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"La stampa ha abbandonato il paese" The press has let the country down
Stefano Marcelli
Sono italiano e per questo sono qui con un po' di imbarazzo. Il mio è il Paese dove un solo uomo controllo tre reti televisive private, che possiede, e le tre pubbliche, che controlla come Primo Ministro. Dove i giornalisti scomodi vengono cacciati o emarginati e molti degli altri tendono ad adeguarsi . Il mio è il Paese che propone come commissario europeo Rocco Buttiglione, un uomo che teorizza tranquillamente che i gay sono "peccatori" , che "l'omosessualità è segno di disordine morale" , che le donne "devono stare a casa a fare figli".
E in Italia nessuno insorge e lo tratta come il "fanatico integralista" che è. Per questo mi coglie un certo pudore a parlare di libertà di informazione in contesti internazionali. Forse dovrei tacere e ascoltare? Faccio il giornalista da trent'anni e da venti alla Televisione di Stato. E per questo provo una certa emozione a prendere la parola qui dove nacque la BBC, il primo e più autorevole servizio pubblico televisivo del mondo.
Noi del sindacato dei giornalisti italiani abbiamo sempre visto la BBC come modello di autonomia e obbiettività a cui anche la nostra RAI, afflitta dalla subordinazione ai partiti, doveva ispirarsi. Un mito che ha retto fino all'estate di un anno fa quando, dopo aver onorato la propria storia denunciando la falsità delle motivazioni addotte da Blair e da Bush per la guerra in Iraq, la BBC capitolava sotto i colpi di un governo laburista.
L'emarginazione di Gilligan, la rivelazione del nome di Kelly e il suo suicidio e le dimissioni del direttore generale, assestavano un duro colpo al patrimonio di credibilità e di autonomia della televisione di Stato inglese. La BBC aveva smascherato la Grande Bugia all'origine di questa guerra ideologica (oggi lo ammettono anche Bush e Blair), ma l'assalto alla stampa libera è partito e non si fermerà.
Ogni guerra è anche guerra di propaganda, di controinformazione e disinformazione. Si dice da sempre che la prima vittima della guerra è la verità. Ma la prima verità è che la pressione dei grandi poteri politici ed economici sui media nasce prima ed esplode poi clamorosamente con Enduring Freedom. E il rischio che voglio qui denunciare è che questa tendenza alla resa dei media e del mondo intellettuale, imbelle di fronte a censure e manipolazioni, continui anche dopo l'eventuale e auspicata vittoria di Kerry o di altri leader di sinistra.
La deriva autoritaria delle nostre democrazie propone modelli di governo che prevedono lo stretto controllo dei media e la sostituzione dell'informazione con la comunicazione di propaganda. Che un leader laburista come Blair si fosse alleato con testate giornalistiche come The Sun e con il più potente e reazionario imprenditore televisivo come Rupert Murdoch , già al tempo della propria elezione, la dice lunga su come la BBC rappresentasse in realtà un obbiettivo delle grandi strategie politico-medianiche.
E che dire delle testate giornalistiche degli Stati Uniti, tanto autonome da essere considerate vere e proprie "institutions" che fanno riferimento direttamente al Primo Emendamento della Costituzione, e che in passato hanno fatto cadere un presidente potente e guerriero come Richard Nixon. Oggi tivù e giornali si autocensurano nascondendo all'America le bare dei marines caduti in Iraq e le lacrime e le proteste delle madri e delle vedove. Per vedere queste immagini bisogna andare al cinema e guardare Fahreneit 11/9 di Michael Moore.
Dobbiamo allora constatare con preoccupazione a amarezza che vi è stata una resa del giornalismo indipendente alle "ragioni della guerra". A fronte di testate militanti come il Washington Times e Fox News che si sono schierate apertamente a fianco di Bush e dell'esercito americano, le grandi testate di giornali e tivù si sono rifugiate in una sorta di limbo politically correct.
Il rispetto della verità negli Stati Uniti è lentamente degenerato nella scelta di non schierarsi, di accomodarsi in una superficiale analisi dei fatti", ha scritto Brett Cunningham sulla American Journalism Review. Anchorman e columnist, hanno sotterrato la tradizionale ascia delle domande imbarazzanti, la rivendicazione della verità e della coerenza in nome della Nazione, lasciando libera l'Amministrazione di sviluppare la propria imponente campagna di comunicazione a livello globale. Nella migliore delle ipotesi, fanno notare gli osservatori più critico del panorama mediatico statunitense, i media si sono limitati a contrapporre asetticamente due versioni. Si potrà dire che lo shock epocale dell'attentato al World Trade Center ha congelato opinione pubblica e media americani portandoli a schierarsi patriotticamente dietro la star and strike e il Presidente.
"Ma un profondo interprete dei sentimenti americani come Bruce Spingsteen non è di questo parere. Schierandosi clamorosamente nella campagna elettorale a fianco dei Democratici, the Boss ha spiegato di essersi sentito tradito e ha additato come principali responsabili accanto a Gorge Bush, proprio i media: " The press has let the country down:. (la stampa ha abbandonato il Paese ndr), ha preso una posizione molto amorale, nel senso che questioni fondamentali sono spesso riportate come una parte dice questo e una parte dice quest'altro. Credo che Fox News e la destra repubblicana abbiano intimidito la stampa insinuandole un terribile imbarazzo per apparire obbiettiva, mettendola in un angolo. Questa sarà una questione da affrontare dopo le elezioni. Non so se sia iniziato con la guerra in Iraq. La stampa dovrebbe essere l'ancora di salvezza della democrazia".
Il vecchio Boss ci offre quindi una bella analisi che spiega quanto siamo nel cuore di una questione a pieno titolo politica. Tanto che i repubblicani sono impegnati nel boicottaggio dei concerti di Springsteen. Ma è anche vero che ai giornalisti della Washington Post è vietato, per motivi di equidistanza politica, di acquistarne i biglietti. "Ho sempre pensato", dice ancora il cantante nella sua intervista a Rolling Stones, "che il mestiere di musicista sia quello di fornire una fonte alternativa di informazione". E il Boss ha ragione. Infatti la ITC , l'autorità che vigila sulle telecomunicazioni in Gran Bretagna, ha imposto a radio e tivù di escludere dalle proprie trasmissioni tutte le canzoni e i video che facciano riferimento in qualunque modo alla guerra. Risultano vittime della censura canzoni apertamente pacifiste ma anche Bandages degli Hot Hot Heat o Sex Bomb".
Contemporaneamente, i siti sulle novità editoriali censurano il nuovo libro del premio nobel colombiano Gabriel Garcia Marquez perché contiene nel titolo la parola "puttana". Non c'è quindi da stupirsi se, all'interno di questo clima incline a censure ed autocensure, alcuni ministri provenienti dall'ex partito neofascista italiano, riescono a far sequestrare il sito di Indimedia, colpevole di aver denunciato gli abusi compiuti da alcuni reparti delle forze dell'ordine durante il G8 di Genova.
"Ho tentato qui di disegnare uno scenario generale che accompagna nei media la Guerra in Iraq perché sono convinto che siamo all'interno di un processo che è partito prima e che continuerà dopo la vicenda mediorientale. Ci sono invece aspetti specifici dello scenario di guerra in Iraq. Il primo è racchiuso in un dato agghiacciante. Sono quarantasei i giornalisti uccisi dall'inizio della guerra. Molti dalle forze militari americane. Qualcuno inserito recentemente dalle misteriose sigle terroristiche che si muovono sul fronte irakeno nell'agghiacciante sequenza sanguinario - mediatica delle esecuzioni via satellite o internet".
"L'8 aprile di un anno fa, al momento della liberazione di Bagdad, le forze
americane bombardarono l'Hotel Palesatine e le sedi delle televisioni al Jazeera e Abu Dhabi tivù: tre giornalisti morti. Commento della portavoce del Pentagono Victoria Clarke: "Abbiamo sempre sostenuto che Baghdad non era un posto sicuro per i media". Tutti sapevano che quei luoghi erano pieni di giornalisti. Ma chi voleva andare in Iraq doveva iscriversi negli elenchi degli embedded, giornalisti inquadrati nelle file dell'esercito della Coalizione tenuti a scrivere solo quanto veniva autorizzato dai vertici militari".
"Il risultato è una guerra irraccontabile. Molti inviati hanno parlato di "sabbia" e "nebbia" per spiegare come pure stando in prima linea e rischiando la vita, non riuscivano a sapere niente. Sono arrivati i canali satellitari arabi come Al Jazeera, Abu Dhabi o Al Arabija a mostrare l'altra faccia della guerra patriottica dei marines "ours boys" per Fox News. E per un po' ha retto una vecchia regola delle guerre asimmetriche. Se il potente esercito americano minacciava i giornalisti per piegarli alla logica della propaganda, i guerriglieri accoglievano li inviati stranieri per far filtrare presso le opinioni pubbliche occidentali i danni umani di quella guerra di occupazione".
"Ma poi è nato l'ultimo fenomeno militare e mediatico: il terrorismo dei rapimenti e delle esecuzioni. Scrive Lorenzo Bianchi, inviato di guerra di lungo corso per il Quotidiano Nazionale: "Il giornalista indipendente è l'agnello sacrificale del conflitto. Da un lato la macchina militare che tende ad essere sempre più impenetrabile per il reporter. Dall'altra un terrorismo, quello di Al Quaida, che considera i media alla stregua di puri altoparlanti. Nelle altre guerriglie, quelle dell'America Latina, il reporter era il testimone intoccabile, la finestra del mondo sulla loro lotta. Il pacifista Enzo Baldoni è stato rapito e ucciso. Era italiano e quindi un nemico. Punto".
"Una guerra senza testimoni, dunque, dove si scontrano direttamente due ideologie di guerra e di scontro: da una parte Bush che vuole compattare dietro la propria leadership tutto l'Occidente e dall'altra Bin Laden (o chissà chi altro) che vuol fare lo stesso con l'Oriente musulmano, ricompattato nell'antico Califfato sannita. Siamo ben oltre la fisiologia delle bugie e della propaganda di guerra. Quella che è in atto è una vera e propria campagna ideologica che vuol mettere radici nelle nostre coscienze per dar vita a una guerra che già all'origine è definita duratura (Enduring)".
"In Italia due direttori di giornale vicini al governo, Feltri di Libero e Ferrara del Foglio, teorizzano che dovremmo far vedere ai nostri figli le foto delle decapitazioni che pubblicano regolarmente sulle loro prime pagine. Per educarli, dicono. A cosa? All'odio e alla violenza. Non chiederei mai una censura".
"E' bene che anche Feltri e Ferrara (che ha confessato di essere sul libro paga della CIA), possano scrivere queste cose. Ci aiutano a capire qual è il rischio più grande. Recentemente,in Israele ho intervistato il mio vecchio amico, il professor Zwi Schuldiner, chiedendogli la dimensione esistenziale della vita nel terrore. Lui mi ha spiegato che tutto nasce da un paradosso: "Israele, che è una la più grande potenza militare del Medio Oriente, ha paura dei palestinesi che sono poveri e armati in modo artigianale. La nostra violenza spropositata nasce dalla paura, una paura irrazionale creata dai kamikaze e dilatata dal Governo".
"Ogni giorno l'opinione pubblica occidentale incamera dalle tivù solo paura e odio e li associa agli arabi e all'islam. Che si può fare? Rivendicare il rispetto di norme internazionali e nazionali a tutela della libera informazione, denunciare le forme di censura esplicite e striscianti. Richiamare i giornalisti alla propria missione di testimoni e garanti delle pubbliche opinioni e sostenerli assieme alle organizzazioni di categoria".
"Con Informazione senza frontiere, l'associazione italiana per la libertà di stampa che rappresento,stiamo lavorando a un rapporto su questi fenomeni, dedicato a media e democrazia, coordinato dal professor Roberto Reale, che pubblicheremo a maggio. Ma non basta. E' necessario che il mondo della pace, del dialogo e delle libertà lanci un'offensiva culturale mobilitando gli intellettuali occidentali e orientali su questi temi elaborando piattaforme comuni che contrastino la campagna ideologica della destra".
"Una comunità di uomini liberi non si identifica sotto una bandiera, in una lingua, in una o due civiltà, e soprattutto non può nascere all'ombra di guerre di occupazione. Una comunità di uomini liberi la costruiscono insieme, pezzo per pezzo, in una lavoro comune, uomini che si rispettano e si considerano uguali".
A Firenze, con l'aiuto di Aidan White e dell'IFJ e dei nostri amici arabi, proveremo a dare un contributo a questo percorso in un workshop ai primi di dicembre. Cominceremo dai giornalisti, perché questo è il nostro mestiere. Lo stesso: in Europa e in Medio Oriente.
(Relazione letta al Forum Sociale Europeo di Londra nel corso del seminario "The lies of war - exposing propaganda and fighting censorship")
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Stefano Marcelli, giornalista, e' Segretario generale di "Informazione senza frontiere"