Originale italiano: http://znetitaly.altervista.org/art/7316
di Ramzy Baroud – 24 agosto 2012
Da qualche parte in casa ho una serie di album fotografici ai quali mi avvicino raramente. Temo il flusso di ricordi crudeli che potrebbe essere evocato dal guardare le innumerevoli fotografie che ho scattato durante il mio viaggio in Iraq. Molte delle fotografie sono di bambini che hanno sviluppato rare forme di cancro in conseguenza dell’esposizione a uranio impoverito (DU), utilizzato nella guerra guidata dagli USA contro l’Iraq più di due decenni fa [sic – probabilmente il conteggio parte dall’intervento delle ‘forze della coalizione’ in seguito all’invasione irachena del Kuwait – n.d.t.].
Ricordo la visita a un ospedale attaccato all’università Al-Mustansiriya di Baghdad. L’odore che ne riempiva i corridoi non era il tanfo dei medicinali bensì piuttosto l’odore della morte. In un periodo di assedio oppressivo, l’ospedale mancava persino delle attrezzature e dei farmaci elementari per le anestesie. I bambini se ne stavano seduti e fissavano i visitatori. Alcuni ululavano in preda a dolori inconcepibili. I genitori vacillavano tra la speranza e la futilità della speranza e negli orari delle preghiere pregavano regolarmente.
Un giovane medico mi diede una diagnosi radicale: “Nessun bambino che entra in questo posto ne esce mai vivo.” Essendo il giovane giornalista che ero all’epoca, presi diligentemente nota delle sue parole prima di porre altre domande. Non afferravo neppure l’irrevocabilità della morte.
Molti anni dopo la desolazione dell’Iraq prosegue. Il 16 agosto novanta persone sono state uccise e altre, di più, sono rimaste ferite in attacchi in tutto il paese. Fonti mediatiche hanno riferito il bagno di sangue (quasi 200 iracheni sono stati uccisi in questo mese soltanto), ma senza molto contesto. Siamo destinati a credere che la violenza in Iraq abbia trasceso qualsiasi livello di razionalità? Che gli iracheni vengono fatti saltare in aria semplicemente perché è loro destino vivere in perpetua paura e miseria?
Ma i morti, prima di essere uccisi, erano persone con nomi e volti. Erano individui affascinanti a modo loro, meritevoli di vita, diritti e dignità. Molti sono bambini che non sapevano nulla delle dispute politiche irachene, generate dalle guerre e dall’occupazione statunitensi e fomentate da quelli che si nutrono di settarismo.
Spesso ce lo dimentichiamo. Quelli che si rifiutano di cadere nella trappola degli estremismi politici tendono tuttora e a elaborare e accettare la violenza in un modo o nell’altro. Coesistiamo con la tragedia, con la convinzione che le bombe cadono semplicemente a caso e che le vittime non possono essere aiutate. In qualche modo accettiamo l’idea che i profughi non possono essere rimpatriati e che non si può dar da mangiare a chi ha fame.
Questo strano buonsenso è più evidente in Sudan. Nello stato dell’Alto Nilo la gente muore di puro sfinimento prima di raggiungere i campi profughi di Batil. Alcuni camminano per settimane tra il Kordofan meridionale e il Nilo Blu, cercando sollievo e una qualsiasi possibilità di sopravvivenza. Quelli che sopportano il viaggio – costretti dai combattimenti tra l’esercito sudanese e i gruppi ribelli – possono non sopravvivere alla durezza della vita che li attende a Batil. La BBC News ha riferito il 17 agosto, citando un avvertimento di Medecins Sans Frontieres, che “la gente muore in gran numero in un campo profughi del Sudan meridionale.”
Nella ‘catastrofe umanitaria’ di Batil (così descritta dal coordinatore medico di MSF, Helen Patterson) sono quasi inciampato mentre riesaminavo rapporti sul deterioramento della situazione in alcuni campi profughi del Darfur. Batil attualmente ospita quasi 100.000 dei 170.000 profughi stimati che recentemente sono fuggiti dalle loro case. Secondo l’associazione di beneficenza sanitaria il 28% dei bambini è malnutrito e il tasso di mortalità è doppio di quello della soglia accettata d’emergenza.
Il Darfur è, naturalmente, una ferita in suppurazione. Molti dei profughi interni spesso si ritrovano in uno stato di costante trasferimento, come è accaduto in precedenza in questo mese. I dirigenti dell’ONU affermano che ‘tutte’ le 25.000 persone di un singolo campo profughi, Kassab, erano nuovamente in fuga dopo che gruppi armati si erano scontrati con forze governative. Si sono sistemati in un altro ‘rifugio’ nei pressi, la città di Kutum. Secondo la Missione in Darfur delle Nazioni Unite / Unione Africana (UNAMID) il nuovo supposto rifugio “manca di acqua, cibo e servizi igienico-sanitari” (CNN, 9 agosto).
Da allora i resoconti sono un po’ diminuiti. Non perché i profughi in fuga siano in una situazione buona, ma perché questa è tutta l’attenzione che 25.000 rifugiati possono aspettarsi da media inondati di notizie di politici ipocriti e di scandali di celebrità. Ci vorrebbe una celebrità ‘pacificatrice’ per riportare Batil o Kassab nelle scalette dei media per un altro giorno o due, e certamente nulla di meno di un considerevole numero di morti per fare dei profughi di nuovo un argomento giornalisticamente rilevante.
Detto ciò non è probabile che qualche VIP in cerca di attenzione si avventuri prossimamente in Mali. Anche se la crisi umanitaria nell’Africa occidentale sta raggiungendo livelli spaventosi, i media continuano a occuparsi del conflitto in Mali in termini di logica degli interessi occidentali minacciati dai ribelli, dai colpi di stato e dai jihadisti. A parte il fatto che pochi interrogano sulla complicità occidentale nel caos, 435.000 profughi stanno inondando i paesi vicini. Questa è stata la stima più recente, del 16 agosto, dell’Ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari ma il fatto è ignorato dalla maggior parte dei media.
Il Programma Alimentare Mondiale afferma che la crisi alimentare è devastante, non solo per i profughi distrutti, ma anche per milioni di persone nel paese. I bambini del Mali, naturalmente, superano in numero tutte le altre vittime. Sono trascinati disperatamente attorno in deserti infiniti. Quando muoiono lasciano solo un segno come un’ulteriore statistica, stimata senza grande certezza e, tristemente, senza valore.
Comunque la morale della storia può consistere in questo. Ogni bambino del Mali, del Sudan, iracheno, siriano, palestinese, yemenita o Rohingya conta immensamente per chi gli è vicino. La sua vita – o morte – può servire convenientemente a rafforzare una tesi politica, a fare un buon servizio per il National Geographic, o una foto su Facebool con molte ‘condivisioni’ e ‘mi piace’. Ma per i genitori, le famiglie, gli amici e i vicini, i bambini sono il centro del loro universo, per quanto povero e apparentemente miserabile. Così, quando l’UNICEF o l’UNRWA lamentano la mancanza di fondi, significa concretamente che migliaia di innocenti soffriranno inutilmente e che i centri di molti universi imploderanno drammaticamente, sostituendo alla speranza una disperazione senza fine, e spesso una rabbia senza fine.
Può essere conveniente far assegnamento sul senno politico convenzionale per spiegare argomenti politici complessi e conflitti violenti. Ma i conflitti protratti non rendono la vita meno preziosa o i bambini meno innocenti. E’ una tragedia quando gli iracheni sembrano in un costante corteo a seppellire i propri cari, o quando i sudanesi sembrano essere alla costante ricerca di salvarsi la vita. E’ una tragedia più grande, tuttavia, quando diventiamo così assuefatti allo svolgersi del dramma della violenza umana da poter accettare come un destino la realtà dei bambini che attraversano il Sahara in cerca di un sorso d’acqua.
Ramzy Baroud (www.ramzybaroud.net) è un
giornalista internazionale indipendente e direttore di PalestineChronicle.com. Il suo libro più recente è ‘My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story’ (Pluto Presso, London) [Mio padre era un combattente per la libertà].
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/the-children-are-still-dying-violence-is-not-news-by-ramzy-baroud
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2012 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0