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STUPOR MUNDI


mystes
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Un ricordo storico dell’intramontabile figura dell’Imperatore II di Svevia che tanta gloria diede all’Italia e a Roma; visto che il presente ci regala solo figure scialbe e mediocri e nel migliore dei casi inutili alla Patria e alle nostre tradizioni, non ci resta che rinverdire la memoria ricordando i Grandi del nostro immortale passato. Brano tratto dalla Soria di Italia a cura di Indro Montanelli:

Correva l’anno 1250. Sul suo letto di morte, a Fiorentino, in Puglia, dove la dissenteria lo divorava, Federico il Grande forse ricapitolava mentalmente il suo fallimento. Era nato a Iesi presso Ancona cinquantasei anni prima, sotto una tenda militare drizzata sulla piazza del mercato. Nelle sue vene scorrevano congiuntamente il sangue degli Hohenstaufen di Svevia e quello dei Normanni di Sicilia. Era cresciuto orfano a Palermo, e non aveva mai potuto disintossicarsi di quell’isola allora all’apice del suo splendore e centro di una civiltà cosmopolita greco-arabo-ebraico-fenicia. Varie volte era andato in Germania. Ma non era mai riuscito a restarci più di qualche mese.

La Germania era un caos di reucci, principi, vescovi, conti e vescovi-conti, concordi solo nell’impedire che uno di loro emergesse sugli altri e che l’Imperatore nominale diventasse effettivo. Federico aveva rinunziato a mettervi ordine non perché l’impresa fosse impossibile, come aveva sempre detto agli altri e a se stesso, ma perché non gli piaceva vivere che in Italia. A quei suoi compatrioti rozzi e rissosi, le rare volte che tornava tra loro, chiedeva soltanto tregua, la comprava con l’oro, e ridiscendeva a precipizio le Alpi. L’Italia, non vedeva e non palpitava che per l’Italia. Era questo il Paese di cui aveva voluto fare una Nazione, tutta la vita aveva perso dietro a questo sogno.

Per realizzarlo, aveva affidato la corona di Germania a suo figlio Corrado, e con gli altri due figli, Enzo e Manfredi, percorreva la penisola battendo un esercito dopo l’altro.

Ma era come vuotare il mare. I nemici gli si arrendevano solo per tradirlo alla prima occasione. Il Papa, dopo averlo scomunicato, seguitava a lanciare anatemi contro di lui e subornava i principi tedeschi che montavano una ribellione dopo l’altra. Gli ultimi cinque anni erano stati di guerra senza quartiere. Chiunque fosse amico dell’Imperatore veniva scomunicato dal Papa e destinato d’ufficio all’inferno. Ma chiunque fosse amico del Papa veniva torturato, accecato e mutilato dall’Imperatore.

E ora era finita. Enzo, caduto prigioniero, languiva in una torre di Bologna, da cui non sarebbe uscito mai più. Manfredi, alla testa di un manipolo di veterani per lo più saraceni, seguitava a vincere battaglie. Ma era costretto ad accamparsi fuori dalle mura delle città che, sebbene sconfitte, non gli aprivano le porte.

Il morente doveva chiedersi in cosa aveva sbagliato. Era l’unico Signore che del suo Regno italiano (un Regno che si chiamava di Sicilia, ma che comprendeva tutto il Sud-Italia, Napoli inclusa) aveva fatto uno Stato con le sue leggi, coi suoi tribunali laici, con la sua ordinata amministrazione, con la sua moneta, con le sue strade, con una polizia efficiente, con un solido esercito. Alla sua corte era nata la lingua italiana. Era stato un gran diplomatico e un gran generale. Aveva vinto tutte le battaglie. Eppure aveva perso la guerra.

Chissà se in quegli ultimi momenti Federico ne comprese il perché, che pure era abbastanza semplice. Aveva perso la guerra perché aveva scelto male il Paese in cui combatterla. L’amore dell’Italia lo aveva tradito. Essa non poteva diventare una Nazione perché aveva in corpo il Papa. La Chiesa non poteva dividere Roma con nessun potere laico. E per tenerli tutti lontani, li aveva regolarmente giuocati l’uno contro l’altro, appoggiando i bizantini contro i goti, i longobardi contro i bizantini, i franchi contro i longobardi, e negli ultimi tre secoli i liberi Comuni indigeni contro l’Im-pero. Quando Federico aveva cinto la corona, era ormai tardi per avviare quel processo di unificazione che avrebbe fatto di Francia, Spagna e Inghilterra delle nazioni moderne e le future protagoniste della storia europea. I Comuni erano troppo forti. Alcuni di essi, come Venezia, Genova, Milano e Firenze, erano addirittura delle potenze mondiali. Si era sviluppato uno spirito municipale troppo vivo, si erano costituiti troppi e troppo solidi interessi particolari perché accettassero di dissolversi in un organismo nazionale.

Anche se non li formulò chiaramente, Federico dovett’essere sfiorato da questi pensieri, perché già prima di ammalarsi aveva rinunziato alla lotta. In quel momento, essa sembrava volgere a suo favore. Suo figlio Manfredi e suo genero Ezzelino stavano riportando notevoli successi in Emilia e Lombardia, e il Re di Francia Luigi IX, caduto prigioniero dei mussulmani in una ennesima Crociata, aveva supplicato papa Innocenzo IV di riconciliarsi con l’Imperatore in modo che costui potesse venire in suo soccorso. Ma Federico, invece di convocare ambasciatori e generali, convocò il confessore e gli chiese l’assoluzione dai suoi peccati. Fu il pentimento o la ragion di Stato a ispirargli quel gesto? Non si sa. Comunque, fu quello di un guerriero vinto che in punto di morte affidava l’anima al suo vincitore.

Tuttavia si lasciava dietro un’eredità importante: un sistema di governo, destinato a estendersi in tutta Italia. Per «affermare il potere centrale, nel suo Regno, egli aveva distrutto i privilegi dei signori feudali e le autonomie dei Comuni. Tutto era stato livellato da uno Stato che s’incarnava nella sua persona. Sindaci, funzionari e magistrati erano nominati da lui e solo a lui rispondevano senza intermediazione di altri poteri. Aveva inventato il catasto con cui controllava le proprietà e i redditi, e li tassava. Aveva «pianificato» l’economia regolando d’autorità prodotti, consumi e prezzi. Aveva creato una nuova aristocrazia di burocrati, selezionati in base alle loro qualità individuali, e non più al titolo ereditario. La sua Corte, formata solo da uomini di legge, di scienza, di cultura, fu di esempio a quelle dei Signori del Rinascimento. Essi copiarono tutto da lui.

Federico era ricorso ai Saraceni. In Sicilia ce n’erano rimasti molti. Egli ne aveva installato una forte colonia a Lucerà, e da questo vivaio aveva tratto il nucleo del suo esercito. L’esempio era destinato a fare scuola tra i Signori italiani del Trecento. Essi chiamarono tedeschi, inglesi, svizzeri, ungheresi, e diedero loro in appalto la difesa dei propri Stati. Così cominciò, o per meglio dire si accentuò, la decadenza militare del nostro Paese, i cui effetti durano ancora. Gl’Italiani si disabituarono sempre più alle armi, diventarono imbelli e sempre disposti a patteggiare con gli avventurieri che, alla testa delle loro bande, mettevano a sacco il Paese, talvolta al servizio di un Signore, talaltra tradendolo e ogni tanto uccidendolo e prendendone il posto.

L’ultima incarnazione dell’Impero, residuo dei bui tempi medievali, aveva anticipato la storia d’Italia e dettato, nel bene e nel male, un modello ai propri successori.

L’avventura degli Hohenstaufen non finì tuttavia con la morte di Federico.

Papa Innocenzo IV, ch’era scappato in Francia, credendo di aver ormai partita vinta, tornò in Italia, s’istallò a Napoli, procedette all’annessione del Regno agli Stati Pontifici, e intrigò con la sua diplomazia per indurre anche i Comuni del Nord a riconoscere la sua sovranità. Ma questi Comuni, pur battendosi contro Manfredi e Ezzelino in nome della Chiesa, alla Chiesa non intendevano affatto sacrificare le loro autonomie. Era sempre la vecchia storia che durava dai tempi di Carlomagno. Il Papa poteva contare sulle città italiane finché si trattava di aiutarle a resistere al potere centralizzatore di un Imperatore o di un Re. Ma se tentava di sottometterle al suo, se le trovava nemiche.

Il figlio di Federico, asceso al trono in Germania col nome di Corrado IV, valicò le Alpi con nuove forze, riconquistò il Regno senza colpo ferire, e s’istallò nella reggia di suo padre, ma solo per esservi ucciso dalla malaria. Manfredi assunse il comando del suo esercito e annientò le disordinate bande papaline. Innocenzo ne morì di crepacuore. Il suo successore, Alessandro IV, bandì addirittura una crociata contro gl’imperiali. A fame le spese fu Ezzelino che, rimasto isolato nel Nord, fu alla fine soverchiato.

Questo piccolo nobile di Verona, dal volto pallido e dal corpo meschinello, che aveva sposato una bastarda di Federico, era un asceta del terrore. Vestiva come un frate, mangiava da vegetariano, dormiva su una branda, e non aveva altre passioni che quella della lotta e del potere. L’unica architettura che gli piaceva era quella delle fortezze e delle prigioni. Ne aveva costruite dovunque a Vicenza, a Padova, a Feltre, a Belluno. Boia e aguzzini erano i suoi sudditi preferiti. Assisteva alle torture senza batter ciglio. E nell’escogitarne di nuove e sempre più raffinate, la sua fantasia dava il meglio di sé. Il sangue lo riempiva di una gelida esaltazione, che non gli venne meno neppure quando si trattò del sangue suo. Crivellato di colpi e caduto prigioniero, rifiutò dottore, confessore e cibo, si strappò con le proprie mani le bende dalle ferite, e si lasciò morire lentamente, come aveva imposto alle sue vittime, di dissanguamento e di fame. Suo fratello Alberico, che ne aveva con zelo secondato le crudeltà, assistè impassibile al suo supplizio e a quello di tutta la famiglia, prima di essere a sua volta torturato con le pinze e strascicato per terra da un cavallo fino alla morte.

Restava Manfredi alla testa del suo esercito di tedeschi e saraceni. Tutte le forze ghibelline si coalizzarono intorno a lui, e a coagularle furono le città toscane in rivolta contro la supremazia di Firenze, che capeggiava invece le forze guelfe. Lo scontro avvenne a Montaperti nel 1260. I fiorentini, tratti in inganno - pare - dai senesi che avevano finto di essersi lasciati comprare, e traditi da uno dei loro capitani, Bocca degli Abati, subirono un rovescio che assicurò a Manfredi sei anni di assoluta signoria sul vecchio Regno.

Papa Urbano IV si rese conto che l’Italia, divisa com’era, non sarebbe mai venuta a capo degli Hohenstaufen. E, riprendendo la vecchia politica della Chiesa di opporre straniero a straniero, si rivolse al Re di Francia, Luigi IX, offrendogli la corona delle Due Sicilie. Luigi, troppo impegnato nel suo Paese, la rifiutò; ma, essendo molto devoto e non volendo dispiacere al Papa, la diede al proprio fratello, Carlo di Angiò. Questi scese in Italia con 30.000 uomini. Manfredi non ne aveva nemmeno la metà. Ma accettò ugualmente la battaglia che si svolse in campo aperto a Benevento nel 1266. Quando vide la partita persa, si gettò nel folto della mischia e vi morì con l’arma in pugno: fine del tutto in carattere con la sua natura di prode e romantico guerriero, ultima incarnazione della Cavalleria medievale.

Due anni dopo, il figlio di Corrado, Corradino, scese dalle Alpi per ritentare l’avventura del padre e riconquistare il Regno del nonno Federico. Aveva appena quindici anni, e i nobili tedeschi non gli avevano dato che poche migliaia di uomini. Carlo d’Angiò, ormai Re delle Due Sicilie e ben deciso a restarlo, lo attese a Tagliacozzo, e facilmente lo sconfisse. «Padre - scrisse a papa Clemente IV -, vi prego: alzatevi e cibatevi della cacciagione del fìgliuol vostro: uccidemmo tale moltitudine di nemici...» Corradino era caduto prigioniero. Condotto a Napoli in catene, fu decapitato sulla piazza del mercato.

 

Fonte: Indro Montanelli, Storia d’Italia, Edizioni del Corriere della Sera

Questa argomento è stata modificata 1 mese fa da mystes

oliver, oriundo2006 e Brule hanno apprezzato
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oriundo2006
Famed Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 3420
 

Quando comincerete a capire che il NEMICO principale dell' Italia è il VATICANO ?

Annebbiati dalla mitologia cattolica, desiderosi di sgravarvi di qualsiasi responsabilità financo delle vostra anima, non lo farete MAI.

Altri dovranno farlo per voi, reiterando l'antica servitù italica. 

Stavolta per sempre.

 


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mystes
Noble Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 1528
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Quando comincerete a capire che il NEMICO principale dell' Italia è il VATICANO ?

Dovrebbe tornare un Garibaldi, ma questa volta non credo che basterebbe. Il mostro ha messo radici profonde nella Città Sacra e non riesco proprio ad immaginare il tipo di uomo capace di sradicarle e restituire ai giudei il loro figliolo con o senza la croce. 


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