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L' innocenza dei dinosauri- Affrontare una malattia rara e assassina in un sistema sanitario allo sfascio


marcopa
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Intorno al libro «L’innocenza dei dinosauri» di Giovanna Ferrara, pubblicato da Fuorilinea

Andrea Colombo

il manifesto, dicembre 2024

 

Un’inchiesta a partire da sé

Nel corso della lunghissima e spietata battaglia contro la malattia e contro il sistema sanitario che alla fine la hanno uccisa, Giovanna mi telefonava periodicamente: «Dobbiamo occuparci molto più di sanità. Non puoi capire com’è la situazione reale. Io d’ora in poi non voglio fare altro». Era Giovanna: passionale, irruenta, generosa ma anche drastica e concreta. Tra una crisi e l’altra del suo male ha fatto quel che proponeva. Ha scritto un libro che è anche una inchiesta dall’interno su cosa voglia dire affrontare una malattia rara e assassina in un sistema sanitario allo sfascio.

Sono esperienze subìte in prima persona oppure viste e vissute nel letto accanto, con le degenti incontrate nei tanti ospedali nei quali è dovuta passare, raccontate con il talento della grande giornalista che era. Sono storie che stringono il cuore, lasciano sbalorditi, riempiono della stessa rabbia che trasuda da ognuna delle pagine in cui Giovanna Ferrara, intellettuale, giornalista e militante rivoluzionaria, ha raccontato la sua via crucis: L’innocenza dei dinosauri (Fuorilinea, pp. 196, euro 16.00).

In buona parte, quella guerra che Giovanna ha affrontato con un coraggio che si scopre per intero solo leggendo il suo libro, perché in pubblico era sempre sorridente e vulcanica, è stata combattuta negli anni del Covid. Malattia particolarmente subdola e pericolosa per chi aveva già i polmoni a pezzi. Dunque, Giovanna incrocia la sua storia personale con il quadro generale di quello sfacelo che è stata la pandemia, l’«Evento» come lo chiama lei e come aveva anche pensato di intitolare il suo libro. Pagina dopo pagina scopre e dimostra che non sono solo piani intrecciati. È la stessa storia, la medesima tragedia.

L’Evento è per il corpo di un intero paese quel che il morbo è per il singolo malato. Rivela con la brutalità cruda della malattia un’unica struttura perfida. Rinvia a identiche colpe originarie taciute, occultate, negate e poi, a emergenza conclusa, dimenticate e rimosse. Produce effetti uguali: espone i più deboli, e il malato è per definizione il più debole, a dinamiche di potere applicate nella loro dimensione più esplicita e feroce.

SONO I VECCHI mandati a morire in Lombardia perché «Milano non si ferma». Sono i pazienti a rischio esclusi dalla prima somministrazione del vaccino e quando proprio l’autrice di questo libro porterà lo scandalo in televisione l’allora sottosegretario Sileri si scuserà con lei: «Ce ne eravamo dimenticati». È Giovanna tenuta per ore nella sala d’aspetto di un pronto soccorso con la polmonite galoppante o lasciata in un lettino al gelo nonostante la fragilità e il massimo pericolo perché non ci sono coperte e comunque l’infermiera è troppo occupata, o troppo di cattivo umore, per darsi da fare e coprire la paziente a rischio di polmonite fulminante.

La malattia, come la pandemia, mette il soggetto debole alla mercé dei sadismi, del capriccio o semplicemente della inettitudine di chi in quel momento detiene un potere che è quasi di vita o di morte. Decide il caso in quali mani ci si troverà, se in quelle gelide e distanti di medici che nemmeno ti guardano in faccia o in quelle attente di chi capisce come un solo gesto, i capelli raccolti sotto la cuffia prima di un intervento, possa diventare balsamo.

MA LE RADICI E LE ORIGINI non sono altrettanto casuali. È la logica spietata del profitto, dei diktat europei, della difesa dei conti pubblici che sopravanza di molte lunghezze quella della vita, fattore trascurabile. L’innocenza dei dinosauri non è il memoir di una malata grave: è un trattato politico.
Alcune case editrici, quando fu presentato il manoscritto, chiesero di eliminare le parti sul Covid: «Non importa più a nessuno». Non è possibile immaginare conferma più raggelante di tutto quel che in questo libro viene sia analizzato minuziosamente che denunciato senza lamentosità ma con giustificata furia. «D’ora in poi cambierà tutto», veniva ripetuto in quei mesi tremendi. Il pochissimo che è cambiato lo ha fatto in peggio. Tanto «non importa più a nessuno».

Nonostante la durezza estrema, a volte insopportabile, delle sue condizioni, Giovanna riesce a non perdere la sua prorompente vitalità, persino una indomita gioiosità. Sa ridere con le amiche anche nei momenti più difficili. È capace di estrarre il meglio da un percorso che sembrerebbe poter offrire solo il peggio. Dunque esalta tutto quel che di buono le succede, tutto quel che scopre nelle persone che incontra, siano le altre malate o quei medici che figurano anche loro come vittime di un sistema imploso. Quelli che provano a turare le falle nella diga della sanità italiana con le dita. È anche questa politica. Al cinismo e all’ottusità dell’istituzione si può contrapporre solo la capacità di reagire cooperando da parte di chi di quell’istituzione è vittima. Le malate. Le degenti. Le vittime che imparano a prendersi cura ciascuna anche delle altre.

NATURALMENTE questo libro è anche la mappa di una radicale esperienza interiore. Supportata dal buddismo, presenza discreta ma continua in queste pagine, Giovanna aveva reso la malattia un percorso di cambiamento e crescita eccezionale. Forse è stata la sorte a impedire che quel percorso fosse coronato dalla guarigione ma forse, invece, è stato proprio quel sistema perverso che L’innocenza dei dinosauri racconta e sviscera così perfettamente.
Giovanna Ferrara aveva una penna magica e ha scritto molto, a partire dai suoi pezzi su questo giornale che non ha mai smesso di considerare la sua prima comunità di appartenenza. Di libri ce ne ha lasciato uno solo. Bellissimo.

 

Un estratto dal libro  L’innocenza dei dinosauri di Giovanna Ferrara

La mia malattia viene da lontano. Da cause che possono essere solo ipotesi. E non è solo nebulosa riguardo al passato, è anche imprevedibile e capricciosa riguardo alle progressioni o alle stabilità. È una malattia-domanda, una malattia-ricerca, una malattia che convoca la scienza, la coscienza, le istituzioni, i medici, i riabilitatori, gli affetti su uno sgabello al centro di una stanza e indaga essenza, segreto e proporzioni della vita. Convoca anzitutto me, l’uso che ho fatto di me, le offese arrecate alla salute, che è un mondo così più complesso e grande e sfaccettato e potente di quello che ci spacciano. (…)

Quella domenica al San Camillo non passa. È diventata un incastonamento eterno nel tempo e nello spazio. Uno stupore inesaurito mi porta a ripensarci sempre, credo ogni giorno. Poter morire così, per l’attesa dell’infermiera che ti fa l’anagrafica, sarebbe potuto succedere. Come è successo tante volte in questo paese ottuso e straziato da una disumanità che è diventata metodo esistenziale. Nella sala del Pronto soccorso, una volta che sono riuscita ad accedervi, eravamo in una novantina. Tantissimi gli anziani che stavano lì anche da tre giorni. «Lì» si deve immaginare come uno stanzone coi neon, le barelle una vicina all’altra in un mosaico di dolori e sintomi differenti.
Qualcuno vomitava vicino al ragazzo che aveva fatto l’incidente in motorino. Molti dei vecchi entravano ed uscivano da stati di incoscienza, da soli, in una solitudine totale dove la loro anima si trovava al centro di un niente senza orizzonte, di una disorganizzazione collettiva che aveva gli occhi lucidi e persi di chi vede qualcosa oltre il margine della vita e prova la malinconia di quel modo sconcio in cui nasce la possibilità di andarsene. Io respiravo sempre peggio, cominciavo a sentire quel freddo particolare che inonda il corpo quando il corpo comincia a non farcela più a tirare avanti il complesso gioco degli organi e della loro continua risonanza. Sono momenti in cui la disperazione ti invade, perché sai che se non hai più la forza di chiedere di essere portata in sala operatoria, se non hai la forza di spiegare che le cose si stanno facendo critiche, sai che nessuno se ne accorgerà. Morire per l’invisibilità che assegnano a 90 persone che stanno male o malissimo.

Da qualche profondità sottomarina, da quel mistico che è la decisione assoluta di voler continuare ad esistere, mi nacque un pianto disperato. Tutto il respiro che avevo era pianto, pianto che spezzava quell’oceanica indifferenza. Pianto per me, per tutti, per la signora vicina col femore rotto che vedeva dei ragni sul soffitto, pena per quelle infermiere stravolte da una cattiveria confezionata come risposta ai turni massacranti, al fetido della manutenzione.

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