Il governo di Tel Aviv celebra il quarantesimo «compleanno» della Città santa
Oggi in quella stessa città ne convivono a fatica due, diversissime tra loro: l'ovest di noi ebrei signori dell'occupazione e l'est palestinese miserabile Quarant'anni fa le truppe israeliane entravano nella città vecchia: tra nostalgie bibliche, nazionalismo e sfoggio di forza militare, arrivava l'«unificazione»
La Gerusalemme ufficiale si prepara alla rutinaria e dubbia celebrazione dei 40 anni di «riunificazione». La cerimonia è regolata dal calendario ebraico, quest'anno cade un po' prima dell'inizio della guerra del '67 che portò le forze israeliane alla conquista della Cisgiordania e quindi di Gerusalemme.
I rabbini dei gruppi nazionalisti sionisti che fino a poco tempo fa evitavano di spingersi fino al «Monte del Tempio», ci sono invece arrivati da due o tre giorni. Presenti tutti i loro esponenti più noti, compresi alcuni dei rabbini più estremisti delle colonie nei Territori occupati. Già si sentono le voci dei rabbini ultra-ortodossi, le loro critiche furiose contro quanti sono andati al Monte, pagani e «sacrileghi disposti a violare la santità del Monte per dare il loro appoggio idolatra alla redenzione sionista».
Il Monte del Tempio. Per i musulmani è il concretissimo monte su cui si trovano le sacre moschee, che per gli ebrei sarebbero state costruite sulle rovine del Secondo tempio distrutto nel I secolo dopo Cristo. Finora la maggior parte dei religiosi israeliani accettava la proibizione di recarsi in quel luogo, dal momento che non si conosce con certezza l'ubicazione esatta delle rovine del santuario e per andarci sarebbe obbligatorio un preventivo rituale di purificazione. Finora la proibizione favoriva la politica ufficiale di Israele dai tempi di Moshe Dayan, il ministro della difesa nella vittoriosa guerra del '67, il quale aveva capito che quel posto poteva essere un barile di dinamite. Il possibile venir meno della probizione potrebbe essere un segnale dei duri scontri in atto fra i fondamentalisti e potrebbe risvegliare di nuovo il sacro Monte, sacro sia per gli ebrei sia per i musulmani e molto vicino a luoghi altrettanto sacri per i cristiani. Tutta questa santità può essere la migliore premessa a grandi spargimenti di sangue.
La «liberazione»
Quando Gerusalemme si copre di nubi e l'aria si fa pesante per i venti del deserto, quando un giorno piove e l'altro no, sappiamo che è arrivata l'instabile primavera e con essa i ricordi dei fatidici giorni che precedettero la guerra del '67. Le voci che cercarono di impedirla furono molto poche. Erano i primi giorni di giugno, nel sud le nuvole si aprirono quanto bastò per permettere all'aviazione israeliana di levarsi per un raid vittorioso che in tre ore annientò la forza aerea egiziana. Poi ci furono le battaglie, che ormai non avevano niente a che fare con «l'imminente pericolo che minacciava l'esistenza di Israele» di cui parla la storia ufficiale.
Quel mattino di quel 5 giugno uscii per andare al lavoro e ancora non era chiaro cosa stesse succedendo. Poche ore dopo una bomba esplose molto vicino all'edificio in cui svolgevamo le nostre attività studentesche, e la Fiat 850 della segretaria non esisteva più. Ci presentammo volontari in un ospedale. Cominciarono ad arrivare i primi soldati feriti, i primi soldati morti. Sentii che parlavano di un certo Shemariahu caduto in battaglia. Poche ore dopo la mia compagna mi disse che si trattava del «nostro» Shemariahu, un brillante e bellissimo ragazzo che fino a pochi giorni prima ci insegnava filosofia greca all'università. Le bombe continuavano a cadere e potevo vedere, nei miei spostamenti, i piccoli aerei leggeri che bombardavano le forze della Legione araba nei pressi delle mura di cinta della città vecchia.
Fino a quel momento la città divisa aveva offerto il mistero dell'ignoto. Quando salivamo su alcune alture della nostra parte di Gerusalemme potevamo vedere la gente che camminava, le auto, i bus. Potevamo sentire perfino i rumori dell'altra città, così vicina e così lontana, e immaginavamo possibili passeggiate quando altri giorni fossero venuti. L'euforia era enorme, nel giugno del '67. I morti recenti, già dimenticati, non impedivano i festeggiamenti per la redenzione della mitica Gerusalemme. Impazzavano nostalgie bibliche, tutto Israele entrava nell'oscuro capitolo del nazionalismo fondamentalista, che dura ancora e diventa ogni giorno più greve. A 19 anni dalla sua nascita, il piccolo stato si convertiva in un mini-impero regionale che avrebbe preso la strada della guerra, sordo alle richieste di una popolazione locale con aspirazioni e diritti nazionali.
«Liberata, unificata»: il muro invisibile
Agli occhi degli israeliani la città non sarebbe stata altro che pietre e luoghi, e gli abitanti palestinesi solo un fastidio nella grande ora della redenzione. I palestinesi morti in guerra giacevano ancora nelle strade, i soldati israeliani caduti erano appena stati sepolti e già i bulldozer spianavano le case palestinesi adiacenti al Muro del Pianto, il più sacro resto dello storico Tempio. Mentre si sacralizzavano le pietre, solo poche voci isolate e lucide, come quella del professor Leibovich, ammonirono contro il paganesimo senza fondamento e criticarono la cecità politica del momento.
L'unificazione significa una città israeliana in cui gli abitanti palestinesi sono un intralcio permanente, una «minaccia demografica» agitata un'infinità di volte dal 1967. I venti dell'apartheid soffiano già forti nel paese: non ci si può sorprendere se essi soffiano ancor più forti a Gerusalemme.
Teddy Kollek, il sindaco tanto famoso nel mondo per il suo «liberalismo», si gettò a corpo morto nella costruzione di nuovi quartieri in città. Ma non per tutti. Solo per gli ebrei. Terre palestinesi confiscate costituirono la base per migliaia di case costruite con un indirizzo strategico chiaro: creare cerchi di dominazione intorno alla popolazione palestinese. Asfissiare ogni tentativo di crescita della popolazione palestinese locale. Mentre si costruivano migliaia di nuovi appartamenti e s'investivano milioni di dollari per cambiare la città, si decideva l'abbandono della parte orientale di Gerusalemme. Ieri mattina, in occasione dei 40 anni dalla «riunificazione», alla radio israeliana è stata posta al vice-sindaco una domanda sulla disparità dei servizi nei due settori della città. Perfino Ygal Amadi, un «destro», non ha potuto fare a meno di riconoscere l'abisso fra la parte palestinese e quella ebrea.
Un muro invisibile divide le due Gerusalemme. Noi, i «signori» dell'occupazione, viviamo a ovest, nel settore in cui abbiamo diritti e un livello di sviluppo più o meno pari a quello del resto di Israele. Loro, i «sudditi», abitano a est, in una Gerusalemme diversa. Sono due mondi distinti e ormai nessuno può più nascondere la menzogna della «riunificazione di una città con uguali diritti». In tutta la Gerusalemme palestinese, con i suoi 200-250mila abitanti, ci sono in tutto due asili-nido ufficiali, mancano migliaia di aule per gli studenti, si vive in una miseria a volte da Terzo mondo, difficile da descrivere e inimmaginabile nella Gerusalemme israeliana. Le fogne, la posta, la raccolta dei rifiuti: tutto è diverso, e solo i propagandisti più stupidi cercano di nasconderlo.
Il mio check point educato
Ora il mito della sicurezza ha portato alla costruzione del muro dell'odio lungo i territori occupati. A Gerusalemme il muro dell'odio è oggi una realtà kafkiana e non più invisibile. E' un muro che divide le strade in due e che, con il pretesto della sicurezza, soffoca la popolazione palestinese. Arrivare al mercato, al lavoro, all'ospedale più vicino può diventare un tormento. Per andare a cena dal mio amico palestinese N., a Gerusalemme, devo passare un check-point. Due soldati controllano entrata e uscita verso edifici residenziali abitati da un'elite palestinese a
contatto con israeliani e media. I soldati si comportano un po' meglio del solito.
Invece i palestinesi di Gerusalemme non possono incontrare facilmente altre famiglie dello stesso quartiere, non possono accedere facilmente a qualsiasi tipo di servizio, se devono andare a Ramallah rischiano un'odissea di ore per uno spostamento che in passato richiedevano dieci minuti. Vivono in situazioni economiche difficili, i servizi pubblici sono un disastro, villaggi ormai integrati nella città sono mini-prigioni dove non si può né uscire né entrare. La città somiglia sempre più a una pentola a pressione pronta a esplodere. La popolazione palestinese asfissiata, impoverita, senza diritti reali, è indifesa davanti all'arbitrio dei governi nazionali e locali. E rialzano la testa i gruppi estremisti israeliani che vogliono il ritorno al Tempio - eufemismo che nasconde la possibilità di una guerra di religione il cui inizio si può prevedere ma la cui fine sarebbe tragica.
Il 66% degli abitanti di Gerusalemme sono ebrei, il 34% palestinesi, «il fantasma demografico» continua ad aleggiare. L'anno scorso hanno lasciato la città 17mila israeliani e ne sono arrivati solo 11 mila. La bella Gerusalemme diventa un antro oscuro abitato da palestinesi al fianco di ebrei ultra-ortodossi e di fanatici ultra-nazionalisti. E' difficile trovare lavoro, i prezzi delle case aumentano, non c'è da sorprendersi se molti giovani israeliani si stanchino dell'aria della città «unificata». Il 57% degli israeliani accetta la possibilità di concessioni territoriali a Gerusalemme ma la retorica, governativa e no, oscura la realtà. Da 40 anni Gerusalemme è una macchia nera nella più generale realtà dell'occupazione. Gerusalemme sarà uno degli ostacoli più grandi verso una vera pace, inimmaginabile senza che le parti prendano in considerazione l'importanza capitale della città per entrambi i popoli.
Una Gerusalemme davvero unificata ma con una sovranità condivisa, come capitale dei due stati di Israele e Palestina, può essere una buona base per la pace. Oggi non è altro che una triste testimonianza dell'occupazione. La violenza è minore, ma l'attuale politica israeliana di strangolamento potrebbe portarci a tragedie di portata insospettabile.
Zvi Schuldiner
Fonte: www.ilmanifesto.it
16.05.07
Riporto qui una citazione da un articolo di Fulvio Grimaldi
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=3362
...Schuldiner, che distribuisce torti e ragioni in modo da rendere assolutamente paralleli i due piatti della bilancia, quello dei massacrati e quello dei genocidi,