Sei Relatori Speciali delle Nazioni Unite hanno scritto una lettera al governo italiano esprimendo preoccupazione per le misure contenute nel disegno di legge 1660, attualmente in discussione al Parlamento. Secondo il loro parere, infatti, le disposizioni contenute nella bozza – con particolare riferimento al reato di occupazione arbitraria e di blocco stradale, oltre che alle aggravanti introdotte per una lunga serie di reati – violerebbero una lunga lista di diritti umani e civili, ponendosi in contraddizione con patti e trattati europei per la tutela dei diritti umani e civili sottoscritti e ratificati dall’Italia. Per tale ragione, i sei Relatori hanno chiesto al governo italiano di modificare o revocare del tutto alcune delle norme contenute nella bozza.
I Relatori si sono soffermati, in particolare, su una dozzina di articoli contenuti nel ddl, a partire dall’art. 1, che preve la reclusione fino a sei anni per chi «si procura o detiene» materiale utile alla preparazione o all’uso di armi al fine di compiere non meglio specificati atti di terrorismo (scritto «con un linguaggio vago ed eccessivamente ampio, rischiando di criminalizzare atti che non sono terroristici»). L’art. 10, che introduce il reato di occupazione arbitraria, insieme all’art. 14 (reato di blocco stradale) contraddice il diritto di protesta pacifica e di compiere atti di disobbedienza civile definito dal Comitato per i Diritti Umani, oltre che ledere il diritto delle persone a protestare pacificamente per questioni legate all’ambiente – il blocco stradale è infatti una tecnica utilizzata spesso da gruppi quali Extintion Rebellion. Per quanto riguarda articoli come il 19 e il 21 (che introducono aggravanti per fatti violenti commessi contro le forze dell’ordine o al fine di impedire la costruzione di «infrastrutture strategiche»), i Relatori fanno notare che il linguaggio utilizzato dai relatori non definisce con chiarezza cosa si intenda con «violenza». In aggiunta a ciò, impedire alle persone di realizzare atti di protesta pacifici in relazione alla realizzazione di infrastrutture strategiche costituisce una ulteriore limitazione del diritto di manifestare.
Secondo l’analisi effettuata dai Relatori ONU, se le norme contenute all’interno della bozza di decreto fossero approvate così come sono violerebbero una lunga serie di normative europee, tra le quali «l’art. 9 (diritto alla libertà e alla sicurezza e la proibizione della detenzione arbitraria), 12 (diritto alla libertà di movimento), 14 (diritto a un giusto processo), 17 (diritto alla privacy), 19 (diritto alla libertà di espressione e opinione), 21 (libertà di riunione pacifica) e 22 (libertà di associazione) del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR)». Il testo potrebbe anche contenere violazioni degli obblighi dell’Italia specificati all’interno della Convenzione Aarhus (sui diritti dei cittadini alla partecipazione nei processi decisionali e all’accesso alla giustizia sui temi ambientali) della Commissione Economica per l’Europa (UNECE), ratificata dall’Italia nel 2001. Inoltre, notano i Relatori, il rischio è che chi è già discriminato per ragioni di razza, colore della pelle, nazionalità o status migratorio si trovi ad essere enormemente più colpito da questo provvedimento rispetto ad altre persone.
La discussione in merito al nuovo decreto Sicurezza, misura cardine del governo Meloni, è in discussione in Parlamento da qualche mese. La società civile si è in più occasioni mobilitata per chiedere che il governo riveda le sue posizioni e non approvi il decreto, che secondo vari legislatori, ONG e personalità della società civile è profondamente lesivo del diritto al dissenso. Al suo interno sono presenti anche misure alquanto controverse, come l’art. 31, che amplia in maniera significativa i poteri dell’intelligence costringendo alla collaborazione una lunga serie di servizi pubblici – come le università. Parallelamente a ciò, il nuovo decreto amplia in maniera significativa i poteri delle forze dell’ordine, che ora potranno portare con sè, anche fuori servizio e anche senza licenza, le armi di cui all’art. 42 del TULPS (Testo Unico sulla Pubblica Sicurezza), ovvero «rivoltelle o pistole di qualunque misura o bastoni animati la cui lama non abbia lunghezza inferiore a 65 cm». Infine, tra le novità principali introdotte dal disegno di legge vi è il divieto di coltivare e vendere la cannabis light, proibendo il commercio, la lavorazione e l’esportazione di foglie, infiorescenze e di tutti i prodotti che contengono sostanze derivate dalla pianta di canapa – misura che, così per come è concepita, andrà a colpire tutta la filiera di produzione della canapa industriale, mettendo dunque a repentaglio migliaia di posti di lavoro.
[di Valeria Casolaro]
sto governo non ce la fa proprio a far qualcosa di giusto. Mentre contro chi devasta le proprietà private non viene fatto niente, vedi caso Viterbo https://www.tgcom24.mediaset.it/2024/video/rave-party-a-viterbo-niente-risarcimento-per-l-agricoltore-danneggiato_91724003-02k.shtml repressione massima contro chi lotta per GIUSTA CAUSA, ad esempio contro gli espropri del green
Lo Stato vuole che i No TAV paghino le spese per la repressione della Val di Susa
Quasi 7 milioni di euro. È questa l’impressionante cifra che la Presidenza del Consiglio, insieme ai Ministeri dell’Interno e della Difesa, ha richiesto come risarcimento ai 28 imputati nel maxiprocesso contro i membri del centro sociale torinese Askatasuna e il movimento No TAV. Secondo l’Avvocatura dello Stato, i 28 dovrebbero sobbarcarsi con 250.000 euro a testa il conto complessivo delle spese sostenute dalle istituzioni per fronteggiare le manifestazioni che, tra il 2020 e il 2021, hanno infiammato la Valle di Susa e, in alcune occasioni, anche la città di Torino. A dicembre, i pm avevano chiesto per gli imputati un totale di 88 anni di carcere. Tra le accuse, per molti di loro, anche quella di associazione a delinquere.
Nella memoria consegnata ieri dai legali dell’Avvocatura distrettuale al processo che sta ricostruendo le presunte responsabilità degli attivisti per alcuni scontri con le forze dell’ordine avvenuti in Piemonte si elencano costi dettagliati: 4,1 milioni solo per il ripristino dell’ordine pubblico, con 205.988 agenti schierati nel 2020 e 266.451 l’anno successivo; a questi si aggiungono 135 mila euro per straordinari, 86 mila per l’assistenza agli agenti feriti, 40 mila per i veicoli di servizio danneggiati e 3 milioni per danni non patrimoniali, come l’eco mediatica negativa e la lesione al prestigio delle istituzioni. Accanto alle richieste dello Stato, vi è poi quella di TELT, la società incaricata della costruzione del Tav Torino-Lione, che attraverso il proprio legale ha chiesto un risarcimento di 1 milione di euro per i danni subiti dai cantieri, spesso oggetto di sabotaggi e incursioni. Dal canto suo, la Procura di Torino punta il dito contro un presunto «comitato ristretto» all’interno di Askatasuna, accusato di orchestrare e dirigere le azioni violente sotto il vessillo del movimento No TAV. L’impostazione accusatoria dipinge un quadro in cui la violenza è sistematica e organizzata per destabilizzare l’ordine pubblico e acquisire consenso politico. La difesa, però, non ci sta. L’avvocato Claudio Novaro ha criticato duramente l’impianto della Procura, definendolo un «teorema accusatorio che vuole negare la politicità dell’agire degli imputati, relegando la storia dei movimenti a espressioni deliquenziali, complotti criminali e nient’altro». Un altro elemento critico è il cosiddetto “danno non patrimoniale”, che include aspetti difficilmente quantificabili, come l’impatto mediatico delle proteste e il presunto danno alla credibilità delle istituzioni. Per molti osservatori, questa parte della richiesta rischia di trasformarsi in un monito generalizzato contro chi osa protestare, legittimando un principio per cui chi manifesta deve pagare non solo per eventuali danni materiali, ma anche per i costi delle operazioni di polizia.
Lo scorso dicembre, durante la requisitoria del processo, la Procura di Torino ha chiesto condanne a ottantotto anni di carcere complessivi per 28 persone, con pene da 1 a 7 anni. Tra gli imputati, 16 si trovano ad affrontare l’accusa più grave, ovvero quella di associazione a delinquere: due in quanto ideatori della presunta associazione, sei in quanto promotori e altri 8 come partecipanti Molti dei militanti di Askatasuna coinvolti sono infatti anche membri del Movimento No TAV, realtà di resistenza tra le più tenaci e organizzate in Italia, che da decenni lotta contro la devastazione del territorio della Val di Susa dovuto alla costruzione della grande opera. Le accuse si basano su intercettazioni raccolte tra il 2019 e il 2021, utilizzate, secondo gli attivisti, in maniera «completamente decontestualizzata». Inizialmente, la Procura aveva ipotizzato il reato di associazione a delinquere con finalità eversive, uno dei più gravi del nostro ordinamento. In base a ciò, venne richiesto lo sgombero del centro sociale Askatasuna e di vari altri edifici occupati a Torino, nonchè di tutti i presidi No TAV in Val di Susa. L’accusa iniziale è stata tuttavia rigettata dal giudice dell’udienza preliminare e successivamente riformulata in associazione a delinquere.
[di Stefano Baudino]