Ci sono ormai segni netti di pacificazione tra Trump, Putin e Zelensky per mettere fine alla guerra in Ucraina. Ieri l’inviato speciale Usa era a Mosca
La Storia, dopo un periodo in cui sembrava essere finita, è ripartita con forza. È quella storia che basa sulla geografia buona parte delle strategie degli attori geopolitici dominanti. Il dominio unipolare a trazione USA è stato sfidato da uno multipolare con in testa la Cina, fiancheggiata da altri Paesi tra cui la Russia.
La contesa passa anche per l’Ucraina, che in lingua slava significa “terra di confine” e che, per la sua condizione di cerniera, tutti gli attori dominanti nel quadrante, dal Medioevo in poi, hanno cercato di controllare, come ponte per proiettare ora ad est, ora ad ovest, la propria potenza. Fino a cercare di plasmarla geograficamente ed etnicamente, come ha fatto la Russia nelle sue varie declinazioni: Impero zarista, Unione Sovietica, Federazione Russa. Fino al capriccio di Nikita Kruscev che nel 1954, con un semplice atto amministrativo, “donò” all’Ucraina la Crimea, dove risiedevano 10 milioni di russi etnici più un numero non precisato di ucraini, russi assimilati.
Detto questo, analizzare i proclami e le azioni pubbliche e trarne auspici sui pensieri di personaggi come Trump e Putin è come cercare di prevedere l’esito della guerra al pari di quanto facevano gli antichi sacerdoti aruspici. Ovvero è pura fantasia.
Per sfuggire almeno in parte alla propaganda possiamo però guardare ai fatti che si succedono, vicino alle notizie che riceviamo. In questo caso, dopo l’arcinota promessa elettorale di chiudere la guerra in Ucraina in 24 ore, Trump non ha firmato atti contro la Russia, ma solo minacciato sanzioni iperboliche, e ultimamente, formulato una richiesta di risarcimento all’Ucraina di 500 miliardi di dollari spesi in aiuti militari dagli Stati Uniti, un debito da restituire attraverso l’acquisizione di risorse minerarie in terre rare, che in parte sono già in mano russa in territori strappati alla sovranità ucraina. Insomma Trump, per competere con la Cina e la sua narrativa, ci dice quello che vuole, soprattutto che l’America ne avrà un guadagno.
Dall’altra parte, invece, il primo segnale Putin ce lo aveva dato nel discorso di fine anno. Durante l’evento infatti l’autocrate moscovita, oltre a veleggiare con la sua retorica su affermazioni di difesa dell’etnia russa in Ucraina, di vittoria sul campo e accuse all’Europa ed a Boris Johnson di aver impedito una soluzione diplomatica della guerra, aveva affermato che non avrebbe mai intrapreso negoziati di pace con Zelensky, ritenendolo decaduto. In poche parole ci aveva detto che voleva negoziati di pace, ma non con l’Europa, che lo aveva costretto alla guerra, e neanche con Zelensky, che lui considera alla pari di un burattino imbucato.
Putin ci aveva detto che voleva mantenere le conquiste territoriali e ci aveva dato anche una narrativa per trattare la pace, ovvero la vittoria sul campo. Il fatto che ci illuminò sul bisogno di pace russo fu il veloce ritiro di Mosca dalla Siria, che all’epoca attribuimmo alla stanchezza dopo tre anni di guerra, e alla ricerca di una via d’uscita onorevole che non sfregiasse il regime russo agli occhi della popolazione, perché i russi non perdonano i fallimenti dei loro regimi: ce lo hanno già fatto vedere tre volte dal 900.
Ieri l’ultimo tassello che ci indirizza verso una volontà di pace dei due contendenti. Putin ha liberato un prigioniero americano, Marc Fogel, e uno stretto collaboratore di Trump, l’inviato speciale Steve Witkoff, si è recato in Russia a prelevarlo, intrattenendosi in un colloquio riservato al Cremlino. A margine la dichiarazione che un altro prigioniero sarà liberato sabato, a sorpresa; non è dato conoscere altri particolari della vicenda. Ce ne sarebbe abbastanza per un caso di studio sulla negoziazione di Robert Cialdini. La via della pace in Ucraina è ancora lunga quanto imperscrutabile, ma le basi si stanno creando. Stiamo a vedere.
Giorgio Laici Pubblicato 13 Febbraio 2025