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Pechino ha conquistato il Tibet. Non i tibetani


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Pechino ha investito in modo massiccio in sviluppo sociale e infrastrutture in Tibet. Ma i tibetani restano discriminati nel loro paese, la gioventù urbana è sradicata, e una élite di esiliati continua a far appello alla rivolta. L'unica soluzione sarebbe una vera autonomia per la regione, come fu ipotizzato nel '56. La Cina riapra il dialogo, finché il Dalai Lama è vivo

Da qualsiasi parte la si guardi, l'economia del Tibet sta esplodendo. Negli ultimi trent'anni il suo tasso di crescita ha battuto quello del resto della Cina, raggiungendo all'incirca il 10.4% annuo contro il 9.8% del gigante cinese.
Come risultato, la grande maggioranza della popolazione locale è uscita da una condizione di estrema povertá, in cui viveva con circa un euro al giorno. Allo stesso tempo il governo centrale di Pechino ha coperto il 93% delle spese per massicci investimenti nelle infrastrutture sociali e urbane. L'istruzione è passata dal livello quasi nullo trovato dai comunisti nel 1951 al 92% della popolazione che arriva a completare il programma di nove anni previsto dal governo. Una nuova Università ha appena aperto, per 9.000 studenti, e il Tibet ha appena raggiunto la media nazionale di dottori e letti d'ospedale per 1000 abitanti. La recente apertura della linea ferroviaria tra Qinghai e Lhasa ha fatto del Tibet l'ultima regione cinese a unirsi alla rete nazionale, aggiungendosi a migliaia di chilometri di nuove strade e al progetto di un nuovo aeroporto per il Tibet Occidentale.
La nuova prosperità tuttavia ha portato tanti problemi quanti benefici. Se agli indigeni tibetani le cose stanno andando bene, infatti, ai cinesi han stanno andando meglio, sia in termini di reddito, che di qualitá del lavoro e status sociale. Inoltre, la rottura di strutture sociali che permanevano da secoli ha creato nelle aree urbane una gioventú alienata, senza radici e sottopagata. Il tutto combinato alla presenza di un governo in esilio che richiede ufficialmente l'autonomia in nome del Dalai Lama, autonomia che di fatto si tradurrebbe nell'indipendenza del Congresso tibetano.
Il 14 marzo, anniversario della fuga del Dalai Lama in India nel 1959 e data convenientemente vicina alle Olimpiadi, ha visto l'organizzazione di manifestazioni di protesta dei monaci, inizialmente pacifiche ma presto tramutatesi in una sorta di «rivolta razziale» quando piú di 10.000 civili tibetani, per lo piú giovani, si sono uniti alla folla nelle strade appiccando fuoco indistintamente a negozi, macchine, scuole e ospedali. Anche se viene da chiedersi cosa abbiano in comune, a parte l'odio per i cinesi, questi ragazzi di strada e alla moda con gli ultra-tradizionalisti in esilio.
I bersagli degli attacchi sono stati negozi e aree residenziali di cinesi han e musulmani. Una delle due moschee di Lhasa ha subito ingenti danni. Negli scontri che sono seguiti sono morti 18 civili, tre dei quali tibetani, e un poliziotto; altri tre-quattrocento sono rimasti feriti, essendo stato ostacolato il passaggio a vigili del fuoco e ambulanze.

La risposta delle autorità di polizia è prontamente arrivata. Nelle ore e nei giorni seguenti i rivoltosi sono stati respinti e spazzati via dalle strade di Lhasa, di tutte le altre città e i villaggi in Tibet, nonché in altre province con un'alta concentrazione di tibetani; solo a Lhasa si registrano 365 arresti e 170 ricercati. E se a livello ufficiale non si contano morti, le voci nelle strade di Lhasa ne contano varie dozzine. Nel frattempo il Dalai Lama, in panico di fronte a una situazione che stava chiaramente sfuggendo a ogni controllo, ha richiesto la cessazione delle ostilità minacciando di dimettersi - non é del tutto chiaro da cosa - se non fosse stato ascoltato.

Questo ha certamente contribuito a calmare la situazione, unito al fatto che la tendenza delle autorità cinesi è stata quella di prendere solo le contromisure strettamente necessarie in vista delle olimpiadi di agosto.
Quando abbiamo visitato Lhasa, tra il 19 e il 22 luglio, la città era calma: ma era percettibile la tensione con la polizia nelle strade e nei checkpoint del centro. Si sentiva la paura. Tre tassisti cinesi di etnia han mi hanno rifiutato la corsa prima di trovarne uno che accettasse di portarmi a Barkhor, nel cuore dell'area tibetana della città, di sera. I monasteri-scuola sono stati temporaneamente chiusi e i giovani monaci spediti a casa.
L'entità dei danni è intuibile dai resti dei negozi bruciati che punteggiano le strade di Lhasa. Quando siamo stati portati a visitare la scuola media N.2 era già in corso la demolizione dei due edifici principali, distrutti dal fuoco, per permetterne poi la ricostruzione.

I danni si aggirano intorno ai 32 milioni di euro. Niente, in confronto ai costi indiretti della situazione sull' economia locale: quest'anno sia la crescita che gli investimenti si sono dimezzati, mentre il numero dei turisti è diminuito dei due terzi, con i cinesi han troppo spaventati per mettere piede nell'altopiano e gli Europei bloccati alla frontiera. Curiosamente il tempio Jokhang, uno dei due piú importanti siti sacri al buddhismo tibetano, sta invece registrando un record di incassi, con pellegrini che accorrono da ogni dove.

Che fare? Se la Cina ha riempito le tasche dei tibetani, sia pur entro certi limiti, é chiaro che non ne ha riempito le menti e i cuori. Continua invece a cercare soluzioni nell'aristocrazia tibetana in esilio in India. La cosa davvero necessaria sarebbe una reale autonomia per il tibet, che permetta alla popolazione tibetana di prendere le proprie decisioni, all'interno di una struttura nazionale, su istruzione, cultura, politica locale e immigrazione, andando quindi ben oltre il grado di autonomia attuale. Per fare un esempio, gli studenti universitari tibetani dovrebbero poter studiare materie come medicina, fisica e chimica nella loro lingua, e scuole come la Scuola Media N.2 non possono continuare a avere dalle 4 alle 6 ore obbligatorie di cinese nelle classi tibetane - e dall'altra parte 2 ore di inglese e nessuna di tibetano per gli studenti cinesi.

Anche se i cinesi non lo ammetteranno mai, il Dalai Lama ha probabilmente rappresentato la loro salvezza per molto tempo. Ma biologia e politica cospirano contro di loro: sebbene appaia in perfetta salute, il Dalai Lama ha ormai piú di settant'anni, e l'assenza di progressi in quello che tra breve sarà mezzo secolo di esilio volontario comporta che oggi i «giovani turchi» seduti nel Congresso Tibetano, molti dei quali non sono mai neanche stati in Tibet, stanno diventando impazienti; se stavolta l'anziano leader è riuscito a esercitare un certo controllo sulla situazione, non è detto che ci riesca ancora in futuro.
I militari cinesi reputano il secessionismo, l'estremismo e il terrorismo le tre minacce più incombenti da affrontare al momento. Due di queste sono presenti in Tibet e la terza potrebbe apparire se la situazione rimarrà in stallo.

Su di un muro del palazzo Takten Migyur, uno degli edifici del complesso di Norbulingka, il Palazzo Estivo del Dalai Lama completato solo nel 1956, si può osservare un elaborato dipinto raffigurante la storia della Creazione. Una storia di carattere darwiniano (se non engeliano) con scimmie trasformate in uomini attraverso il lavoro, che certamente appassionerebbe l'America media. Soprattutto, finisce con la raffigurazione dell'incontro del Dalai Lama e del Panchen Lama con Mao a Pechino nel 1956. Forse sarebbe ora di reiterare quell'incontro e fare al Dalai Lama un'offerta che non possa rifiutare, o un rifiuto della quale lo porrebbe a perdere il favore dell'opinione pubblica internazionale.

Glyn Ford
Membro del Parlamento Europeo per il Partito Laburista Inglese. In luglio ha guidato la prima delegazione internazionale in Tibet dagli eventi di marzo

Fonte: www.ilmanifesto.it
Link: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/24-Agosto-2008/art38.html
24.08.08


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