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Africom, le mani di Bush sul petrolio


Tao
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Illustrious Member
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La giovane democrazia mauritana, presentata come modello di transizione pacifica per il continente solo poco più di un anno fa, è stata interrotta ieri, dopo uno scontro al vertice in corso da qualche mese. Il capo di stato maggiore dell'esercito ha preso il potere e fatto arrestare il presidente della Repubblica Dal Congo alla Mauritania, gli Stati uniti aumentano la presenza militare in Africa e «consigliano» i governi

A comprova dell'«importanza dell'emergenza strategica in Africa», nel febbraio 2007 il presidente Bush ha deciso la creazione di Africom, l'organismo che controlla le forze militari Usa in Africa. Africom, come Centcom (Controllo militare centrale) e Eucom (Controllo militare Europeo), accentra tutta l'autorità delle forze militari che operano sul territorio africano sotto un'unica struttura di controllo. Africom demanda anche molti compiti di natura non militare - come la costruzione di scuole e lo scavo di pozzi - che prima appartenevano ad agenzie Usa, alla giurisdizione del Dipartimento della difesa. A giustificare l'istituzione di Africom è la lotta al terrorismo in Africa, il petrolio sembra esserne però lo scopo più fondato. «Una missione chiave per le forze militari Usa in Africa, mira ad assicurare che le zone petrolifere della Nigeria, che in futuro potrebbero costituire il 25 per cento di tutto il petrolio importato dagli Usa, siano garantite», spiega il Generale Charles Wadd, comandante delle forze militari Usa in Europa, in un'intervista rilasciata al giornalista Greg Jaffe del Wall Street Journal.

Per assicurare e mantenere la via d'accesso al petrolio - non solo per la nazione, ma anche per le compagnie petrolifere - l'amministrazione Bush si è affidata totalmente alle forze militari. Lo scrittore Kevin Phillips ha coniato il termine «imperialismo petrolifero» per descrivere le politiche dell'amministrazione Bush al riguardo, «l'aspetto determinante è la trasformazione della forza militare Usa in una realtà che mira a esercitare una sorta di protezionismo sull'economia mondiale del petrolio». Sotto l'egida della guerra al terrorismo, Bush ha realizzato il più grande rafforzamento delle forze militari che ci sia mai stato dopo la fine della Guerra Fredda. Se si osserva la mappa delle operazioni oltreoceano del Big oil, delle riserve petrolifere rimanenti del mondo, e delle rotte per il trasporto di petrolio, si può avere un'idea di quel rafforzamento e prevedere il futuro spiegamento delle forze militari Usa. L'Africa, con quasi il 10 per cento delle riserve di petrolio rimanente, è un'area dove si accresce l'attività del Big Oil e delle forze militari americane. Secondo il Dipartimento dell'energia degli Stati uniti, tra il 2000 e il 2007 le importazioni Usa di petrolio dall'Africa sono aumentate del 65 per cento, da 1.6 a 2.7 milioni di barili al giorno. Queste importazioni hanno evidenziato la crescita in percentuale di tutto il petrolio importato dagli Usa: una crescita che va dal 14.5 per cento nel 2000 al 20 per cento nel 2007. E per il futuro si prevede un ulteriore aumento. Non solo gli Usa importano più petrolio dall'Africa, ma le compagnie petrolifere americane stanno potenziando le loro riserve africane e la presenza in quel continente. Secondo i dati del Sec del 2008, Chevron, ConocoPhillips e Marathon, tra le altre compagnie petrolifere americane, stanno aumentando la loro presenza con operazioni in tre o più fra i seguenti paesi: Algeria, Angola, Camerun, Ciad, Repubblica del Congo, Repubblica democratica del Congo, Guinea Equatoriale, Gabon, Libia, Nigeria. A detta del Segretario del Dipartimento Usa per l'Energia, Samuel Bodman, le compagnie petrolifere americane sperano di espandere ulteriormente le loro operazioni e includere nei loro futuri obiettivi il Madagascar, Il Benin, Sao Tome e Principe, e la Guinea-Bissau.
Anche la Shell e la Bp, entrambe con grosse società affiliate attive nelle campagne politiche Usa e nelle manovre delle lobby nazionali, stanno espandendo le loro operazioni in Africa, già ora importanti.

L'amministrazione Bush ha coinvolto sempre di più il Dipartimento della difesa per rendere più stabili i governi africani che sostengono il governo Usa e le compagnie petrolifere (affiliate agli Stati uniti) e per garantirsi la disponibilità della popolazione (che qualcuno potrebbe definire sottomessa). L'amministrazione ha aumentato le forniture di armi e addestramento militare all'Africa, di cui oggi sono destinatari diretti Angola, Algeria, Botswana, Ciad, Costa d'Avorio, Republica del Congo, Guinea Equatoriale, Eritrea, Etiopia, Gabon, Kenya, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Sudan e Uganda. Il Generale James Jones, comandante dell'Eucom, ha annunciato che le corazzate della Marina americana potrebbero diminuire le loro visite nel Mediterraneo e «trascorrere più tempo percorrendo le coste occidentali dell'Africa». Nella base della Legione straniera francese di Camp Lemonier, a Gibuti, i militari Usa, che si sono uniti nel 2003 alla Task force del Corno d'Africa, sono ormai di casa.
Africom attualmente ha il suo quartier generale in Germania, ma quest'anno intende «stabilire la sua presenza» nel continente africano. Ci sono molte opzioni per le nuove basi militari Usa, inclusa una base navale e un porto sulla piccola isola di Sao Tome sulla costa del Gabon, nell'Africa occidentale. Il Pentagono sta considerando anche l'idea di nuove basi in Senegal, Ghana e Mali.
Le compagnie petrolifere americane hanno usato le forze militari e di sicurezza africane per salvaguardare i propri interessi. Forse sarebbe più onesto da parte loro che la supervisione di tali operazioni fosse più chiara. Ma i rischi alla lunga superano i benefici. Gli Usa sono già impegnati in una guerra per il petrolio in Iraq e le loro forze armate ne sono consapevoli. John Abizaid, generale in pensione del Comando centrale e delle operazioni militari in Iraq, ha detto che lo scopo della guerra «è senz'altro il petrolio». Il problema è che, com'è stato per l'Iraq, una più massiccia presenza militare Usa in Africa aggraverà una già drammatica situazione che provoca ostilità interne, instabilità nazionale, e rabbia verso gli Stati uniti.

ANTONIA JUHASZ (Foreign Policy in Focus)
Fonte: www.ilmanifesto.it
Link: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/07-Agosto-2008/art66.html
7.08.08

(Traduzione di Silvana Pedrini)


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