Riabilitiamo la teo...
 
Notifiche
Cancella tutti

Riabilitiamo la teoria del valore


delino
Trusted Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 65
Topic starter  

Augusto Graziani, Riabilitiamo la teoria del valore (da I conti senza l’oste, Bollati Boringhieri, pp. 235-240).

Riabilitiamo la teoria del valore

di Augusto Graziani

Non poco dell’insegnamento economico di Marx è stato assorbito silenziosamente da economisti di tradizione estranea al marxismo. Non è difficile scoprire, all’interno della tradizione economica borghese, l’esistenza di una vasta corrente sotterranea di origine marxiana, a volte sepolta nel profondo, a volte affiorante in superficie, comunque sempre presente e vitale.

L’analisi di Marx, per chi volesse utilizzare un termine moderno, può dirsi impostata in termini macroscopici. La definizione marxiana del capitalismo come sistema basato sulla separazione fra lavoro e mezzi di produzione, e sulla conseguente contrapposizione tra una classe di capitalisti proprietari e una classe di lavoratori nullatenenti, è espressa direttamente in termini di struttura sociale. Questa definizione del capitalismo, come sistema costituito da classi in conflitto, è quasi superfluo ricordarlo, viene fermamente respinta dalla teoria economica borghese, la quale resta saldamente affezionata all’idea del mercato come libera palestra di contrattazione, nella quale i singoli affermano le proprie preferenze e difendono i propri interessi.

L’imposizione individualistica, com’è noto, prende come punto di partenza l’agire del singolo individuo e, dall’analisi del comportamento del singolo, desume l’assetto globale del sistema economico. A questa procedura, Marx, con la sua impostazione macroeconomica, contrappone una procedura inversa, di contenuto storico e concreto. Ridotta all’essenziale, la sua logica può essere espressa così: poiché l’esperienza storica mostra che un sistema sociale quale il capitalismo, basato sulla separazione tra lavoro e mezzi di produzione, si è affermato e perdura, ciò significa che i soggetti che lo compongono si comportano in modo da garantire la sopravvivenza. Compito dell’analisi economica è proprio quello di scoprire tali regole di sopravvivenza. Per spingersi nel profondo, occorre scoprire le vere condizioni di equilibrio del sistema economico, che sono le condizioni della sua riproduzione. Questo è il compito che Marx assegna alla scienza economica. Per un economista, questa regola di metodo significa riconoscere priorità e autonomia all’analisi macroeconomica, lasciando all’analisi microeconomica (e cioè allo studio del comportamento individuale) il carattere di residuo derivato.

L’analisi di classe della società capitalistica conduce immediatamente Marx a una descrizione del processo economico inteso come circuito monetario. I lavoratori, privi per definizione di mezzi di produzione, non possono avviare alcuna attività produttiva. Le imprese, a loro volta, possono farlo soltanto dopo aver acquistato forza-lavoro. Il processo economico si mette dunque in moto soltanto nel momento in cui le imprese, ottenuto un finanziamento monetario dal settore delle banche, acquistano forza-lavoro e realizzano il processo produttivo. Lo stesso processo si conclude allorché le imprese, avendo vendute le merci prodotte, rientrano in possesso della moneta erogata e rimborsano alle banche il credito inizialmente ricevuto.

L’idea del processo economico come circuito monetario, più volte scoperta e più volte dimenticata, è alla base di numerose acquisizioni teoriche. Ne citeremo soltanto tre. Nell’analisi del processo economico come circuito monetario, la moneta compare come credito iniziale concesso alle imprese per l’erogazione dei salari e l’acquisto di forza-lavoro. Allorché la moneta entra nel circuito, essa rappresenta quindi il capitale investito dall’imprenditore e impegnato nel processo produttivo a scopo di profitto. La moneta non è quindi, così come vorrebbe la teoria individualistica, un semplice intermediario dello scambio, introdotto a guisa di perfezionamento tecnico allo scopo di superare gli inconvenienti del baratto. Nell’assetto capitalistico, la moneta è il capitale iniziale di cui si avvale l’imprenditore per l’acquisto di forza lavoro. La circolazione monetaria, quindi, non svolge unicamente la funzione di consentire più agili rapporti commerciali, ma anche quella assai più rilevante di mettere in rapporto la classe dei capitalisti con quella dei lavoratori.

È sempre la definizione del processo economico come circuito monetario che consente di analizzare il fenomeno della crisi. Tale fenomeno si presenta come un arresto del circuito. Nulla garantisce infatti che, nel corso del processo economico, i redditi monetari percepiti vengano spesi per intero. Fintantoché ciò avviene, la continuità del processo economico è assicurata. Ma se, per ragioni connesse alle prospettive più o meno pessimistiche degli imprenditori o degli speculatori, risulta conveniente trattenere ricchezza in forma liquida, il circuito si arresta e subentra la fase di crisi.

A sua volta, il problema della crisi è strettamente legato a quello della disoccupazione e del funzionamento del mercato del lavoro. Nell’immediato, la crisi si manifesta attraverso la presenza di merci prodotte e non vendute; ma, se la crisi si protrae, il volume di produzione finisce con l’adattarsi al livello della domanda e il fenomeno delle merci non vendute scompare. A questo punto, la crisi si manifesta soltanto nel mercato del lavoro, sotto la forma di disoccupazione. Secondo la teoria tradizionale, anche in questo mercato, grazie al gioco della domanda e dell’offerta, si dovrebbe giungere prima o poi a un assetto di equilibrio. La teoria del processo economico come circuito monetario aiuta a comprendere perché invece ciò non accada, e come la disoccupazione scompaia soltanto quando gli imprenditori, in base alle loro previsioni e secondo strategie proprie, decidono di porvi fine, rimettendo in moto il processo produttivo.

Da questa analisi della disoccupazione discende infine un ultimo insegnamento, anche questo più o meno tacitamente assorbito da vasti settori dell’economia non marxiana. È noto che, secondo la teoria tradizionale della domanda e dell’offerta, il lavoratore per il fatto stesso di possedere una capacità lavorativa e di poter offrire il proprio lavoro, sarebbe titolare di una ricchezza immediatamente convertibile in altri beni. La teoria del processo economico come circuito insegna invece che l’offerta di lavoro in sé non conferisce al lavoratore alcun comando diretto sui beni, se non dopo che il lavoro sia stato convertito in moneta, il che avviene soltanto nei limiti in cui gli imprenditori-capitalisti in base a propri calcoli personali, decidono che ciò debba avvenire. Il lavoro in sé non è quindi ricchezza; lo diventa subordinatamente a una decisione dell’imprenditore. Il capitalista, nel mettere in moto il circuito monetario, è spinto dall’intento di conseguire un profitto o, nella terminologia marxiana, di accrescere il valore del capitale investito.

Sul problema del valore e della sua misurazione, lo scontro fra teoria marxiana e teoria borghese é stato il più lungo e accanito. È opinione comune, condivisa al giorno d’oggi sia a destra sia a sinistra, che su questo terreno Marx sia rimasto soccombente. Senza pronunciarsi su questo verdetto, cerchiamo di individuare gli insegnamenti che anche per questo aspetto la teoria marxiana è in grado di dare. Nell’affrontare il tema del valore, il primo punto da stabilire è che l’intero problema va studiato nell’ottica che abbiamo detto macroeconomica: non già quindi dal punto di vista del capitalista singolo, in lotta con i suoi concorrenti, bensì nella prospettiva generale che contrappone l’intera classe dei capitalisti a quella dei lavoratori. In questa ottica, di classe, valorizzazione significa non già produzione di profitto individuale per il singolo capitalista, e tanto meno creazione di valore per la collettività, bensì accrescimento di ricchez
za per la classe dei capitalisti.

Se ci poniamo in questa prospettiva, emerge un primo risultato significativo: nessuno scambio che rimanga puramente all’interno del sistema delle imprese può contribuire alla valorizzazione del capitale investito; infatti, ogni vantaggio che un singolo capitalista dovesse eventualmente trarre dallo scambio con altri capitalisti sarebbe compensato da una perdita identica a carico della sua controparte, e le sue partite si annullerebbero a vicenda. La trasmissione di materie prime, di macchinari, o di beni intermedi da un capitalista all’altro, non può quindi produrre alcun valore aggiuntivo per la classe dei capitalisti nel suo insieme. I beni strumentali possono tutt’al più trasmettere immutato il proprio valore, passando da un capitalista all’altro (di qui la denominazione di capitale costante che Marx assegna ai mezzi di produzione materiali). La valorizzazione del capitale, per i capitalisti come classe, può derivare unicamente da scambi che i capitalisti effettuino al di fuori della propria classe, e quindi nell’unico scambio esterno possibile, che consiste nell’acquisto di forza-lavoro. Soltanto nella misura in cui i capitalisti utilizzano lavoro e si appropriano di una parte del prodotto ottenuto, essi possono realizzare un sovrappiù e convertirlo in profitto ( di qui l’insistenza di Marx sul fatto che sovrappiù e profitto nascono esclusivamente nella fase della produzione).

Giungiamo così ad una ulteriore conclusione, frutto anch’essa dell’impostazione stessa del ragionamento: che il profitto dei capitalisti come classe nasce unicamente dal rapporto che si instaura fra capitalisti e lavoratori e che di conseguenza esso può nascere soltanto dalla differenza fra quantità di lavoro totale impiegato e quantità di lavoro che torna al lavoratore sotto forma di salario reale.

Resta un punto da esaminare. Se, come abbiamo visto, soltanto l’impiego di lavoro produce una valorizzazione del capitale investito, sembrerebbe potersene dedurre che soltanto il lavoro attribuisca valore alle merci e che di conseguenza le merci debbano anche scambiarsi sul mercato secondo prezzi relativi proporzionali al lavoro contenuto in ciascuna di esse. Questa è la versione volgare della teoria del valore-lavoro, versione che peraltro lo stesso Marx non ha mai sostenuto, e che si può dire sia servita principalmente agli avversari della dottrina marxiana come pretesto per confutarne la fondatezza. Marx non sostenne mai che le merci si dovessero scambiare secondo il valore contenuto in ciascuna di esse, per il semplice fatto che questa proposizione non discende in alcun modo dalle premesse del suo ragionamento. Abbiamo detto che il problema della valorizzazione investe la classe dei capitalisti nei suoi rapporti con i lavoratori; lo scambio di merci, in quanto fenomeno interno alla classe dei capitalisti, costituisce invece un problema del tutto diverso. Plusvalore e profitto possono trarre origine soltanto da un rapporto fra le due classi; ma lo scambio di merci e tutt’altra cosa, in quanto fenomeno interno alla classe dei capitalisti. I prezzi relativi delle merci si formano infatti negli scambi fra capitalisti, sotto il dominio della regola della concorrenza, fenomeno questo che riguarda esclusivamente i capitalisti nei loro rapporti reciproci.

In questo campo, valgono le regole dell’equilibrio concorrenziale (mille volte esposto in forma analitica’, dall’equilibrio generale di Walras alla teoria dei prezzi di Sraffa), regole che spiegano appunto la determinazione dei prezzi relativi nello scambio fra merci. Tale scambio non dà luogo a rapporti fra classi e non configura alcun fenomeno di valorizzazione. È quindi erroneo affermare, come peraltro sovente viene fatto, che nella spiegazione dei prezzi, la teoria marxiana del valore fallisca. Si tratta infatti di un fenomeno nel quale, non essendovi un problema di valorizzazione da analizzare, la teoria marxiana del valore non entra in modo diretto. La teoria del valore spiega che il plusvalore ottenuto dall’utilizzazione della forza- lavoro è l’unica ricchezza che i capitalisti nel loro complesso possano spartirsi e convertire in profitto; per cui, nel suo complesso, l’elemento di profitto contenuto nei prezzi di mercato discende dal modo in cui si è realizzato il rapporto tra classi. Ma, al di là di questo collegamento, resta il fatto che analisi dei rapporti tra classi, o analisi sociale macroeconomica da un lato, e analisi dei rapporti interni a una singola classe, o analisi microeconomica concorrenziale dall’altro, sono fenomeni diversi, che rispondono necessariamente a logiche distinte.

da: http://zeroconsensus.wordpress.com/2014/01/07/riabilitiamo-la-teoria-del-valore/


Citazione
Truman
Membro Moderator
Registrato: 3 anni fa
Post: 4113
 

Nessuna delle teorie del valore classiche (compreso Marx) o neoclassiche attribuisce valore alle risorse naturali non rinnovabili. Cosucce come il petrolio per loro contano solo per quanto riguarda i macchinari e le spese per il personale.

Ho visto cose più serie al teatro dell'assurdo di Ionesco o Beckett.


RispondiCitazione
delino
Trusted Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 65
Topic starter  

La scomparsa di Augusto Graziani

Riccardo Realfonzo* - 08 Gennaio 2014

Il 5 gennaio si è spento Augusto Graziani, economista di fama mondiale, guida per tante generazioni di economisti, riferimento per chi non crede al potere taumaturgico del mercato. La redazione di Economia e Politica partecipa alla commozione del mondo della cultura per la scomparsa del Maestro, che era anche membro del Comitato Scientifico della nostra rivista.

Gli economisti e il mondo progressista del nostro Paese sono più soli e poveri. Nella sua casa di Napoli, se n’è andato il maestro dei keynesiani italiani, il professore Augusto Graziani. Economista di fama mondiale, secondo molti il principale esponente della accademia italiana della seconda metà del Novecento, per un paio di anni senatore dei DS, accademico dei Lincei, Graziani è stato punto di riferimento di tutti coloro che, in Italia e all’estero, non credono che il mercato sia la panacea di tutti i mali e piuttosto che il capitalismo necessiti dell’intervento dello Stato, soprattutto per sostenere l’occupazione e regolare la distribuzione del reddito.

Graziani è stato in primo luogo un caposcuola. La sua elaborazione teorica nasce da un confronto senza sosta con i teorici del passato, giganti come Marx, Schumpeter e Keynes. La “teoria monetaria della produzione” di Graziani nasceva da una reinterpretazione degli scritti di Keynes e muoveva dalla sua potente visione del funzionamento dell’economia capitalistica, di tipo classico, secondo la quale il livello di produzione, l’occupazione e la distribuzione del reddito sono sempre il risultato dell’interazione tra forze sociali, con interessi spesso in conflitto. Nella visione di Graziani, nel suo celebre modello di “circuito monetario”, la moneta era la chiave di accesso alla produzione capitalistica e al tempo stesso il fine dell’attività produttiva. E tutto ciò è già sufficiente a comprendere quanto lui fosse lontano dai dogmi dell’economia neoclassico-liberista. C’è da credere che il suo libro “The Monetary Theory of Production”, pubblicato a Cambridge nel 2003, resterà uno dei classici del pensiero economico.

Gli studi di politica economica di Augusto Graziani ne hanno fatto un profeta, spesso inascoltato, di sempre maggiore attualità. Basti dire che negli anni ’90 e poi nei primi anni del nuovo secolo, in una Italia ancora euro-entusiasta, Graziani fu il primo a spiegarci che la moneta unica era stata costruita su basi scricchiolanti, perché le regole macroeconomiche costringevano gli Stati e la Banca Centrale Europea a politiche di austerità. E ciò avrebbe messo a serio rischio la tenuta dell’eurozona. Subito dopo l’introduzione dell’euro, lui spiegava che tutte le banconote sono contrassegnate in modo da comprendere quale fosse la banca centrale nazionale di provenienza: un salvagente per consentire un eventuale “comodo” ritorno alle vecchie monete nazionali.

Ancora prima, Graziani aveva previsto che “un paese a struttura industriale tecnologicamente debole, che si regge nel mercato soltanto per la compressione del costo del lavoro”, avrebbe preso la via del declino. Per contrastare questo esito servivano - e servono - politiche industriali incisive, che facciano compiere alle nostre imprese un salto tecnologico e dimensionale.

In effetti, Graziani conosceva a perfezione le “strozzature” alla crescita del nostro Paese, come comprende chiunque legga il suo bellissimo “Lo sviluppo dell’economia italiana” (1998). Ad esempio, non ha mai smesso di spiegare che la montagna di debito pubblico che ci portiamo sul groppone era in buona misura l’altra faccia dell’inadeguatezza del nostro apparato produttivo. E ciò perché gli elevati tassi di interesse del passato erano serviti a favorire afflussi di capitali adeguati a compensare la cronica tendenza al disavanzo della bilancia commerciale.

Oltre tutto questo Graziani è stato sempre uno studioso militante, vicino agli interessi dei più deboli e generosamente in prima linea nel difendere la classe lavoratrice. Perché alla fine dei conti l’economista non è mai un tecnico neutrale e lui aveva deciso da che parte stare. Ed è questo l’insegnamento più grande che il Maestro ha regalato a noi suoi allievi: l’amore per la ricerca, il rigore morale, la tensione per la giustizia sociale.

* Pubblicato anche da L’Unità, 6 gennaio 2014
- See more at: http://www.economiaepolitica.it/index.php/universita-e-ricerca/la-scomparsa-di-augusto-graziani/#.Us8F3KDMunA


RispondiCitazione
delino
Trusted Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 65
Topic starter  

Graziani: il rigore della critica al pensiero dominante

Il manifesto, 7 gennaio 2014

di Emiliano Brancaccio

Augusto Graziani è morto l’altro ieri, a Napoli, pochi mesi dopo le celebrazioni per i suoi ottant’anni. Scompare così il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante. Nell’opera di ricerca, così come nella didattica e nella divulgazione, Graziani ha incarnato una miscela per certi versi unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche. Quello stesso spirito tuttavia sembrò pure obbligarlo a un voto di perenne sobrietà: un velo di rigoroso understatement, sempre lì a celare la sua grandezza. Nell’epoca della mediocrità alla ribalta lo si potrebbe definire un uomo d’altri tempi. Appellativo condivisibile, purché ci si riferisca non solo al passato ma anche e soprattutto al futuro. In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici. Attualissimi, in questo senso, sono i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea.

Nel 2002, a Napoli, nell’aula Vanvitelliana della facoltà di Scienze politiche, Graziani tenne una lezione sull’euro appena entrato in circolazione. I colleghi ad ascoltarlo vennero numerosi. La sensazione era che i più lo onorassero senza esser minimamente persuasi dal suo scetticismo sulla sostenibilità futura dell’eurozona. Sarebbe ingeneroso criticarli, col senno di poi. Dopotutto la grancassa dell’ideologia in quei giorni operava a pieno ritmo, seducendo persino le menti più brillanti e avvezze alla critica. Graziani peraltro è sempre parso alquanto refrattario alle opere di seduzione ideologica. I suoi dubbi sulla moneta unica, ben saldati sul terreno dei fatti, non si limitavano a trarre spunto dalla nota lezione keynesiana sulla insostenibilità di quelle unioni valutarie che pretendono di scaricare l’intero peso dei riequilibri commerciali sui soli paesi debitori. Vi era pure, nella sua analisi, una lettura implicita del concetto marxiano di centralizzazione dei capitali, e dei tremendi conflitti politici che possono derivare da essa. Il pessimismo di Graziani era dunque fondato su una consapevolezza profonda dell’equilibrio precario su cui verteva il processo di unificazione europea, e del rischio che prima o poi la situazione potesse precipitare sotto il giogo di meccanismi favorevoli all’economia più forte del continente. Veniva così a crearsi uno scenario propizio per la riscoperta del sinistro monito di Thomas Mann sull’essenza dello spirito prevalente in Germania: “Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonio”.

Nel clima di entusiasmo suscitato dalla nascita dell’euro, tuttavia, le preoccupazioni di Graziani non attecchirono. Nel nostro paese, piuttosto, trovò largo seguito l’improbabile ideologia del “vincolo esterno”. I suoi propugnatori sostenevano che i vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici, non costituivano la dimostrazione che l’Unione andava costituendosi a immagine e somiglianza degli interessi del più forte, ossia del capitalismo tedesco. Piuttosto, si diceva, quei vincoli avrebbero miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi dello stagnante e frammentato capitalismo italiano in algidi principi della modernità globale, in vere e proprie avanguardie della produzione planetaria. Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria hanno incredibilmente sostenuto che il vincolo esterno imposto dall’Europa potesse spontaneamente fare tutto questo, sia pure in un deserto di progettualità e di investimenti. In tanti furono abbagliati da simili illusioni. Di contro, in un articolo pubblicato sempre nel 2002 sulla International Review of Applied Economics, Graziani fu tra i pochi a segnalare che il vincolo esterno avrebbe potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello annunciato. Egli cioè previde che i capitalisti italiani avrebbero tentato di rimediare alla perdita delle ultime leve della politica economica tramite una ulteriore frammentazione dei processi produttivi, finalizzata a reiterare il lassismo in campo fiscale e contributivo e ad accelerare la precarizzazione del lavoro. Fino a scoprire, nella crisi, che questi rozzi tentativi di contrazione dei costi non potevano reggere a lungo.

Oggi sappiamo che le cose sono andate come Graziani aveva previsto. Sappiamo pure che, proseguendo di questo passo, l’inasprirsi dei conflitti tra capitalismi europei potrà condurre a un tracollo dell’Unione che porrà i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro, ognuna delle quali avrà diverse implicazioni sui diversi gruppi sociali coinvolti. I contributi di Graziani, fondati su una visione moderna delle contrapposizioni tra e dentro le classi sociali, potranno aiutarci anche ad afferrare i termini di quello snodo decisivo che pian piano affiora all’orizzonte. Purtroppo, specialmente tra gli eredi più o meno diretti del movimento dei lavoratori, vi è oggi ancora chi preferisce distogliere lo sguardo da questa realistica prospettiva, e continua ad affidarsi alle sempre più flebili speranze di rilancio dei nobili ideali europeisti. Eppure in tempi più illuminati del nostro è stato detto acutamente che l’invito a sperare è in fondo un invito a ignorare. Chi conosce non spera ma prevede, e se le condizioni oggettive e la metodica organizzazione delle forze lo permettono, si dispone ad agire per il cambiamento. Credo che la vita intellettuale di Augusto Graziani abbia ben rappresentato questo saggio modus operandi.

Emiliano Brancaccio


RispondiCitazione
Condividi: