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Baghdad - a Fort Alamo


Tao
 Tao
Illustrious Member
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I 100 soldati americani che ci abitano lo chiamano «Alamo», per quanto i loro superiori detestino ogni accenno alla sconfitta. E’ un campo di sei caserme pesantemente fortificate, in prima linea nella guerra combattuta tra sunniti e sciiti a Ghazaliyah, nella parte ovest di Baghdad. Non c’è acqua, non c’è riscaldamento, i servizi sanitari sono primitive latrine. L’unico pasto caldo giornaliero viene portato su un camioncino. Ogni finestra è barricata con sacchi di sabbia. I soldati dormono uno accanto all’altro, svegliati nella notte da sparatorie ed esplosioni. Eppure «Alamo» è l’ultima speranza di Bush di riportare l’ordine nella capitale irachena. E la prima delle 20 «stazioni di sicurezza congiunte» (Jss) che i militari Usa vogliono piazzare nelle zone calde di Baghdad con l’arrivo di parte dei 21.000 uomini di rinforzo che Bush sta mandando in Iraq. Queste guarnigioni dovranno reprimere i combattimenti, addestrare l’esercito iracheno e spingere i locali a ribellarsi alle milizie sciite del Mahdi e ai sunniti di Al Qaeda. E’ un grande cambiamento rispetto all’idea di ingabbiare le truppe Usa in grandi basi isolate. Ma basta passare 48 ore a Ghazaliyah per chiedersi se, quattro anni dopo la caduta di Saddam Hussein, tutto ciò non sia troppo poco, e troppo tardi. Ghazaliyah è a meno di 8 chilometri dalla «zona verde» di Baghdad, ma ci vuole quasi un giorno per raggiungerla, tra mille insidie. Ghazaliyah era un sobborgo piacevole, con larghi viali di ville sotto le palme. Oggi si vedono case abbandonate, negozi devastati e strade coperte da detriti, con le barricate erette contro le bande di saccheggiatori assassini. Tutt’intorno ci sono laghi di liquame puzzolente e campi di immondizia. I servizi sono spariti. L’elettricità arriva per un’ora al giorno. La maggior parte delle scuole sono chiuse. Una preside che ha sfidato i terroristi è stata picchiata, stuprata, legata a un letto, uccisa e tagliata a pezzi. La Jss è cinta da barriere, posti di guardia e spirali di filo spinato. Gli americani occupano due case. Un numero analogo di soldati iracheni abitano altre due case. Le ultime due servono da barriere contro il fuoco. A comandare è il capitano Erik Peterson, un 29enne dall’Indiana che sembra l’incarnazione dello spirito ottimista americano. «Stiamo già avendo successo», dice. I suoi uomini, spiega, ora sono in grado di reagire in pochi minuti allo scoppio di una battaglia. Pattugliano ogni giorno con i mezzi e a piedi. Parlano con gli iracheni invece di abbattere le porte delle loro case. Hanno portato operai per riparare le linee elettriche e per la prima volta dopo tanti mesi hanno organizzato le forniture di gas per il riscaldamento e la cucina. Il capitano Peterson dice che le postazioni delle sette in lotta sono sparite, la loro libertà di manovra è stata drasticamente ridotta. Dice che sempre meno famiglie vengono cacciate di casa, sempre meno cadaveri si trovano per la strada, e che i locali cominciano a dare informazioni rilevanti sui «cattivi» che si nascondono qui. «E’ una campagna contro gli insorti, ci vogliono strumenti diversi dal solito abbattimento delle porte», dice. Ma la violenza pervade ancora tutto. Nella notte si va alla vicina moschea Muhagren, dopo che i sunniti hanno detto che gli sciiti la stavano attaccando con i razzi. Il giorno dopo una guardia della moschea è uccisa da un cecchino. Una pattuglia della Jss spedita alla moschea finisce sotto tiro. In serata tutti si precipitano a cercare i giubbotti antiproiettle dopo un attacco di mortaio. Addestrare l’esercito iracheno può sembrare ancora più difficile che reprimere la violenza. Il capitano Peterson insiste che il suo contingente iracheno ha «un grande potenziale», ma i suoi uomini gli rimproverano di essere troppo distratti, poco disciplinati e dal grilletto facile. «Non sono affatto pronti a prendere in mano l’Iraq», dice il soldato Peter Payan, 19 anni, di guardia sulla torretta. «Sono qui per la paga», dice il soldato Justin Kent, «mentre noi ci occuppiamo dei loro problemi, così non devono fare nulla. Come quando la mamma ti rimette in ordine la stanza».

Il capitano Salwan al-Aden, la controparte irachena di Peterson, ammette che l’esercito di Saddam era molto più disciplinato, equipaggiato e comandato meglio. Si lamenta che gli americani hanno promosso ufficiali iracheni di medio livello, e che mancano armi e mezzi di trasporto. Non si vedono contatti tra iracheni e americani, sotto il livello degli ufficiali, e non si vedono pattuglie congiunte. L’esercito iracheno deve anche superare l’ostilità della comunità sunnita, che lo considera uno strumento di repressione sciita. «I sunniti odiano l’esercito iracheno», conferma il capitano Peterson, e ammette che il 90% del suo contingente iracheno è composto da sciiti, molto più contenti di inseguire Al Qaeda che le milizie del Mahdi. Nel Sud di Ghazaliyah, controllato dai sunniti, le pattuglie e i posti di blocco iracheni vengono attaccati quotidianamente. Quando il capitano Peterson ha invitato i leader sunniti a incontrare i suoi ufficiali iracheni per discutere la difesa della moschea di Muhagren, i sunniti hanno accusato l’esercito di non essere riuscito a proteggere il luogo sacro. I militari a loro volta accusano i sunniti di utilizzare la moschea per gli attacchi. Il capitano al-Aden si rifiuta di specificare quanti dei suoi uomini sono sunniti o sciiti, insistendo che sono tutti iracheni. «Qualunque civile che porta un’arma o piazza una bomba è nostro nemico». Ma poi annuisce a sentire il collega, il capitano Dafar Khalif, infervorarsi per le restrizioni imposte all’esercito iracheno: «Le truppe Usa sono troppo morbide. Ai tempi di Saddam, se qualcuno attaccava il governo, lo portavamo in prigione e lo impiccavamo. Ora lo portiamo in prigione e viene rilasciato dopo 7 giorni».

Fonte: www.lastampa.it
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6.20.07
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