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Petrolio, punto di non ritorno


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Alla fine anche il tetto dei 140 dollari al barile è stato superato nei mercati di Londra e New York, dove ci si scambiano freneticamente i barili virtuali determinando il prezzo di quelli veri. Una sbornia speculativa largamente prevista dai teorici del picco, quella congrega sempre più ampia di petrolieri pentiti che hanno messo insieme i propri studi e le proprie competenze arrivando a delineare con precisione, già all'inizio del 2000, lo scenario attuale. Del resto non bisogna essere né economisti né geologi per capire che una risorsa in via di esaurimento è destinata ad attirare ogni sorta di speculazione e che un mercato del genere è molto sensibile a ogni più insignificante notizia. E di notizie sul petrolio, nella scorsa settimana, ce ne sono state tante.

La più allarmante riguarda certamente le stime rilasciate dalla Pemex, la compagnia petrolifera messicana che ha ammesso un declino della produzione del 10% in un solo anno. Un declino consistente e repentino nel terzo più importante fornitore degli Stati Uniti, già alle prese con la crisi del prezzi alimentari innescata dalle speculazioni e dall'aumento del costo dei trasporti. A rincarare la dose sono arrivate le dichiarazioni di Shokri Ghanem, capo della compagnia nazionale libica, che ha parlato per la prima volta di picco annunciando la fine del petrolio «facile ed economico» cui eravamo avvezzi. Poi la Energy Information Administration statunitense ha ridimensionato le produzioni non-Opec - sulle quali l'Occidente punta moltissimo - e alla fine ci si è messo pure George Soros sostenendo che i prezzi continueranno a salire e che è perfettamente inutile insistere con i paesi produttori perché aumentino il ritmo delle estrazioni. Secondo il finanziere i prezzi alti costringeranno i paesi industrializzati a consumare di meno e a investire sull'efficienza energetica, come vanno consigliando i geologi e gli economisti che, ormai da settimane, sono chiamati a dire la loro davanti al Senato Usa.

Dalle nostre parti, com'è noto, il governo non viene nemmeno sfiorato da un'idea del genere e i media nostrani continuano a recitare lo spartito degli sceicchi avidi e crudeli (ora anche anti-occidentali) fuori corso già dagli anni Settanta. Dopo la nascita dell'Opec e lo shock petrolifero i paesi consumatori avevano cominciato a rivolgersi alle produzioni non-Opec (Russia, Mare del Nord, ecc..) che disponevano di un petrolio più costoso da estrarre ma politicamente più gestibile. Allora, approfittando delle loro enormi riserve e dei bassissimi costi di estrazione, i sauditi riversarono sul mercato internazionale una quantità tale di greggio da provocare il crollo dei prezzi e la successiva rovina di molti i concorrenti, ma oggi non sono più materialmente in grado di farlo a causa del declino produttivo.
Ora, a parte il fatto che anche la favoletta dei perfidi sceicchi era una balla confezionata per nascondere il patto di ferro siglato negli anni Cinquanta fra la casa di Saud e quella di Washington, va detto che i produttori non hanno alcun interesse a danneggiare l'economia globale. Un prezzo insostenibile costringerebbe i paesi industrializzati (almeno lo speriamo ardentemente) a investire nelle rinnovabili e nell'efficienza energetica innescando una spirale al ribasso - almeno questo è quello che temono i paesi Opec quando continuano a insistere sulle distorsioni del mercato speculativo. «Non possiamo aumentare la produzione» ha dichiarato il presidente dell'Opec Chakib Khelil il 24 giugno «a meno che non ci sia davvero un aumento della domanda nel mercato internazionale». E la domanda, malgrado le isterie anti-cinesi che vanno di moda a casa nostra, non è affatto aumentata perchè i cinesi impiegano ancora molto carbone, di cui dispongono in abbondanza.

Ai limiti fisici che cominciano a farsi sentire vanno aggiunti i venti di guerra, anch'essi sottostimati dai giornalisti italici. Certamente, se all'aumento vertiginoso del petrolio fossero seguiti annunci di grandi investimenti nelle rinnovabili, i prezzi sarebbero scesi immediatamente. I venti di guerra invece, concretizzati nelle massicce esercitazioni che l'aviazione israeliana ha condotto all'inizio di giugno e nel pressing che la Casa Bianca (o almeno il vice-presidente Cheney) continua a fare sull'Iran, mandano ai mercati un messaggio molto chiaro: ci massacreremo fino all'ultimo barile e quindi il valore del greggio continuerà a salire. La fretta degli americani ha motivazioni reali: prima di tutto il continuo va e vieni di allarmi e rassicurazioni sul nucleare di Teheran (indice, secondo tutti i commentatori, del fatto che l'amministrazione è spaccata su questa guerra) sta di fatto provocando ciò che voleva evitare, ovvero un avvicinamento dell'Iran alla Cina mediante trasferimento massiccio di capitali in fuga dalle sanzioni verso l'Asia. In secondo luogo Washington teme come la peste il mega-oleodotto che dovrebbe unire i giacimenti iraniani alla zona industriale cinese passando per il Pakistan e l'India. Va detto che la decennale strategia degli oleodotti, a cui si deve l'intervento Usa (e italiano) nei Balcani, rischia di essere spazzata via da un progetto che sta diventando sempre più concreto. A questo si deve l'oscillazione di Washington nei confronti di New Delhi, incomprensibile se non si tengono presenti anche i progressi della mega-pipeline e la posizione dell'India. La propaganda anti-iraniana rende quasi necessario il bombardamento - prima appunto che i petrodollari di Teheran se ne vadano tutti a ingrassare la borsa di Shanghai - e soprattutto il cambio di regime necessario per stracciare i contratti che l'Iran ha firmato con le compagnie cinesi, indiane, malesi, russe ed europee (vedi l'Eni) e per fare spazio alle Sette sorelle, cacciate a furor di popolo dal paese insieme allo Scià.

Il problema, come ben sa Condoleeza Rice che infatti cerca di mettere i bastoni fra le ruote al governo israeliano, è che Teheran è fondamentale per mantenere la fragilissima "pace" irachena e che difficilmente un bombardamento potrà favorire un cambio di regime - sul famoso nucleare c'è poco da dire visto che perfino la Cia ammette che la bomba è lontana e che, comunque, anche se fosse in costruzione sarebbe difficilissima da individuare. L'attacco all'Iran, soprattutto da parte di un paese dotato di centinaia di testate nucleari e inaccessibile a qualunque ispezione internazionale come Israele, provocherebbe se mai la ricomposizione di ogni dissidio interno in nome della resistenza all'aggressore e, alla lunga, avrebbe sicuramente il risultato di accelerare la costruzione della famosa bomba come avvenne dopo la guerra con Saddam, che era stato dotato di ogni sorta di armi non convenzionali dal civile Occidente. Nel breve periodo tuttavia, il risultato di un'operazione analoga a quella che nell'estate del 2006 Israele scatenò sul Libano sarebbe uno solo: petrolio in ascesa libera, probabilmente oltre i duecento dollari al barile.

Sabina Morandi
Fonte: http://www.liberazione.it/
28.06.08


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