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Borderline: la fatalità di Limonov


Tao
 Tao
Illustrious Member
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A proposito della Giornata mondiale del libro, quanti sono ancora quelli non letti e incessantemente rimandati? Per pura indolenza, perché l’autore non ispira fiducia, perché ne parlano tutti o, persino, per quella chiassosa copertina per nulla accattivante. Alcune volte, rispetto ai romanzi contemporanei, si preferisce di gran lunga lasciare il passo ai classici – all’eterno della letteratura, per dirla con Bene – cui spesso non basta una sola volta per dire che li si è letti: bisogna tornarci, ma dopo anni, riscoprendone un senso e, dunque, un epilogo tutto nuovo. Mai, come nel campo della lettura, il tempo è prezioso: sono troppi, gli autori che non conosciamo, e molti quelli cui dovremmo tornare a fare visita.

Ogni tanto, però, è bene provare a contraddire le impietose previsioni, prendendo finalmente il famigerato libro e dando inizio alla lettura. La scoperta più piacevole che possa accadere è quella di essersi a lungo sbagliati. Così è il caso di Limonov, biografia di successo scritta da Emmanuel Carrère, che in Europa ha reso altrettanto celebre quel guazzabuglio d’uomo di Eduard Veniaminovich Savenko.

Personalmente, non avevo nulla contro l’autore, non avendolo mai letto: mi bastava semplicemente che fosse un contemporaneo, per rimandare di volta in volta l’incontro. È qui, il nocciolo della questione: per chi ha trascorso buona parte dell’esistenza nella rassicurante compagnia di romanzieri morti e dei loro protagonisti decisamente inattuali, il trovarsi faccia a faccia con i cosiddetti “contemporanei” può portare a una certa inquietudine d’animo.

È un vero e proprio handicap leggere i nostri attuali autori, la maggior parte dei quali produce cose che vanno bene per i supermercati, sugli scaffali accanto alla cassa, o per le librerie in franchising, mentre i restanti scrittori, inadatti a fronteggiare la crisi delle vendite, rimangono inediti. È il paradossale e parossistico suicidio dell’editoria, puntare il tutto e per tutto sul massiccio pubblico dei non leggenti.

Chi è davvero temerario e osa sfidare i propri pregiudizi, spesso si troverà di fronte ad aggiornati romanzetti Harmony, al momento in gran voga, ai quali però manca la genialità erotica di un Jean Genet; oppure approderà alle sgualcite confessioni di un tizio che voleva nascere donna, ma, detestando le donne, non sa più come sbrogliare il filo della matassa. Tanto alle trame quanto allo stile dei libri sta accadendo ciò che quotidianamente avviene sui giornali: sono impregnati di un’impietosa demenzialità, confinante con il nulla semantico. Le produzioni letterarie somigliano le une alle altre e anche questo è il frutto dell’appiattimento intellettuale, geografico e persino sessuale dei nostri anni.

“Limonov”, o meglio Eduard Veniaminovich Savenko, grazie alle cui gesta è nata la biografia, è l’esatto contrario dell’informe individuo odierno: si distingue e spicca, lui, sempre e comunque, nel bene come nel male.

Può risultare inviso a molti, il nostro, e può sembrare che viva un po’ a casaccio, un po’ di espedienti e un po’ troppo vanitosamente, eppure c’è un dettaglio che lo salva: lui è pienamente al centro della vita e anche della Storia. Basta già questo, a fare invidia.

Cresciuto nei sobborghi dell’ex Unione Sovietica, Eduard passa dal punk al manufatto poetico per tentare di salvarsi da un destino già scritto; ma egli pare appartenere più al Fato, e così parte insieme alla sua prima giovanissima moglie alla volta di New York, in cui gli esuli e gli immigrati restavano, e restano, perfettamente tali. Abbandonato dalla donna, diviene il maggiordomo personale di un miliardario liberale e, occasionalmente, si conforta con i negri; di queste liaisons scriverà in un libro, pubblicato poi a Parigi – I poeti russi preferiscono i grandi negri – che riscuoterà un successo notevole, per un semplice esordiente. Trasferitosi a Parigi, frequenterà la gente bene ma, pur continuando a esercitare la scrittura come mestiere, resterà un autore marginale confinato in un monolocale di periferia. Per lui, sarà come ritrovarsi sbattuto nel suburbio dell’esistenza. Eduard che nutre un’incrollabile fede in se stesso, ambisce alla gloria, ma non solo per la fama e il glamour, ma anche per sentirsi a proprio agio: deve bruciare, per dirsi vivo; questa è la sua immanente condizione d’essere.

Ritroverà il suo fuoco presso la guerra che incombe nell’ex Jugoslavia; entrerà nella Guardia Volontaria Serba e diverrà amico del comandante Arkan, deludendo i suoi amici e ammiratori d’oltralpe. Non gliene potrà fregare di meno, per lui varrà il fierissimo motto «sgozzare i croati e i musulmani non con un coltello, ma con un cucchiaio arrugginito»; è la filosofia pragmatica di Limonov, questa esuberante presa di posizione che nulla concede alle pastoie del moralmente corretto. Da lì in poi sarà un crescendo d’avventura; un’avventura avvinghiata alla morte dei commilitoni, dei nemici, dei civili tutti, e dunque di piena aderenza alla vita.

Al suo ritorno in Russia, Limonov proverà grande smarrimento di fronte alla definitiva caduta del comunismo – padroneggiato sì da un sogno folle, ma tuttavia sogno – equivalente poi alla stessa caduta morale di milioni e milioni di Russi, che saranno costretti a recitare un lunghissimo mea culpa per avere anche loro combattuto, creduto e infine obbedito; Pena, un’impietosa povertà e una fosca nomea.

Tra le macerie russe avverrà l’incontro con il grande filosofo Dugin, che gli presenterà nuovi tipi di Übermenschen come il barone Ungern Sternberg e Yukio Mishima; da quell’intesa ascetica e rivoluzionaria nasceranno il Partito Nazionalbolscevico e un giornale, Limonka.

In seguito a infondate accuse di terrorismo, banda armata, detenzione di armi da fuoco e istigazione ad attività sovversive atte a “destabilizzare il Kazakhistan”, Eduard finirà prima nelle segrete di Lefortovo e poi in quelle di Saratov: luoghi che lo vedranno perfettamente ambientato tra gli zek (prigionieri), molti dei quali incarnano “l’aristocrazia della mala”. Anche lui è un delinquente: da sempre ha violato le leggi della convenienza, del gregge, della democrazia.

In Limonov a contare non sono la vita rocambolesca né le attuali e ormai discutibili posizioni politiche, bensì il suo spirito vitale che ne ha fatto un esteta del gioco d’azzardo.

Quello spirito vitale che, in perfetta antitesi con la sacralità della vita, tende a infrangerla, a non addomesticarla alla prudenza, e dunque alla vigliaccheria, e a incendiarla per meglio risorgere. Perché, in ultima analisi, è il Fato da amare, non il destino.

Fiorenza Licitra
Fonte: www.ilribelle.com
28.04.2015


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