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Dove il proletariato si ribella: In Tunisia e in Sudan - In Iran - Nel Kurdistan iracheno


Anticapitalista
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La crisi storica del modo di produzione capitalistico sfocia inevitabilmente in esplosioni di lotta di classe: proletari spinti da fattori materiali insopprimibili scendono coraggiosamente nelle piazze sfidando le forze della repressione degli Stati borghesi, potenti bastioni della conservazione sociale.

Nelle ultime settimane abbiamo avuto manifestazioni esemplari di una riscoperta inclinazione dei proletari alla lotta in alcuni paesi arabi e del Medio Oriente.

In Tunisia e in Sudan

Ultima è stata la Tunisia, dove masse di giovani proletari senza prospettive per il futuro, hanno preso parte in molte città a violente proteste, spinti dai salari troppo bassi, dal carovita, dalla disoccupazione, dalla miseria: “pane, acqua e niente Nidaa ed Ennahda”, gridavano. I manifestanti hanno preso di mira quei due partiti di governo, uno laico l’altro islamico, che hanno approvato una legge finanziaria, d’accordo col FMI, che impone forti aumenti dei prezzi, fino al 300%, di molti generi anche di prima necessità. Per il momento non sappiamo quale saranno gli sviluppi di questa ondata di protesta sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Intanto ha dovuto fare i conti con la dura repressione da parte del democratico Stato tunisino che non ha esitato ad affiancare l’esercito alla polizia per tentare di sciogliere le manifestazioni di piazza provocando un morto, centinaia di feriti e molte centinaia di arresti. Per ora il governo di Tunisi afferma di avere ristabilito l’ordine, ma non è da escludere che le proteste continuino e si estendano.

Anche in Sudan dalla seconda settimana di gennaio manifestazioni contro il carovita sono state represse col piombo e già si contano almeno tre morti. Il governo ha tolto i sussidi per alcuni generi di prima necessità facendo impennare i prezzi, fra cui quello del pane, triplicato dall’oggi al domani.

In Iran

Oltre alla Tunisia e al Sudan nelle scorse settimane la lotta delle masse lavoratrici ha trovato nell’Iran uno scenario forse ancora più dirompente per l’ordine sociale borghese. Per circa una settimana, fra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, in decine di città del paese le folle si sono scontrate con la polizia e con le milizie della Repubblica Islamica. Le manifestazioni, alle quali hanno preso parte decine di migliaia di proletari, per lo più giovanissimi, hanno dovuto affrontare una repressione feroce. Il governo dichiara 22 morti, centinaia di feriti e oltre 1.000 arresti, mentre fonti non ufficiali parlano di circa 50 morti e 3.700 arresti. La stessa stampa legale parla di 5 “suicidi” in carcere fra gli arrestati.

Il governo per sedare la rivolta ha fatto ricorso alle milizie sciite irachene e ai pasdaran dislocati in Iraq e in Siria, che reclutano i propri effettivi fra gli sciiti afghani, promettendo loro la cittadinanza iraniana.

L’esplosione di malcontento sociale in Iran si è presentata con caratteristiche inedite rispetto ad altri sommovimenti che in passato si sono opposti al regime oscurantista e teocratico della Repubblica Islamica. Per la prima volta in quasi 40 anni, da quando cioè nel 1979 un moto di massa, egemonizzato rapidamente da una direzione borghese, portò al rovesciamento del regime dello scià Reza Pahlavi, la lotta nelle piazze e nelle fabbriche (notizie frammentarie parlano anche di numerosi scioperi spontanei un po’ ovunque nel paese) vede protagonisti un gran numero i proletari che non ne possono più di subire sulla loro pelle le sofferenze provocate dal capitalismo e che la retorica patriottica e i sermoni dei preti non riescono a lenire.

A differenza di quanto è avvenuto nel 2009, quando le proteste contro i presunti brogli nelle elezioni presidenziali videro la mobilitazione delle mezze classi, dell’intelligenza e della cosiddetta “società civile”, in questo caso quei protagonisti di ieri sono rimasti a guardare. Anche la stampa borghese ha evidenziato senza alcuna vergogna la sufficienza e talora anche lo sdegno con i quali il cosiddetto ceto medio ha guardato alla piazza che rivendicava “pane, lavoro e libertà” e protestava contro gli aumenti repentini dei prezzi dei generi di prima necessità come il pollame, principale fonte di proteine per le masse proletarie iraniane, che ora costano il 40% in più.

In occidente la stampa borghese, una volta individuata la natura di classe della rivolta, ha fatto calare il sipario anche sulle selvagge repressioni, così come è passato in secondo piano che i manifestanti in molti casi abbiano individuato con estrema chiarezza gli obiettivi contro cui scagliarsi: hanno assaltato le sedi delle milizie islamiche dei pasdaran e dei basiji e hanno preso di mira le banche delle fondazioni islamiche. Queste, in persiano “bonyad”, controllano quote assai cospicue di molti rami dell’economia iraniana, a seconda delle varie stime dal 20 al 30% del Pil del paese.

Quando si guarda all’ideologia politica della Repubblica Islamica d’Iran non bisogna farsi trarre in inganno dal costante riferimento alla religione nell’ordinamento statuale teocratico, come se fosse il portato della forza inerziale di antiche tradizioni pre-borghesi. L’oscurantismo di Stato, che si manifesta fra l’altro con una pesante oppressione di genere (le adultere e gli omosessuali sono ancora passibili della pena di morte!) e nell’umiliazione delle donne, è una conseguenza della perpetuazione del dominio sociale borghese. Tale odiosa sovrastruttura è stata l’arma ideologica con la quale la borghesia iraniana ha tenuto a bada il proletariato durante il lungo processo che ha traghettato il paese nella piena maturità capitalistica.

Infatti non sono state ragioni ideologiche o religiose a determinare queste di proteste proletarie, bensì economiche. Nelle periferie delle città grandi e piccole sono state spinte all’azione masse di mostazafan, cioè diseredati, in pochi decenni cacciati dalle campagne in un impetuoso processo di inurbamento e trasformati in un gigantesco esercito industriale di riserva. In Iran il 73% della popolazione vive oggi nelle città!

L’Iran, oltre ad essere il quarto paese produttore di petrolio del mondo, ha sviluppato un robusto apparato industriale e ha visto aumentare considerevolmente la consistenza numerica della classe operaia. Oggi il 32,5% della forza lavoro iraniana è impiegata nell’industria. Si tratta di una quota ragguardevole se paragonata a quella delle potenze industriali d’Europa: in Germania e in Italia gli addetti all’industria sono rispettivamente il 30 e 26,6% della popolazione attiva.

Nei quasi quattro decenni di continuità dell’attuale regime l’Iran è diventato la più importante potenza politica del Medio Oriente, capace anche di una proiezione espansionistica e di un attivo interventismo militare. Gli sviluppi negli ultimi mesi della guerra in Iraq e in Siria hanno visto il prevalere del fronte di cui l’Iran è parte integrante. Importanti conquiste territoriali sul campo hanno aperto di quel “corridoio sciita” che permette lo spostamento delle truppe della Repubblica Islamica e delle milizie a essa affiliate lungo un asse che, attraverso Iraq e Siria, raggiunge il Mediterraneo e i confini con Israele nella regione del Golan. Tale continuità territoriale consente anche lo spostamento in direzione contraria delle milizie alleate libanesi degli Hezbollah, le quali hanno avuto un ruolo di primo piano nella guerra in Siria.

Anche nello Yemen gli sciiti houthi, alleati del regime di Teheran, hanno resistito negli ultimi mesi all’impegno militare dell’Arabia Saudita, irriducibile nemico dell’Iran, e ai pesanti bombardamenti, ottenendo anche successi significativi, non ultimo l’eliminazione, avvenuta all’inizio dicembre, del presidente yemenita Ali Abd Allah Saleh, resosi colpevole di avere defezionato il fronte antisaudita.

Ma questi successi militari hanno avuto un costo pesante per il bilancio statale iraniano ed è fatale che, come avviene sempre sotto qualunque regime borghese, sia stato soprattutto il proletariato a farne le spese. I salari per molte categorie di lavoratori sono rimasti fermi da molti anni mentre l’inflazione galoppa a causa del venire meno del sostegno politico ai prezzi dei generi di prima necessità e dell’imposizione di nuove tasse e accise.

Questo spiega perché durante le manifestazioni siano stati scanditi slogan che, sotto l’apparenza di un orientamento nazionalistico, “né per Gaza, né per il Libano, la mia vita la sacrifico per l’Iran”, hanno manifestato insofferenza per l’impegno bellico del Paese. Nelle manifestazioni si gridava “non vogliamo la Repubblica Islamica” e “marg bar Rouhani” cioè “morte a Rouhani”, che della Repubblica è il presidente. Questo rifiuto dei proletari verso l’impegno militare all’estero è un segno di come, per una potenza borghese, i successi militari non sempre si traducano in un rafforzamento del cosiddetto “fronte interno” nei rapporti di forza fra le classi.

Ancora una volta la borghesia ha dimostrato che la bandiera della patria è sempre uno straccio per ingannare i proletari, mentre questi ultimi devono essere sempre più consapevoli di non avere una patria.

Nel Kurdistan iracheno

A maggior ragione forti perturbazioni della pace sociale si possono verificare quando un paese in guerra debba fare i conti con un andamento sfavorevole delle operazioni militari, o anche quando le ambizioni di conquista territoriale, a lungo alimentate dalla propaganda borghese, vanno incontro a cocenti frustrazioni. Questo infatti è quanto è successo nel mese di dicembre nel Kurdistan iracheno. Questo, dopo il referendum sull’indipendenza del settembre scorso, ha subito pesanti mutilazioni territoriali nel violento braccio di ferro con il governo di Baghdad, il quale ha ripreso il controllo della regione di Kirkuk, ricca di giacimenti petroliferi. Anche in quel caso migliaia di lavoratori, indignati dalla disoccupazione e dal taglio degli stipendi dei dipendenti dell’amministrazione pubblica, hanno assalito e incendiato edifici statali e le sedi dei due principali partiti curdi.

* * *

Questi segnali della ripresa della lotta di classe in Iran, in Sudan, in Tunisia e in Kurdistan vanno salutati con entusiasmo. Ma, mentre il proletariato internazionale, per ragioni storiche oggettive, non è ancora in grado di offrire il proprio sostegno alle coraggiose lotte dei proletari di questi paesi, la borghesia non risparmia alcun mezzo pur di piegare il suo mortale nemico.

La repressione e la momentanea sconfitta delle lotte proletarie certamente non spengono il fuoco della lotta di classe che, in Iran, in Tunisia, in Kurdistan come ovunque, cova sotto la cenere. Se, come afferma il marxismo, non può esistere un capitalismo senza crisi economiche e senza guerre, ne segue che questo modo di produzione è condannato a fare i conti con la serie interminabile delle eruzioni della lotta di classe determinate dall’intrecciarsi dei diversi piani, economico, politico e militare, del dilagante marasma sociale.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

http://www.international-communist-party.org/ItalianPublications.htm


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