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La bolla dello shale gas rischia di esplodere


marcopa
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http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-11-12/crollo-petrolio-e-debito-spazzatura-bolla-shale-oil-rischia-esplodere-210140.shtml?uuid=ABameCDC

Crollo del petrolio e debito spazzatura, la bolla dello shale oil rischia di esplodere

di Sissi Bellomo
12 novembre 2014

Non è nelle praterie del North Dakota, ma sul mercato del credito che si stanno manifestando i primi segnali di crisi dello shale oil americano. Il petrolio «made in Usa» continua infatti a scorrere sempre più abbondante, nonostante il crollo del barile a 80 dollari, il minimo da 4 anni. Ma lo stesso non si può dire dei flussi di denaro indispensabili per le dispendiose operazioni di fracking.

Finanziarsi sta diventando sempre più caro e più difficile per gli operatori dello shale oil: società quasi tutte di piccole o al massimo medie dimensioni, molto spesso costruite dal nulla e con fortissimi livelli di indebitamento, tanto che persino con il barile a 100 dollari faticavano in molti casi a pagare gli interessi. Un'analisi di Bloomberg sui bilanci di 60 di queste società quotate negli Usa ha evidenziato che a fine giugno i debiti ammontavano a 190,2 miliardi di $, in crescita di 50 miliardi dalla fine del 2011.

Negli ultimi quattro anni il fardello è quasi raddoppiato, mentre le entrate sono aumentate di appena il 5,6%. Una dozzina di queste società, sempre secondo Bloomberg, mesi fa spendeva già almeno il 10% del fatturato solo per pagare gli interessi sul debito, che nella maggior parte dei casi è classificato dalle principali agenzie di rating a livello «junk», letteralmente spazzatura, per gli alti rischi di insolvenza. Standard & Poors' e Moody's fanno ricadere in questa categoria addirittura due terzi delle società Usa attive nell'esplorazione e produzione di petrolio e gas.

È proprio sul mercato delle obbligazioni ad alto rendimento – o «junk» per l'appunto – che sta suonando l'allarme per lo shale oil: per effetto di forti vendite, il rendimento di questi bond nel settore energia è salito al 6,9%, il massimo da oltre un anno. Il mese scorso il segmento aveva perso l'1,3%, la peggiore performance di tutto il mercato high-yield (che nel complesso ha guadagnato un magro 1,2%). Nonostante questo, un numero crescente di società sta tornando a bussare alle porte del mercato in cerca di ulteriori – benché inevitabilmente più cari – finanziamenti: solo in novembre Dealogic conta 17 miliardi di $ di nuove emissioni negli Usa.

«In termini assoluti gli oneri di finanziamento per molte società sono cresciuti solo in modo marginale – osserva Adrian Miller di Gmp Securities – Ma la chiave è l'impiego del denaro. Molte società non stanno più ricorrendo a prestiti per finanziare l'espansione. Lo fanno per ripagare i debiti o per rifinanziarli. E cercano di farlo il più in fretta possibile»
Il problema non ha dimensioni trascurabili. Il settore energia, proprio a causa dell'impetuoso sviluppo di shale oil e shale gas negli Usa, secondo Barclays rappresenta oggi il 15,7% del mercato dei junk bond, che a sua volta vale 1.300 miliardi di $. Dieci anni fa pesava solo per il 4,3%.
Qualche analista è già in allarme per la possibilità che l'intero mercato high yield – minacciato anche dalla risalita dei tassi di interesse Usa – possa finire travolto, se nel settore dello shale oil si scatenerà un'ondata di ristrutturazioni del debito. Una possibilità non certo peregrina, quest'ultima, considerato che il prezzo del petrolio minaccia di continuare a scendere, dopo aver già perso quasi un terzo rispetto a giugno, e che per sua stessa natura l'estrazione di shale oil necessita di un flusso incessante di investimenti: la vita produttiva di questi pozzi è tuttora brevissima, tanto che l'output crolla del 65-90% dopo il primo anno.

Anche solo per mantere stabile la produzione bisogna quindi trivellare continuamente nuovi pozzi, spendendo ogni volta milioni di dollari. Il che molto spesso significa contrarre nuovi debiti: un meccanismo perverso, che ha spinto alcuni osservatori a paragonare lo shale a un gigantesco schema Ponzi.
Anche senza spingersi a tanto, alcuni tra gli analisti più accorti avevano evidenziato in tempi non sospetti il rischio di un'implosione del sistema. Tra questi c'è Amrita Sen, di Energy Aspects: «Lo shale oil è molto costoso – aveva detto un anno fa al Sole 24 Ore – Anche se le compagnie petrolifere si sono protette con l'hedging da eventuali ribassi del greggio, resta il fatto che molte per finanziare le trivellazioni si sono fortemente indebitate. Il che può anche andare bene, finché i tassi di interesse sono bassi e finché le prospettive di sviluppo sono buone». Entrambe le condizioni oggi non sono più per scontate.

Un ridimensionamento dello shale oil americano, con eventuale corollario di imprese in bancarotta, potrebbe comunque richiedere tempo. Il crollo del petrolio nell'immediato può anzi addirittura accelerare le estrazioni, se gli operatori – come sembra che stia accadendo – cercano di contrastare con maggiori volumi il calo delle entrate che minaccia di renderli insolventi.

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-11-12/crollo-petrolio-e-debito-spazzatura-bolla-shale-oil-rischia-esplodere-210140.shtml?uuid=ABameCDC


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Anonymous
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Sono almeno due anni che quelli dell'ASPO e studiosi del problema energetico di tutto rispetto ripetono che quella dello shale oil e gas è una bolla effimera, perchè la parabola di produzione dei pozzi e i benefici sono ultra compressi nel tempo.
Quelli della BP hanno già iniziato a dismettere gli investimenti.
Se ora anche ilsole24ore lo riconosce vuol proprio dire che sono alla frutta.


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marcopa
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L'allarme per la possibile bolla è stato subito ripreso. La cifra investita è altissima.

La mia impressione è che nel prossimo medio futuro il rischio sia di una variabilità eccessiva del prezzo del greggio.

Ma non è il sistema neoliberista e della guerra permanente Nato che può garantire una transizione tranquilla dall' era del petrolio.

Marcopa

La prossima bolla sarà nera: 210 mld di $ pronti a esplodere
Trend Online
Da Rossana Prezioso | Trend Online – ore 10.00

Ad avere paura, stavolta, sono in tanti: Usa in primis, ma anche Russia. Per Washington il problema è anche più paradossale perchè quella che inizialmente era stata vista come una benedizione, una rivoluzione che avrebbe portato la prima economia al mondo ad avere indipendenza energetica e a potersi svicolare dagli scomodi alleati mediorientali oltre a poter evitare i ricatti e i pericoli del fondamentalismo islamico e dell’Iran, adesso si sta ritorcendo contro. Il nome è chiaro a tutti, shale gas, il petrolio estratto dalle rocce attraverso fortissime iniezioni di acqua e altre sostanze fino a provocare la frantumazione delle rocce argillose.

Tutta colpa dello shale

Ebbene di questo tipo di petrolio ce n’è tanto, troppo, e ne scorre a fiumi per l’intera nazione, tanto da poter essere quantificato in qualcosa come 60 miliardi di barili nel solo territorio statunitense aver favorito il crollo continuato e costante della materia prima che è diventata addirittura antieconomica nel processi di estrazione, più costosi rispetto a quanto lo shale permette di ricavare. E i margini si stanno restringendo troppo.

Pochi i margini di azione... e di guadagno

Infatti se il guadagno c’è, questo rimane fino a quando il Brent (parametro di riferimento) sarà quotato sopra gli 80 dollari a barile e gli stessi Usa stanno lavorando a tecniche ed ottimizzazioni tali da poter reggere l’impatto anche a 65 dollari, ultima barriera prima del crac.
Cosa significa questo? Che il prezzo del petrolio è destinato a scendere, tesi confermata anche dagli esperti di Goldman Sachs (NYSE: GS-PB - notizie) che vedono un prezzo sotto gli 80 dollari per tutto il 2016. Si, perchè oltre a quanto detto, si deve registrare anche la politica di molte nazioni dell’Opec, Arabia Saudita in testa, che non hanno intenzione alcuna di tagliare la propria produzione, preferendo lasciar cadere il prezzo per logorare quello che attualmente è il maggior competitor, gli Usa. Impossibile pensare inoltre che la richiesta di greggio aumenti in tempi brevissimi e in quantità tale da far salire le quotazioni, così com’è impensabile il fatto che chi ha investito in questa rivoluzione energetica possa accettare un ritorno ormai dilungato nel tempo. Impossibile aspettare: troppi i soldi e gli interessi in gioco e il guadagno deve arrivare il prima possibile, anche perchè chi ha messo soldi, a sua volta, si è indebitato e pesantemente visto che emettere titoli di debito era più comodo che rischiare sul mercato azionario, con il risultato che in parallelo con la liquidità immessa dalla Fed e con i suoi stimoli monetari partiti dal 2009, l’emissione di strumenti finanziari staccate dalle società energetiche internazionali e in particolar modo quelle made in Usa sono aumentati del 150%. Tradotto in cifre: 210 miliardi di dollari.
E come al solito, la Fed
Il tutto facilitato da quella marea (stavolta non di petrolio ma di capitali) che a ha inondato i mercati e le Corporate da circa 5 anni. Tanti soldi a poco prezzo e senza rendimenti di sorta, hanno reso l’oro nero e la rivoluzione dello shale gas come una magica quadratura del cerchio. Tutti hanno fiutato l’affare e ci si sono buttati a capofitto. I timori arrivano adesso perchè sui conti di fine anno delle società dovrebbero iniziare a sentirsi le prime conseguenze del calo del prezzo del barile, senza contare poi che gli interessi, in futuro, saranno rivisti in aumento.
Non vanno meglio le quotazioni di alcune società come Sand Ridge che nel 2020 dovrà rimborsare un bond da 450 milioni con rendimento oltre il 10% e calo sulla quotazione azionaria dei propri titoli di oltre il 30%.

C’è poi il discorso geopolitico: se l’Arabia fa una scommessa rischiando poco di suo ma troppo degli altri (l'Iran vede il 60% delle sue entrate coperte dal petrolio), anche alla Russia non va molto bene. Negli ultimi anni (decenni) il petrolio ha condizionato l’andamento sia politico che economico prima dell’Unione sovietica e adesso di Mosca e di Putin visto che dal petrolio si ha oltre il 50% delle entrate statali, flusso di capitali che finora ha permesso di finanziare misure politiche e sociali popolari e che hanno concesso a Putin un appoggio della base che, diversamente, non sarebbe stato possibile: ogni dollaro in meno sulle quotazioni del barile equivale a oltre 1,7 miliardi di dollari l’anno per un totale di oltre 50 miliardi in meno per il 2015 che si sommano anche alle perdite dovute alle sanzioni per la crisi Ucraina. Una cifra che i russi non si possono permettere, anche a fronte di un'inflazione che ha costretto la banca centrale russa ad aumentare i tassi dal 5,5% al 9,5%, frenando una ripresa già di per sè anemica. C'è poi la questione dell'ammortizzatore economico, un tesoretto da 170 miliardi di dollari accantonato per imprevisti di questo tipo e che, secondo quanto affermato da Putin, riuscirà ad essere un ottimo salvagente. Ma per quanto tempo?


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