L'ospedale di Kabul suscita le bramosie del San Raffaele di Milano di don Verzé
Lo chiamano già il «tesoretto di Kabul». Anzi dell'Afghanistan. Sono gli ospedali e gli ambulatori di Emergency, attualmente chiusi ma pieni di attrezzature e soprattutto di una storia che non ha bisogno di presentazioni. Per dirla in numeri: tre centri chirurgici (Anabah, Kabul e Lashkargah), un centro di maternità, 24 posti di primo soccorso, quattro cliniche (nelle prigioni) oltre a un personale di 1024 locali. Così, oltre a una Ong indiana interessata all'ospedale nella capitale, oltre ai Prt dell'Isaf cui non dispiacerebbe il centro nel Panjshir, adesso si è fatto avanti anche il San Raffaele di Milano, il grande ospedale che ha una sua Fondazione che agisce attraverso Aispo, una Ong che ha già lavorato in diverse strutture pubbliche dell'Afghanistan e che, come scrive sul suo sito Internet, risponde a un preciso mandato evangelico «Andate, insegnate e guarite».
La Fondazione ha preso carta e penna e, alla fine di settimana scorsa, ha scritto al ministero degli esteri facendosi avanti. Con cautela e senza dare rilievo a una mossa delicata di cui Emergency non è ancora ufficialmente a conoscenza. La richiesta è arrivata come un fulmine a ciel sereno - si fa per dire - nelle stanze della viceministro Patrizia Sentinelli, che da giorni sta cercando di capire come districarsi nella delicata matassa sempre più aggrovigliata e che ha già visto il ministero della salute afghano dare il via libera alle prime ispezioni delle strutture di Emergency che, come ha più volte ribadito, uscita dal paese la Ong di Strada, andranno sotto il controllo di Kabul, seppure attraverso altri donatori. Non è un mistero che anche la Cooperazione italiana ci abbia fatto un pensierino, se non altro per non abbandonare a un destino incerto ospedali che, nella percezione comune degli afghani, sono «italiani». Ma alla Farnesina si stanno muovendo coi guanti di velluto anche perché D'Alema è atteso a giorni a Kabul e c'è di mezzo la spinosa questione di Rahmatullah Hanefi. «Se l'Italia prendesse in mano gli ospedali in questo momento - ci confidava giorni fa un funzionario - l'intera delicata vicenda subirebbe un'accelerazione che metterebbe in difficoltà Emergency». E, soprattutto, chiariscono al ministero, nulla si può fare senza un accordo con Emergency. Passi felpati dunque. E molta cautela: da Bruxelles, dove è impegnata insieme ai ministri per lo sviluppo della Ue ai lavori del Cagre - Consiglio affari generali e relazioni esterne - Sentinelli taglia corto: «Non c'è bisogno di correre. Emergency - dice - ha compiuto la sua scelta legandola ad alcune questioni che, ad oggi, restano aperte. Noi stiamo lavorando per offrire una risposta a queste domande in modo che Emergency stessa possa tornare a lavorare in Afghanistan. Solo dopo aver verificato l'impossibilità di raggiungere questo obiettivo si potranno ricercare soluzioni alternative che andranno comunque concordate con i responsabili di Emergency». Insomma per ora il semaforo è rosso per la Fondazione che fa capo a Don Luigi Verzè, uomo di Dio con un forte spirito imprenditoriale. Quanto ad Emergency, il portavoce Vauro Senesi ci tiene a ribadire che al momento «le proposte di prendere in mano le strutture di Emergency non ci riguardano, per il semplice fatto che vorremmo riprenderle in mano noi stessi».
Vauro ci tiene a ribadire che la «chiusura delle strutture non è, come qualcuno può aver pensato, una ritorsione per l'arresto di Rahmatullah (il liberatore di Mastrogiacomo nelle mani dei servizi segreti afghani) ma una scelta obbligata dalle dichiarazioni mai smentite secondo cui saremmo dei fiancheggiatori del terrorismo». Dichiarazioni che, dice Vauro, si sono spinte sempre più in là includendo nel pacchetto lo stesso Gino Strada. «In assenza di garanzie di sicurezza e in presenza di questo strano ultimatum del ministero della sanità afghano per cui entro il 25 si deve decidere sulle strutture, noi ci limitiamo a ribadire che non possiamo lavorare sotto la spada di Damocle di nuovi arresti. Noi e il personale locale. Certo, se la cosa non dovesse sbloccarsi auspichiamo che chi mai dovesse prendere in mano le strutture, lo faccia rispettando le regole che hanno sempre guidato il lavoro di Emergency: servizi gratuiti, efficienti e neutrali».
Intanto le preoccupazioni restano: la Ong indiana cui andrebbe la gestione dell'ospedale di Kabul si è già recata a vedere i locali e lo stesso ha fatto il personale del Prt (Provincial reconstruction team) che controlla la zona del Panjshir. Se il Prt prendesse in carico l'ospedale, trattandosi di una struttura civile-militare, di una cosa si potrebbe essere certi. Forse garantirebbe efficenza e servizi gratuiti. Difficilmente la neutralità della struttura.
Emanuele Giordana
(Lettera22)
Fonte: www.ilmanifesto.it
16.05.07