, alla sua ultima interpretazione).
Ovviamente Hood, nelle mani di interpreti sublimi come la Mirren e Rickman, riesce a far valere la sua voce. Il dilemma morale rimbalza con grande convizione attoriale nonostante la prevedibilità etica di uno script che non va al di là di un talk show ben intenzionato.

Eppure sarebbe ingiusto disconoscere la precisione dell’esecuzione di Hood, che nell’ambito di un cinema dall’impianto teatrale decisamente tradizionale riesce a creare una tensione a tratti genuina facendo oscillare i punti di vista di partenza. La tensione rispetto alla decisione da prendere, le cui implicazioni e conseguenze sono sviscerate in ogni dettaglio umano, sono l’alimento drammatico del film.

Hood riesce a stemperare con attenzione i momenti esplicativi per poi imprimere accelerazioni drammatiche attraverso l’uso dei dettagli e di un montaggio stretto.
Non c’è nulla di rivoluzionario in Il diritto di uccidere e l’esecuzione corretta non può occultare il fatto che la prospettiva ideologica nella quale si muove il film è quella di una posizione etnocentrica, che compie sì uno sforzo per comprendere l’altro da sé ma che proprio in virtù di tale tensione vuole anche riconosciuto il diritto a esporre le proprie posizioni. Richiesta un tantino forte se si pensa che le posizioni in campo sono tali da non consentire certe pretese.Si pensa all’esemplare film di Michael Bay su Benghazi e al rifiuto di qualsiasi posizione conciliante che osa mettere in scena le aporie dell’uomo in guerra. Proprio come il già citato Eastwood.

Hood vuole mettere le mani nell’orrore ma è come se avesse già stabilito a priori quali siano i limiti di questo suo procedere. Si muove con un punto di vista ben saldo in tasca nonostante la tentazione di far basculare la narrazione in una direzione non prevista.

Se il film resta comunque godibile nonostante alcuni forti limiti di fondo, dipende soprattutto dallo stuolo di interpreti arruolato per l’impresa. Raramente la Mirren è stata talmente intensa e altrettanto raramente Rickman è stato in grado di far risuonare la sua ironia di notazioni tanto sinistre. La loro presenza, come quella dei comprimari Aaron Paul e Iain Glen, è l’elemento principale che tiene desta l’attenzione dello spettatore in questo dibattito dall’esito prevedibile (e in fin dei conti pilotato). Si sente la mancanza in tempi come questi di un amoralista come John Milius che avrebbe saputo cogliere venature non viste nelle immagini della guerra americana contro Daesh. Milius, come Eastwood, sa che le posizioni della guerra non sono mai ferme.
Nonostante la grande articolazione del dibattito etico, Hood non riesce mai a celare del tutto il sospetto che in fondo il film proceda con la soluzione in tasca. E, inevitabilmente, ne risente anche la sua tensione morale e spettacolare

Giona A. Nazzaro
Fonte: www.ilmanifesto.info
31.08.2016


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