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Fascismo in atto si, propagandarlo no!


Anticapitalista
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La classe capitalista vive in una persistente ossessione e in un terrore: impedire che si rompa la pace sociale, nella consapevolezza dell’insolubilità delle contraddizioni in cui si dibatte il modo di produzione di cui è beneficiaria. Per attuare l’una ed esorcizzare l’altro, la borghesia ha bisogno di un continuo trasformismo ideologico, per sviare costantemente l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri problemi che affliggono il suo decrepito ordine sociale, per illudere se stessa e per ingannare i proletari.

Ecco allora che, fra le numerose trovate del campagna pubblicitaria permanente del politicantismo parlamentare, è tornata in discussione, nelle aule in cui viene officiato il rito democratico, una nuova legge che torna ad imbalsamare uno dei cadaveri che la classe dominante custodisce nell’armadio del suo percorso storico: quello del fascismo.

Non è un caso se ancora una volta, la terza se non andiamo errati nella storia repubblicana, viene presentata una legge che si propone di mettere “fuori legge” il fascismo. Nel settembre scorso la Camera dei Deputati ha approvato ad ampia maggioranza un disegno di legge, presentato dal deputato del PD Emanuele Fiano, il quale introduce nel codice penale il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista. Il testo di legge, che ora dovrà passare all’esame del Senato, prevede la reclusione da sei mesi a due anni per chi compia saluti romani o venda simboli che richiamino i passati “regimi totalitari”.

Eppure già la precedente Legge Mancino, introdotta nel 1993, aveva bandito gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista e che incitavano alla discriminazione per motivi razziali, religiosi o altri ancora. Ancora prima, nell’ormai lontano 1952, a firmare una legge per mettere “fuori legge” il fascismo, era stato quel famigerato ministro degli interni che tanto sangue proletariato aveva fatto versare nelle piazze e tanti lavoratori mandò in galera, Mario Scelba, incarnazione della versione postfascista della dittatura borghese, che affronta con il manganello e il piombo ogni malcontento della classe lavoratrice. La legge Scelba già puniva la “apologia di fascismo” e chiunque “promuova od organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”.

Tutti sanno che queste leggi in realtà non hanno avuto alcuna efficacia per scoraggiare o smantellare movimenti e partiti che non nascondevano e non nascondono la loro connotazione ideologica fascista e la loro prassi violentemente e ferocemente antiproletaria e anticomunista. Al contrario tali movimenti sono sempre stati allevati dalla stessa democratica classe dominante che li ha foraggiati e protetti, anche se sono stati spesso tenuti in disparte come riserva, in attesa dei periodi in cui sarebbero chiamati a giocare un ruolo di maggior rilievo per le finalità controrivoluzionarie di repressione delle istanze e dei movimenti proletari.

La nostra corrente politica, unica, ha ben definito i tratti peculiari del fascismo e rilevato quanto di questo regime sia rimasto vivo anche attraverso gli oltre 70 anni di storia repubblicana. Unica ha sempre considerato il fascismo non come un rigurgito di forze feudali e antimoderne, ma una necessità del capitalismo più avanzato economicamente e socialmente, giunto anzi a fetente cadavere.

Espressione dell’esigenza di governare le tendenze incoercibili, ad un tempo causa ed effetto della crisi cronica del capitalismo dominante a scala mondiale, il metodo fascista ha permesso alla borghesia di ritardare la sua lenta, ineluttabile e catastrofica agonia. La crisi ormai secolare che attanaglia il capitalismo continua a richiedere le misure dittatoriali post-democratiche per primo adottate dal fascismo, le quali hanno permeato ogni aspetto della successiva vita sociale e politica.

Questo non ha significato che fascisti dichiarati abbiano avuto sempre la personale direzione di un processo storico, che è impersonale. Anzi, per lo più abbiamo assistito al contrario: l’affermazione dell’essenza del fascismo, in termini di controllo sociale della piccola borghesia, di totalitarismo del regime del capitale e di assoggettamento della classe lavoratrice all’esigenza di aumentare la produzione del plusvalore, è coincisa proprio con il bisogno ideologico della borghesia di esorcizzare il fascismo stesso ed emarginare quanti di questo movimento ne sono stati ispiratori e partigiani.

Tale è il caso alla conclusione della Seconda Guerra mondiale, con la sconfitta militare dei regimi fascista in Italia e nazista in Germania. Ma questo non è coinciso con la fine del fascismo, il quale si è invece generalizzato, estendendosi progressivamente a sistema di governo planetario.

Un aspetto del fascismo è il suo atteggiamento rispetto al movimento operaio e ai sindacati. Per negare ogni liceità ed agibilità alla lotta di classe e agli scioperi il fascismo si è premurato, sin dal suo affermarsi come regime politico, di ottenere una sostanziale e organica subordinazione dei sindacati dei lavoratori all’apparato politico dello Stato capitalista. Da allora in poi la funzione precipua di ogni organismo statuale e di ogni formazione politica della classe borghese è di inquadrare e sottomettere ogni movimento della classe proletaria.

Nei principi che ispirarono la legislazione corporativa del fascismo troviamo gli stessi fondamenti che furono in seguito alla base della pratica seguita per lunghi decenni dai regimi democratici, al fine di depotenziare la minaccia dei conflitti sindacali all’ordine sociale vigente.

Lo scopo di tutta la legislazione corporativa fascista introdotta nell’ordinamento giuridico italiano era impedire ogni manifestazione indipendente del movimento proletario. I dispositivi che facevano parte di questa nuova articolazione istituzionale comprendevano il riconoscimento del sindacato come organo dello Stato e l’istituto del contratto nazionale di lavoro avente forza di legge.

La “Carta del lavoro” approvata dal Gran Consiglio del Fascismo nell’aprile del 1927 è un documento che eloquente attesta l’esigenza, sempre più avvertita dalla classe borghese, di sottoporre a uno stretto controllo le ormai insopprimibili organizzazioni economiche dei lavoratori, costringendole ad una esistenza all’interno delle istituzioni statuali, deprivandole di ogni indipendenza di vita propria, lasciando loro solo il compito di simulare una parvenza di difesa degli interessi della classe.

All’articolo III vi si legge: «L’organizzazione professionale o sindacale è libera. Ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori per cui è costituito, di tutelarne, di fronte allo Stato o alle altre associazioni professionali, gli interessi; di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria, di imporre loro contributi e di esercitare rispetto ad esso funzioni delegate di interesse pubblico».

Tre anni dopo il varo del più importante documento programmatico della concezione corporativa dello Stato, nel 1930, nel corso del “Primo convegno di studi sindacali e corporativi”, il giurista Carlo Costamagna, uno dei principali teorici dell’ordinamento corporativo e, insieme ad Alfredo Rocco, estensore della “Carta”, circostanziava: «Il sindacato legalmente riconosciuto è organo dello Stato nella sfera della sua competenza (...) In questo senso il sindacato è un organo specializzato dello Stato (...) sì è come i Comuni e le Provincie».

La visione del sindacato “responsabile” vi è parimenti anticipata nell’articolo VI: «Le associazioni professionali legalmente riconosciute assicurano la uguaglianza giuridica tra i datori di lavoro e i lavoratori, mantengono la disciplina della produzione e del lavoro e ne promuovono il perfezionamento», accomunandosi questo testo monocorde e lugubre alle parole di oggi dei sindacalisti di mestiere e dei politicanti nella stanca filastrocca degli “interessi nazionali”, delle “esigenze della produzione”, la stessa rivoltante omiletica, l’arte predicatoria dei preti, propria dello “Stato etico” fascista e della sua bugiarda pretesa di perseguire il “bene comune” delle sempre antagoniste classi sociali.

Continuando troviamo infatti nell’articolo IV: «Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà fra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione».

Quanti lavoratori devono oggi fare i conti con delegati sindacali asserviti alla direzione aziendale? o con la finzione di “contribuire all’elaborazione del piano industriale”, al fine di moderare, se non cancellare, le vere richieste operaie? Come non ricordare che preoccupazione costante di ogni democratico governo borghese è stata ostacolare la possibilità che il proletariato eserciti la sua più efficace arma di difesa che è lo sciopero? Come dimenticare le leggi 146/1990 e la 83/2000, la seconda introdotta da un governo di centrosinistra, volte a limitare lo sciopero nei servizi pubblici, punendolo con pesantissime sanzioni tanto da renderlo del tutto impraticabile? Dove sarebbe la differenza rispetto alla repressione penale dello sciopero? se viene proclamato senza preavviso e senza limiti di tempo oggi, per ora, non si rischia la galera, ma già si mette in pericolo il posto di lavoro e si va comunque incontro a dure sanzioni.

Tirato il confronto con la situazione di 90 anni fa dobbiamo ammettere che il fascismo, lungi dal tramontare ed essere sconfitto, si è rafforzato, si è perfezionato e arricchito di nuovi strumenti di oppressione e di inganno nei confronti del proletariato.

Per questo ci appare come una stucchevole ed inutile manfrina, buona solo a incantare i gonzi, quella messa in scena dal governo per “proibire” la propaganda fascista: il fascismo non ha bisogno di essere propagandato.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

www.international-communist-party.org/ItalianPublications.htm


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