Attacco con ostaggi alla banca di Wall Street: speriamo che i malviventi la facciano franca. C'è del marcio nel cartoon danese e nello scambismo bucolico francese. La vera storia della pizzica tarantata. Matt Dillon fa la cosa giusta per Charles Bukowski
Stavolta si vince con un goal di rapina. Grande successo in tutto il mondo del primo film di genere thriller, né scritto né prodotto, del cineasta indipendente african-american
Enver Hoxha, ex leader del Partito del Lavoro di Albania, nel II dopoguerra disintegrò nazifascisti e revisionisti per sviluppare la patria socialista. Erede elegante, effeminato ma sessuofobo, e "disumano" di Scandenberg considerava con condiscendenza perfino la rivoluzione culturale di Mao: i nemici del popolo si uccidono, i titini si annientano e anche il compagno d'armi Memet Sheu, nel caso deviasse verso il capitalismo: non c'è tempo per rieducarlo. Incorporava Hoxha già la sindrome compulsiva del videogiocatore maniaco? Le immense atrocità hitleriane provocarono anche questi orrori?
Ora ritrovare la voce squillante dell'ultimo rivoluzionario al potere in Europa che dominava Radio Tirana proprio dentro un blockbuster di Hollywood, Inside man, la storia di una strana rapina in una banca di Wall Street, è un salutare depistaggio. Ma l'insert non è un gratuito omaggio a un paese annientato nel profondo da crudeltà subumane subite, perché il thriller, che parla proprio di una tentata, e incruenta, vendetta antinazista, è tutto stravagante, pur essendo fedelmente "di genere". E ha ammaliato già i filmgoer di Usa, Gb e Germania. Non puoi prevederne mai una battuta né uno snodo di plot. Eppure ti rapisce. Merito anche delle luci di Matthew Libatique, filippino-americano che predilige le atmosfere inquiete di Aronovsky e Ernest R.Dickerson.
Infatti, per capire un "poliziesco cripto-terrorista" come questo, così come un tiranno crudele, una "Miss White" stravagante come Jodie Foster, un poliziotto spiritoso come Denzel Washington o spigoloso come Willem Dafoe, un rapinatore sempre coperto in volto come solo Clive Owen può tollerare, o un sikh disperato perché i poliziotti gli tolgono il turbante e lo prendono per arabo, e che "razza di lingua parla quella voce aliena", non ci si deve mai fermare alle sole apparenze. E il regista sa depistare, proprio come fosse uno del Sifar.
Se i rapinatori decidessero di far vestire tutti i 50 ostaggi proprio come loro, non sarebbe spiazzante (è la grande idea di partenza del copione)? E se il direttore della banca, un Christopher Plummer dal disgustoso perbenismo, invece di preoccuparsi del colpo, del caveau e della vita degli ostaggi, fosse ansioso solo di assoldare un'super-agenzia che protegge i potenti nei guai, non sarebbe un'eccentricità? I "macguffin", gli espedienti inaspettati straripano da tutte le parti in questo "Manhattan drama", che già s'apre con una "mossa del cavallo". Il protagonista del colpo anticipa, alla cinepresa, e non si sa da dove, la sua impresa. E promette di spiegare tutto, come in un noir, ma la sua voce è "insider" non "off". E chiede "massima attenzione". Regista e rapinatore dunque già coincidono. A me gli occhi e attenti ai dettagli. C'è del sapore di Burnett, Houston e Giungla d'asfalto in tutto ciò.
Si dice che il regista, estremamente originale, abbia fatto pochi ciak e quasi nessuna prova con gli attori, ma li abbia costretti a vedere Serpico, Il maratoneta, The Gateway, Un uomo da marciapiedi, Il caso Thomas Crown, I soliti sospetti... Così come tanti sono gli "spazi obliqui" che fa fiorire, o dedica alla polemica politica e morale o all'omaggio cinefilo (un po' alla Moretti): dall'atroce videogame gangsta rap del pur simpatico bambino alle ripetute citazioni da Lumet. Come a far respirare di più un film di finzione che in genere, rispetto agli imprevisti del documentario, ha il dovere di intrappolare le emozioni e togliere troppa aria alla vita.
Così che quell'incursione "spuria" di Hoxha, falce e martello, dimostra davvero che il regista del film è un narratore estremamente strano. Infatti è Spike Lee, 20 anni dopo Lola Darling per la prima volta regista di un copione di genere scritto da altri (l'ex avvocato Russell Gewirtz)e "sotto produttore" (è Glazer, la storia era per Ron Howard). E per la prima volta esplicito debitore di Lumet (gli strappò Malcolm X: "come si permette un bianco..."). Eppure la bellezza dell'opera è quella di far tornare alle atmosfere amorali di Charlie Varrick di Siegel o Il genio della rapina di Richard Brooks: "É più criminale fondare una banca che rapinarla". Dirlo in era Bush jr. non è facile come nei ruggenti 70 (infatti per ingoiare la pillola all'autovalorizzazione aggiunge edificanti motivi). Arrivato sul set Spike, che è un filmaker di colore nero, naturalmente ne ha fatte di tutti i colori, scambiando quelli dei personaggi di colore bianco, giallo, rosso, perché ora maneggia la tavolozza completa.
Roberto Silvestri
Fonte: www.ilmanifesto.it
7.04.06