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Hollywood


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Verdi colline altrui. Perde Clint, vince Martin

Una cerimonia Oscar verde, ma come la kryptonite, antidoto all' «americanismo» sciovinista. Hollywood indica altri spazi, cerca verdi dimore, rievoca i nostalgici mondi perduti, o immaginari, di Al Gore e Morricone. E dunque viaggia al Polo dei cartoon dell'australiano George Miller; nell'Asia di Iwo Jima raccontata dai perdenti; nell'Inghilterra di Lady Diana e nella Francia di Maria Antonietta, così simili; in Uganda, a scandalizzarsi di Idi Amin Dada, traditore dell'Africa. E nel paradiso e nell'inferno dei messicani Del Toro e Inarritu...

Molti dunque i vincitori. Il primo è l'italoamericano Martin Scorsese, ex verde d'invidia perché mai gli era riuscito finora il massimo trionfo, e finalmente è all'apoteosi, con 4 statuette «pesanti». Non è The Departed il suo viaggio più innovativo, misterioso e appassionato. Ma è certo quello più «asiatico» e che ha incassato di più (oltre 130 milioni di dollari). La ricetta? Riscrivere glacialmente a Boston, un capolavoro di geometria dinamica metropolitana (inventato da Ringo Lam, e prima ancora da King Hu, Tsui Hark e John Wood, a cui viene reso omaggio) su mafia e servizi segreti, che si sovrappogono e esaltano nel rubarsi a vicenda il segreto del controllo totale di un territorio.

Disturba la confusione morale e i gesuitici travestimenti dei buoni nei cattivi? Non più delle immagini di tortura di Abu Ghraib, episodio né stravagante né «unico» né di abominevole stranezza, e di cui Scorsese spiega lo schema trascendentale, riportandolo al cuore stesso del sistema sensorio imperiale, razzista e torturatore per antonomasia, banalmente maligno perché non tollera anticorpi. E, al posto degli spaesanti attori di Hong Kong, ecco gli identificabili De Niro, Nicholson, Damon, Di Caprio e Walhberg, che, nel rito del cinema, sono capri espiatori, corpi impremiabili, perché infetti, di un sacrificio «obliquo».
Poi tre statuette vistose (fotografia, scenografia e trucco) a Guillermo Del Toro, il messicano che deve essersi fatto di lsd, di tanto «acido verde», per sprofondarci nel «Labirinto di un fauno», e sbriciolare ogni muro di cemento inter-occidentale (il connazionale Inarritu, nell'episodio della clandestina vittima delle leggi sull'immigrazione, di Babel, ci sbatte invece contro: un solo Oscar, per la musica). E i performer african-american Forrest Whitaker e Jennifer Hudson, grandi davvero nell'incorporare le parabole Motown e Idi Amin Dada (e le sue fiammeggianti divise grigio-verdi) di didattico interesse oggi, come capì 40 anni fa Barbet Schroeder, per indicarci che altri neoschiavi compiaciuti della propria degradazione spuntano a kabul e Baghdad.
Non solo il melodico fischio western, ma tutto Ennio Morricone (Mission per esempio) scatena rinfrescanti polifonie pluviali, anticicloni sinfonici contro l'alta tossicità della gastronomica «musica applicata». «Lady Helen Mirren», più realista della regina, è premiata invece per un'imitazione ovvia e sciovinista. Alan Arkin vuol dire «la grande scuola dei commedianti Usa»; il tedesco Florina Henckel von Donnersmark compie un miracolo d'immaginario: far amare agli americani perfino una spia comunista della Stasi.

Ma il trionfatore della festa da «garofano verde» (per la conduttrice della cerimonia e per Melissa Etheridge, oscar per la miglior canzone) è stato il testimonial di Una scomoda verità, Al Gore, l'ex «futuro presidente Usa» che ha trasformato la statuetta minore, quella assegnata al miglior documentario dell'anno, nel momento forte di una nottata Oscar, quasi in un magico momento green di contestazione generale.

Roberto Silvestri
Fonte: www.ilmanifesto.it
27.02.07


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