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Turchia: Democrazia vo' cercando


alcenero
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Con il passare dei giorni, di manifestazione in manifestazione, le proteste contro la presunta minaccia islamica rappresentata dal premier Erdogan e dal suo partito perdono l'ambiguità e le speranze che qualcuno, anche a sinistra, aveva riposto nel milione di persone convenute in piazza a Istanbul.
«E' vero, c'era chi diceva 'né con i golpisti né con la sharia'. Ma dietro quelle parole d'ordine si nascondono i militari, la democrazia è un paravento dietro cui si agitano ben altre intenzioni», ci dicono nella redazione di Agos i colleghi di Hran Dink, il giornalista armeno ucciso da un fascista diciassettenne i cui mandanti restano ignoti solo alla polizia e agli inquirenti. La procura aveva chiesto di aprire il processo per un crimine organizzato, ma la Corte d'assise aveva risposto negativamente, «non ci sono le prove». Finalmente la richiesta è stata accolta da un'istanza giudiziaria superiore che dunque ammette il carattere, se non politico, almeno organizzato dell'omicidio. Organizzato e non impedito: il capo della polizia di Samsun - la città da cui Ataturk aveva iniziato la sua cosiddetta «rivoluzione» - aveva avvisato il suo collega di Istanbul che proprio dal mar Nero stava partendo una minaccia alla vita di Dink. Il capo della polizia di Istanbul non aveva mosso un dito.
Per un giornalista che viene ucciso parecchi altri vengono sbattuti in prigione. Attualmente sono rinchiusi nelle celle in 23. Basta poco per finire in galera, un articolo sul genocidio armeno o sulle discriminazioni nei confronti dei kurdi, una denuncia contro la violazione dei diritti umani. Oppure una notizia sugli scontri nelle montagne del Kurdistan iracheno che non ricalchi fedelmente la velina dell'esercito. I kurdi non si possono chiamare kurdi né guerriglieri, sono «terroristi» punto e basta. Ma i giornalisti non demordono: anche il 1° maggio hanno denunciato l'uso criminale della violenza da parte della polizia contro i manifestanti, ancora a Istanbul nella piazza Taksim. Alcuni giornalisti sono stati manganellati, altri fermati, altri intossicati dai lacrimogeni. I più esperti, ormai, sanno come vestirsi prima di andare in piazza a fare il loro dovere di cronisti: in molti il 1° Maggio indossavano caschi da motociclisti e maschere antigas. Ora alcune organizzazioni professionali e sindacali della categoria chiedono le dimissioni del prefetto e del capo della polizia. Tutto inutile, ma lo sconforto non ha la meglio, «la lotta continua».
L'islam, l'Akp e il «pericolo integralista» hanno ben poco a che fare con le connotazioni autoritarie dello stato turco. Erdogan ha ereditato quasi tutto, a partire da una legge liberticida che pone l'ostacolo del 10% all'elezione di parlamentari, cosicché una parte consistente di società civile turca non ha rappresentanza politica. La tortura e i carceri speciali, ci ricordano i militanti di «Tayad», l'associazione dei familiari dei detenuti politici, sono un'eredità kemalista. Il fascismo e il golpismo non ne parliamo. Poi, va detto, il partito islamico al governo si è adattato bene alla situazione ricevuta in eredità: il ministro della giustizia Cicek è un ex Lupo grigio. E i Lupi grigi, divisi anche loro in due tronconi - Mhp e BBp che sono i più duri - sono a disposizione del potere. Anche del governo, se serve a far precipitare il clima politico che è poi l'obiettivo dei militari e del loro partito di riferimento. Infine la Costituzione turca, compresa la legge elettorale, non è certo di Erdogan ma è figlia dell'ultimo (per ora, almeno) colpo di stato dei militari.
La rete dell'associazionismo è molto diffusa in Turchia. Operano soprattutto in difesa dei diritti umani regolarmente violati, ai danni delle minoranze etniche, poliche, culturali. C'è l'Ihd, il cui presidente onorario è Akin Birdal, vittima di decine di attentati e aggressioni e lungamente detenuto. E' interessante che nelle zone kurde questa associazione, forse la più importante del paese, operi insieme ad associazioni islamiche. Battaglie su battaglie, come quella contro la tortura. Ha fatto molta impressione la storia di un gay che si era rifiutato di indossare la divisa. Una storia di prigionia e torture contro cui hanno manifestato in molti nei mesi scorsi.
C'è il Fronte della libertà e dei diritti civili, l'Hoc, un'associazione di sinistra che opera soprattutto nelle carceri, tra i baraccati a Istanbul e in Anatolia. C'è una forte resistenza tra i baraccati di tutte le etnia, nei confronti dei quali la polizia, dove non può intervenire con la violenza, «interviene con la corruzione, la droga, la prosituzione», mi racconta una miltante di Hoc. «Della nostra associazione fanno parte anche un centro culturale e il gruppo musicale Grup Yorum. Siamo per il boicottaggio delle elezioni, come molti altri gruppi e associazioni della sinistra turca, perché non vediamo nella situazione presente un'alternativa possibile».
Naime è la mamma di uno degli ottomila detenuti politici. Mi riceve nella sede di Tayad dove incontro ex detenuti torturati, alcuni segnati dal carcere nel corpo e nella testa. Aziz ha completamente perso memoria e ragione. Naime mi mostra foto terribili di detenuti bruciati vivi in carcere dai militari che volevano imporre la fine dello sciopero della fame - che continua e ha già provocati 122 vittime. Naime nega che l'avvio del processo di avvicinamento della Turchia abbia modificato la vita in carcere: «Nei carceri di tipo F, quelli che impongono l'isolamento, si continua a impazzire e il massimo che l'Europa riesce a fare è criticare l'uso eccessivo della violenza. Non sarà che con il confronto in atto l'Europa diventerà più simile alla Turchia, e non il contrario». In realtà qualcosa è stato fatto. Il ministero della giustizia ha diffuso nelle carceri l'ordine di consentire gli incontri tra detenuti, 10 ore la settimana per 10 detenuti. «Peccato - mi dice un'altra militante dell'organizzazione - che i direttori delle carceri non attuino l'ordinanza e continuino a far impazzire i detenuti politici in isolamento».
Girando nelle strade di Istanbul capita di passare in cento passi dal paradiso all'inferno. Inizi una discesa da Taksim, tra alberghi a cinque stelle e minigonne, e scivoli verso case semidiroccate abitate da rom, kurdi, transessuali, veli islamici e persino qualche burka. I rom sono festosi, vanno avanti a suonare fino al mattino mentre i kurdi sono riservati, spesso chiusi in casa, non tollerano quella confusione. «Vogliono cacciarci anche da qui - dice una vecchia signora kurda - dopo che i poliziotti ci hanno distrutto la baracca in cui vivevamo e ci hanno deportato in questo macello. Neanche gli zingari ci vogliono.»
Eppure, se non ci fosse la follia di un potere turchista repressivo che divide e colpisce a destra e a manca (ma a manca è stato già affossato quasi tutto) potrebbero vivere uno accato all'altro fedi ed etnie diverse: sunniti, salafiti, armeni, i poveri aleviti che ne hanno prese tante quanto i kurdi e gli armeni. E' vero, i veli in Turchia crescono ma le persone ragionevoli sono terrorizzate molto più dai militari che dall'islamizzazione. Temono che la diffusione della paura tra la popolazione legittimi azioni repressive, e non pochi mi hanno ricordato l'esperienza dell'Algeria, quando l'annullamento delle elezioni vinte dagli islamici mise in moto una terribile spirale di guerra. «L'Europa si preoccupa troppo di Cipro e troppo poco dei diritti umani», mi dice un venditore di pistacchi sul ponte di Galata. Forse ha ragione lui, e forse ha ragione Naime quando mi ripete che in Turchia il problema è la democrazia che non c'è, e non il velo.

Loris Campetti
Fonte: http://www.ilmanifesto.it/
Link: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/08-Maggio-2007/art82.html
08.05.2007


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