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Lo Stato sovranista democratico


Walter_Impellizzeri
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http://www.appelloalpopolo.it/?p=10640

Di Fiorenzo Fraioli (ARS Lazio)

Il termine "sovranismo" è stato introdotto, nel linguaggio politico, dall'Associazione Riconquistare la Sovranità (ARS), di cui mi onoro di far parte fin dalla sua nascita. Non che il termine non esistesse già (non si tratta dunque di un neologismo) ma esso veniva distrattamente inteso, nel linguaggio corrente, quasi come sinonimo di "nazionalismo".

Dal dizionario online Hoepli:

"Sovranismo: Potere sovrano di una nazione o di una persona non soggetta ad altro potere nelle forme e nei limiti di un diritto riconosciuto: il principio della s. delle nazioni; diritti di s.; s. statale, nazionale"

"Nazionalismo: Dottrina che sostiene la priorità assoluta dell'idea di nazione o del principio di nazionalità in ogni campo. Politica che tende ad attuare tale dottrina"

La differenza di significato tra i due termini è ovvia. Il nazionalismo è stato la cornice ideologica di un assetto fondato sul darwinismo sociale all'interno degli Stati, e sul mercantilismo nei rapporti tra essi, in un quadro internazionale caratterizzato dalla crescente globalizzazione degli scambi di merci e capitali, che raggiunse il suo acme alla vigilia della prima guerra mondiale. La convinzione era che la concorrenza mercantile tra gli Stati e il darwinismo sociale costituissero una sorta di "stato di natura" delle cose, sostanzialmente non modificabile ma da sfruttare per mantenere, o portare al potere, una determinata classe sociale, come pure conservare o conquistare una maggiore potenza per la propria nazione. In definitiva, il nazionalismo è fondato sul principio della "concorrenza": tra individui, tra classi sociali, tra Stati.

Quando l'ARS si è posta il problema di adottare un termine che fosse la bandiera della sua azione politica, la scelta della parola "sovranismo" è stata ampiamente condivisa. Questa, infatti, ha un significato che sostanzialmente coincide con la sua definizione (Potere sovrano di una nazione o di una persona non soggetta ad altro potere nelle forme e nei limiti di un diritto riconosciuto), ma non ne ha ancora acquistato di ulteriori che possano costituire un bagaglio ingombrante. Con il passare del tempo è probabile che, così come esistono diverse declinazioni di altre parole utilizzate in politica, lo stesso accadrà per essa, sebbene un corpo centrale dei suoi significati politici verrà condiviso da tutti coloro che si dichiareranno "sovranisti".

Per come lo intende l'ARS, il termine sovranismo è in completa e totale opposizione al nazionalismo. E dunque: rifiuto del darwinismo sociale, rifiuto della concorrenza come "stato naturale delle cose", rifiuto del mercantilismo; al contrario: comunitarismo sociale, esaltazione delle Costituzioni democratiche come patto istitutivo della comunità che legittima ogni forma di potere legale, ricerca dell'equilibrio negli scambi internazionali.

Il comunitarismo sociale nel sovranismo

Per il sovranismo il "popolo" è la fonte primigenia della sovranità. Tuttavia è bene rimarcare e sottolineare con estrema chiarezza che, per i sovranisti, il "popolo" è un concetto che non ha nulla a che vedere con la "razza", potendosi addirittura verificare il contrario; e cioè che, ammesso ma non concesso che si possa parlare di razze in relazione alla più ampia comunità di tutti gli uomini, possono aversi popoli diversi pur in presenza di uguaglianza di caratteri somatici che siano, per così dire, eventualmente riconducibili ad un ceppo genetico. Per i sovranisti, al contrario, il "popolo" è un'entità culturale, formatasi nel corso della storia in seguito alle più diverse vicende. In quanto tale, questa entità ha una durata confrontabile con la scala degli eventi storici, ovvero con la memoria che una collettività riesce a conservare di se stessa e dei propri accadimenti. I "popoli" nascono, si sviluppano, raggiungono talvolta alti livelli di civiltà, ma possono (è successo migliaia di volte) perdere memoria di sé e scomparire, assorbiti da altri popoli o disperdendosi del tutto. Ciò che definisce l'idea di "popolo", dunque, è un comune sentire, fondato sulla condivisione di una storia comune. Gli italiani sono un "popolo", come lo sono i francesi, gli inglesi, gli spagnoli, i tedeschi, gli zingari, gli ebrei… e mi scuso se non posso ricordarli tutti.

Per come è definito, il "popolo" non è un'entità monolitica che non può tollerare contaminazioni. Queste, nella giusta misura e nei tempi opportuni, possono al contrario costituire un elemento che rafforza e arricchisce la comunità, sebbene questa affermazione non deve essere intesa come universalmente valida. Sono gli accadimenti storici che rendono talvolta possibili, tal altra impossibili, le fruttuose contaminazioni. L'idea che qualsiasi mescolanza culturale, per il solo fatto di essere una mescolanza, porti alla fusione armonica di culture diverse, è una sciocchezza che sta sullo stesso piano delle concezioni razziste fondate sulla purezza del sangue: sono entrambe delle sciocchezze.

L'esistenza di un "popolo", cioè di un comune sentire formatosi per evoluzione culturale e storica, rende possibile (ma non scontata) la nascita di un sentimento comunitario, ovvero una concezione dei diritti dell'individuo limitati dalla sua appartenenza alla comunità attraverso uno scambio con le garanzie che questa gli offre "a priori", per il solo fatto di farne parte. Il sentimento comunitario, che è in antitesi con il liberalismo che predica il diritto di ogni individuo al perseguimento della massima libertà, non può nemmeno essere immaginato in assenza dell'entità "popolo".

Le Costituzioni democratiche come fonte di legittimità

L'esistenza di un "popolo", ovvero una narrazione condivisa della propria storia, è condizione necessaria ma non sufficiente perché si sviluppi un sentimento comunitario. Manca ancora un ingrediente: un patto tra i diversi gruppi sociali che sancisca un principio di legittimità. Questo non è, necessariamente, un patto tra eguali, ma più spesso un compromesso tra i gruppi dominanti e quelli subalterni. Un esempio di ciò è l'equilibrio che si formò nella Roma del V° secolo a.c. tra il patriziato e la plebe al termine di un convulso periodo di lotte sociali, ma si possono fare numerosissimi altri esempi. Quanto più tale patto costituente è equilibrato, tanto più è probabile che la vicenda storica di un "popolo" si sviluppi nel tempo con successo, fino a raggiungere alti livelli di civiltà, ricchezza e potere di influenza.

Nell'era moderna il patto fondante di legittimità prende il nome di "Costituzione". La sopravvivenza delle costituzioni, soprattutto quelle democratiche, cioè stipulate su un piano di parità o, almeno, in assenza di eccessive asimmetrie, è costantemente minacciata da un fenomeno particolarmente insidioso nella fase iniziale della vita di un popolo, quando il sentimento comunitario su di esse fondato non è ancora sufficientemente forte. Si tratta del pericolo che nasce dalla crescita eccessiva, all'interno della comunità legittimata dalla Costituzione, di uno squilibrio tra i ceti dominanti e quelli subalterni. Quando ciò avviene, i ceti dominanti tendono a costituirsi come una comunità a sé stante che persegue interessi propri, a scapito di quelli più generali di tutto il popolo. E' esattamente quello che accadde all'inizio del V° secolo a.c. nell'antica Roma, allorché il patriziato, che pure si era avvalso dell'appoggio della plebe per liberarsi del dominio etrusco, tentò di dar vita a un assetto oligarchico della repubblica. L'impossibilità per entrambe le fazioni di prendere il sopravvento, unitamente al pericolo che le divisioni in
terne costituivano per la stessa sopravvivenza della città, costrinse i due ordini a deporre le armi e a ricercare un accordo che resistette per quattro secoli, portando Roma al dominio incontrastato su tutto il mondo allora conosciuto.

La vicenda si sarebbe ripetuta nel I° secolo a.c., con le guerre civili che si conclusero con la fine della repubblica e l'instaurazione del potere imperiale. In questo caso l'assenza di una minaccia esterna (essendo Roma padrona del mondo) rese possibile la continuazione del conflitto civile fino al prevalere delle classi dominanti, che trovarono nell'assetto monarchico/imperiale la soluzione istituzionale conforme ai loro interessi. Vale la pena ricordare che, appena qualche secolo prima, Publio Valerio Publicola aveva promulgato una legge che permetteva a tutti i cittadini romani di uccidere chiunque avesse tentato di farsi re!

La Costituzione italiana del 1948 è, per l'appunto, il risultato di un momento storico nel quale, tra i ceti dominanti e le classi subalterne, si raggiunse un equilibrio come non era mai accaduto dall'unità d'Italia, in un contesto internazionale che imponeva il raggiungimento di un accordo. Tuttavia, esattamente come nella Roma del V°secolo a.c., passato il pericolo i ceti dominanti hanno ripreso l'offensiva. Questi hanno ricominciato ad obbedire al loro istinto più profondo, che li spinge a costituirsi come comunità a sé stante all'interno del corpo della nazione, alla ricerca del loro esclusivo interesse. Il quale, questa volta, non consiste nel portare avanti una politica di potenza sotto la copertura di un'ideologia nazionalista, bensì nel ricercare la comunanza con i ceti dominanti delle altre nazioni europee, con il fine di istituire un assetto imperiale sovranazionale, ancora subalterno al grande impero americano ma con la (ridicola) aspirazione di prenderne il posto. Si tratta, cioè, del tentativo di costruzione di una potenza imperiale in forme assolutamente inedite nella storia conosciuta, giacché mai, in passato, si è dato un impero che non fosse il risultato della politica di conquista di un singolo popolo guidato dai propri gruppi dominanti.

Se questa analisi è corretta, allora l'Unione Europea costituisce, aldilà delle enunciazioni di facciata, la più grave minaccia per la pace nel mondo contemporaneo, perché questo progetto è costretto, per affermarsi, a combattere su due fronti: uno interno, per distruggere le costituzioni democratiche delle nazioni europee, e un secondo esterno, per competere con l'impero anglo-americano e il resto del mondo. Il primo è uno scontro di classe, il secondo un confronto geopolitico. Nessuno di essi può risolversi pacificamente, poiché è impensabile che la soppressione delle costituzioni democratiche possa avvenire senza conflitti, né che il resto del mondo consenta, all'Unione Europea, di conseguire i suoi obiettivi egemonici senza reagire. In particolare, il tentativo di costruire uno Stato, in assenza di un "popolo europeo", rende impossibile il raggiungimento della pace interna, sia pure in forma oligarchica, poiché viene a mancare il terreno comune sul quale può svolgersi quella lotta di classe che, risolvendosi in un assetto giuridico accettato dalle parti, rende possibile e legittima la nascita dello "Stato". La conseguenza di ciò è una fragilità intrinseca dell'intera costruzione, alla quale i ceti dominanti europei sono tentati di porre rimedio attraverso una politica estera aggressiva, della quale i recenti accadimenti in Ucraina costituiscono i primi inquietanti segnali.

Il principio dell'equilibrio nelle relazioni economiche con altri Stati

Nelle relazioni economiche tra gli Stati il sovranismo privilegia il metodo degli accordi bilaterali, a discapito dell'adesione ad accordi di libero scambio di merci e capitali. Questa impostazione deve essere intesa in senso sostanziale, non assoluto. E' del tutto evidente, infatti, che non vi è ragione per cui uno Stato sovranista non aderisca ad accordi tesi alla standardizzazione di metodi realizzativi nella produzione dei beni, né che rifiuti di partecipare a grandi progetti internazionali tesi al conseguimento di uno scopo comune (ad esempio l'esplorazione dello spazio o la ricerca scientifica), ma è del tutto ovvio che esso deve mantenere il controllo generale dei grandi aggregati sui quali si fonda la sua economia. In particolare, uno Stato sovranista manterrà il controllo pubblico dell'emissione monetaria, e porrà la massima cura nel perseguimento dell'equilibrio della bilancia dei pagamenti, sia sul versante del conto finanziario che commerciale, con l'obbiettivo di mantenerle entrambe in sostanziale pareggio.

Nel perseguimento dell'equilibrio della bilancia dei pagamenti sarà giocoforza indispensabile preservare il potere di imporre vincoli, ove ciò necessario, sia alle merci importate che a quelle esportate, e a maggior ragione sui movimenti di capitale. In particolare, i vincoli all'esportazione delle merci e all'importazione dei capitali, che nella logica mercantilista e liberoscambista sono considerati entrambi segno di "successo" della politica economica, rispondono all'obiettivo primario di condurre politiche commerciali non aggressive, in special modo con i paesi confinanti. Viceversa, la possibilità di imporre dazi all'importazione di merci e vincoli all'esportazione di capitali sono strumenti di difesa da eventuali politiche commerciali e finanziarie aggressive di altri paesi, dalle quali uno Stato sovranista deve essere in grado di difendersi.

Il mantenimento della sovranità democratica

In definitiva, la politica economica di uno Stato sovranista deve tendere al duplice obiettivo di non esportare né importare squilibri, e dunque deve essere necessariamente dirigista. Ora, poiché un dirigismo economico orientato al mantenimento di rapporti equilibrati nei rapporti commerciali e finanziari con l'estero danneggerebbe soprattutto le classi sociali maggiormente dinamiche, si pone il problema di conquistare e conservare un'egemonia culturale ispirata a questi valori che sappia resistere ai tentativi delle élites industriali e finanziarie del paese di rovesciare l'ordine delle cose. Ne consegue che interesse primario di uno Stato sovranista democratico è quello di investire nella promozione culturale della popolazione, onde evitare che narrazioni contrarie all'interesse collettivo e funzionali, al contrario, a quello di una minoranza, possano trovare fertile campo nell'ignoranza diffusa. La promozione della scuola pubblica, e il rifiuto di ogni forma di sovvenzionamento delle scuole private, sono un tassello importante di questa strategia. Lo Stato sovranista impegnerà dunque le sue migliori risorse nella direzione di promuovere l'accesso all'istruzione. Inoltre, poiché la formazione culturale dei cittadini risulta fortemente influenzata, nella società contemporanea, dai messaggi subliminali veicolati dalla pubblicità, lo Stato sovranista dovrà porsi il problema di controllarla, sia sul piano qualitativo che quantitativo, ad esempio tassandola. E' del tutto evidente che qualsiasi forma di controllo dei contenuti della pubblicità dovrà rimanere rigorosamente confinato nell'ambito della repressione dei contenuti promozionali di merci e servizi, e mai tracimare nella direzione di una qualsivoglia forma di controllo e repressione del libero pensiero dei cittadini. Al contrario, la libertà di pensiero, espressione, associazione e quant'altro di tutti i cittadini dovrà essere promossa e incoraggiata, fino al punto di diventare un valore percepito dalla comunità come assoluto e irrinunciabile, così forte da consentire la libera espressione anche di principi e valori opposti a quelli cui si ispira lo Stato sovranista democratico. Quest'ultimo non dovrà, ne potrà, mai rinunciare al vincolo di vincere la battaglia delle idee senza ricorrere ad alcuno strumento di repressione della libertà di pensiero e di espressione.

Il mantenimento della sovranità nazionale, una volta c
he essa sarà stata riconquistata, imporrà la necessità di difenderla anche militarmente. Lo Stato sovranista, pertanto, non potrà esimersi dall'affrontare il problema della sicurezza, ma dovrà perseguirlo in termini prevalentemente difensivi. A prescindere dalle soluzioni tecniche, il principio di base cui lo Stato sovranista e pacifico dovrebbe ispirarsi è quello di rendere estremamente costoso ogni tentativo di invasione, senza tuttavia spingersi fino al punto di ricercare la superiorità militare assoluta nei confronti di potenziali aggressori. Al contrario, una buona politica difensiva dovrebbe essere ispirata, oltre che alla rinuncia sostanziale alla predisposizione di strumenti di attacco, soprattutto alla ricerca di una inferiorità minima nei confronti dei potenziali nemici, tale da raggiungere il duplice scopo di dissuaderli senza correre il rischio di innescare una corsa agli armamenti alimentata dalla paura reciproca.


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