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Martedì azionisti critici all'Assemblea ENI su Val d'Agri, Marcegaglia, moglie di De Scalzi, Libia.


marcopa
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Domani si svolgerà l' Assemblea annuale degli azioni dell' ENI, interverranno poche decine di azionisti, tra questi gli azionisti critici. La Val d' Agri sarà sicuramente trattata, e questo articolo di Valori è uscito circa un ora fa...

Marcopa

Centro ENI in Val d’Agri: cronaca di un disastro ambientale

In 16 anni, contaminati 26mila metri quadri su un'area di 180mila. Secondo la magistratura, smaltite irregolarmente oltre 854mila tonnellate di sostanze pericolose. Enormi le conseguenze sanitarie

Di Rosy Battaglia

Immagine aerea della zona interessata dallo sversamento di petrolio dal Centro Olii Val d'Agri dell'Eni, a Viggiano (Pz).

In soli sedici anni, 26mila metri quadrati inquinati, pari al 15% del suolo e sottosuolo dell’area del centro Centro Oli Val D’Agri (COVA), il giacimento sulla terraferma più grande d’Europa. Smaltiti irregolarmente 854mila tonnellate di rifiuti pericolosi. Un disastro ambientale che ha prodotto eccessi di mortalità in tutti i campi come accertato dall’indagine epidemiologica condotta da Fabrizio Bianchi, ricercatore del CNR, dove guida l’unità di epidemiologia ambientale dell’Istituto di Fisiologia Clinica. Ecco cosa c’è dietro le inchieste giudiziarie sull’oro nero della Basilicata che avrebbe dovuto portare ricchezza e benessere diffusi.

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Le indagini della Procura di Potenza
Da centro di trattamento degli idrocarburi estratti dal giacimento onshore più grande d’Europa, il COVA è presto diventato causa di disastro ambientale e incidente rilevante come da normativa Seveso-Ter. Ed è ora tornato all’attenzione della Procura della Repubblica di Potenza dopo lo sversamento di 400 tonnellate di petrolio denunciato nel 2017. I Carabinieri del NOE (Nucleo Operativo Ecologico), hanno eseguito, lo scorso 23 aprile l’arresto domiciliare del dirigente ENI, Enrico Trovato, all’epoca dei fatti, responsabile dello stabilimento.

Il 6 maggio è poi scattata la sospensione per otto mesi dall’incarico di pubblici ufficiali per cinque membri del CTR (Comitato Tecnico Regionale) della Basilicata: Mario De Bona (Vigili del Fuoco), Saverio Laurenza (Vigili del Fuoco), Mariella Divietri (Arpab), Giovambattista Vaccaro (inail) e Antonella Amelina (comune di Viggiano). A loro spettava il compito di controllare, sotto il profilo della sicurezza e dei rischi ambientali, l’attività estrattiva dell’Eni.

Nell’ordinanza del Giudice per le Indagini preliminari, Ida Iura, risultano così indagate tredici persone e l’Eni, per i reati di disastro, disastro ambientale, abuso d’ufficio, falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale.

Allarme per il Lago Pertusillo
Come risulta dai sopralluoghi e dai rilievi del NOE nel 2017, gli idrocarburi dispersi dal COVA si erano insinuati nella rete fognaria, riuscendo a contaminare il reticolo idrografico della Val d’Agri, distante solo due chilometri dal lago del Pertusillo. Invaso che costituisce la fonte primaria di approvvigionamento di gran parte dell’acqua destinata al consumo umano di Puglia e Basilicata, oltre che per l’irrigazione di un’area di oltre 35mila ettari.

Sempre secondo le fonti investigative, l’origine della perdita di idrocarburi era stata individuata nei serbatoi di stoccaggio del greggio. Durante i sopralluoghi del Noe e dei consulenti della Procura, a febbraio 2017, infatti, erano stati riscontrati fori passanti sul fondo dei tank che avevano dato luogo alle perdite di prodotto, mai comunicate agli organi competenti. Circostanze già note, alla dirigenza ENI, scrivono gli investigatori, sin dal 2012.

Serbatoi senza doppifondi
I quattro serbatoi erano privi dei doppifondi, misura precauzionale elementare per evitare la dispersione nell’ambiente del petrolio greggio. Realizzata solo dopo il disastro, nei mesi di chiusura dell’impianto nel 2017. Anche gli azionisti critici, ne avevano chiesto conto, nell’assemblea ordinaria di ENI del 2018

ENI, nei giorni scorsi, ha assicurato, così come nel 2017, in una propria nota, che lo sversamento di 400 tonnellate di petrolio è imputabile a uno solo dei 4 serbatoi del Centro Oli.

«L’’evento del 2017 non ha nulla a che vedere con gli episodi degli anni precedenti», avendo «attuato tutte le misure per mettere in condizioni di sicurezza e salvaguardia ambientale l’intera area industriale interessata».

Ma se la società petrolifera ribadisce che «aria e acqua della Val d’Agri sono oggi salubri e incontaminate», i Carabinieri del NOE concludono che «l’opera di bonifica dell’area contaminata è ancora in corso», circostanza che «ha imposto di estrarre in modo continuo tutte le acque di falda dell’area stessa, oramai contaminate, e trattarle come rifiuto».

Cronologia di un disastro
Fatti e dati, intanto, dicono che in soli 16 anni, dalla nascita del centro nel 2001 al 2017, su un’area di 180mila metri quadri, sono stati contaminati almeno 26mila metri quadrati di suolo e sottosuolo, quasi il 15%. E per ben due volte, nel 2016 e nel 2017 gli impianti sono stati messi fermati, sia dall’autorità giudiziaria, che da regione Basilicata, a seguito delle gravi violazioni ambientali riscontrate.

Con la nuova inchiesta della Procura di Potenza, poi, salgono a due i procedimenti giudiziari che pendono sul Centro Oli di Viggiano. Sono, infatti, in corso, dal 2016, le udienze del processo PetrolGate.

L’inchiesta ha consentito di svelare, secondo gli inquirenti, le attività illegali della società petrolifera nel settore dei rifiuti, con sei arresti e 60 indagati per traffico e smaltimento illecito. Anche a seguito di questa indagine, il COVA di Viggiano è al centro della relazione della Commissione Bicamerale di Inchiesta sulle Ecomafie nel 2017. Così come ENI è stata inserita nel rapporto annuale della Direzione Nazionale Antimafia (DNA) del 2017, al capitolo «Crimine Ambientale».

Sostanze inquinanti smaltite come non pericolose per risparmiare denaro
Secondo la DNA, infatti, la dirigenza ENI tra il 2013 e il 2014 ha sviluppato un «ingiusto profitto», attraverso il risparmio sui costi di smaltimento degli scarti di lavorazione liquidi, prodotti dall’impianto di Viggiano, dando vita a «un’attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, servendosi di una complessa organizzazione imprenditoriale».

Il COVA, con l’attività di estrazione petrolifera, produce ingenti quantitativi di metildietanolammina e glicole trietilenico. Sostanze inquinanti pericolose, che venivano invece qualificate, scrive la DNA, in maniera del tutto arbitraria come rifiuti non pericolosi. Tutto ciò ha permesso ai dirigenti ENI di far smaltire ingenti quantità di reflui a costi notevolmente inferiori: solo 33,01 euro a tonnellata contro i 40-90 euro a tonnellata previsti dalle aziende del settore.

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La magistratura ha accertato, così, che sono state smaltite irregolarmente ben 854.101,45 tonnellate nel solo periodo ricompreso tra settembre 2013 e settembre 2014. Acque contaminate che sono state reiniettate nel pozzo Costa Molina 2 senza essere, quindi, depurate. L’attività illecita ha permesso di far «risparmiare» alla multinazionale, tra i 34 e i 76 milioni di euro in un anno.

Noe: a Viggiano smaltimenti sospetti
Ambiente contaminato e ricadute sulla salute dei cittadini della Val D’Agri
ENI al contempo, pur in un quadro ambientale compromesso, ha sempre rassicurato le istituzioni locali in merito agli inquinanti rilasciati in atmosfera, come l’ossido di azoto, il biossido di zolfo, il benzene, PM10 e PM2.5. Per la società petrolifera, le emissioni sono sempre state nella norma. Unica eccezione: il’idrogeno solforato che pur essendo altamente nocivo, incredibilmente, non ha valori limite per la legge italiana.

Tutto ciò non ha convinto i comuni di Viggiano e Grumento Nova e gli stessi cittadini che, negli anni, hanno denunciato la presenza di miasmi, fumate nere e sfiammate dal Centro Oli.

I risultati della commissione d’inchiesta sulla fuga al Centro Oli di Viggiano
Tra l’altro, dall’avvio del COVA nel 2001, con ampliamento del Centro Olio Monte Alpi, in funzione dal 1996, fino al 2014, non erano mai stati effettuati studi epidemiologici sulla popolazione che vive vicino agli impianti, non previsti dalla Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). Sono stati, quindi, i sindaci, prima autorità sanitaria del territorio, a commissionare al gruppo di lavoro coordinato dal professor Fabrizio Bianchi del CNR la Valutazione di Impatto Sanitario.

L’indagine epidemiologica tra gli anni 2000 – 2013 ha mostrato eccessi di mortalità per tutte le cause, per malattie del sistema circolatorio, per tumori del polmone e dello stomaco.

confronto tra il tasso di mortalità nei Comuni di Viggiano e Grumento Nova rispetto al resto della Basilicata e rispetto ai 20 Comuni della Concessione Val d'Agri. FONTE: Unità di ricerca epidemiologia ambientale - CNR PisaI tassi di mortalità crescono a doppia cifra. Confronto tra i Comuni di Viggiano e Grumento Nova rispetto al resto della Basilicata e rispetto ai 20 Comuni della Concessione Val d’Agri. FONTE: Unità di ricerca epidemiologia ambientale – CNR Pisa.

L’Eni contesta i risultati
Anche qui, ENI ha contestato gli studi del gruppo di lavoro guidato dall’IFC- CNr di Pisa sia producendo un proprio «contro rapporto» sia chiamando in causa l’Istituto Superiore di Sanità, negando qualsiasi allarme sanitario.

Eppure, l’ultimo studio di coorte, che si avvale di una ricostruzione della diffusione di inquinanti traccianti delle emissioni industriali, ha messo in luce le associazioni tra i livelli di esposizione e le patologie cardiorespiratorie nella popolazione residente, soprattutto tra le donne. Non a caso il professor Bianchi, che è pure co-autore delle linee guida del procedimento per lo stesso Istituto Superiore di Sanità, è stato chiamato a testimoniare nelle scorse settimane proprio al processo PetrolGate.


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marcopa
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Articolo pubblicato alcuni giorni fa sul Fatto Quotidiano

Le due donne che inguaiano l’Eni. Petrolio in famiglia e caso Montante

http://www.giannibarbacetto.it/2019/05/08/assemblea-degli-azionisti-2019-le-due-donne-che-inguaiano-leni/

Due donne saranno le protagoniste della prossima assemblea degli azionisti Eni, martedì 14 maggio. Una sarà presente: la presidente Emma Marcegaglia.

L’altra no: è Marie Magdalena Ingoba, detta Madò, cittadina congolese che ha sposato molti anni fa Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni.

Le due signore incrociano i loro destini il 13 aprile 2017, quando Marcegaglia, durante l’assemblea degli azionisti, rispondendo a una domanda afferma che “non esistono, in Congo, a oggi, legami contrattuali tra Eni e la società Petro Services”. Non era vero. Tanto che all’assemblea successiva, il 10 maggio 2018, Marcegaglia ammette l’“incompletezza” delle informazioni fornite agli azionisti, dovuta a una sua “affrettata lettura”, e conferma che Eni invece ha avuto rapporti commerciali con Petro Services per 104 milioni di dollari.

A fine 2018, una rogatoria in Lussemburgo disposta dalla Procura di Milano aggiunge un ulteriore elemento alla “incompletezza” della presidente Eni: Petro Services, formalmente gestita da Alexander Haly, era controllata da Marie Magdalena Ingoba. È lei, Madò, la proprietaria di una società lussemburghese, la Cardon Investments Sa, che controlla la Petro Services Congo, fornitrice di Eni Congo, a cui dal 2012 al 2017 affitta navi e presta servizi.

L’8 aprile 2014, la moglie di Descalzi, allora capo del settore Esplorazione di Eni, vende la Cardon Investments, e dunque anche la Petro Services che lavora per Eni, ad Alexander Haly, uomo d’affari nato nel Regno Unito ma basato a Montecarlo. Sei giorni dopo la vendita, il 14 aprile 2014, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi indica Descalzi come capo di Eni.

Dunque la compagnia petrolifera di cui Descalzi è ai vertici ha affidato lavori per molti milioni di dollari a una società della moglie di Descalzi. Questo dicono le carte in mano ai pm milanesi Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro e Paolo Storari. Oggi Madò vive a Parigi e gira il pianeta, è una donna d’affari con interessi disseminati nel mondo, citata nei Panama Papers, lambita da un’inchiesta giudiziaria in Francia.

Ma non dimentica il suo luogo d’origine, dove sono nate le sue fortune, e cioè il ristretto circolo degli affari della Repubblica del Congo, che ruota tutto attorno agli affari personali del suo eterno presidente, Denis Sassou Nguesso. Di sua figlia, Julienne Sassou Nguesso, Madò è anche socia, in una società basata a Mauritius, la African Beer Investment Ltd.

Nell’assemblea degli azionisti 2018, rispondendo alle domande di Re:Common (l’associazione che da anni fa inchieste e campagne contro la corruzione), Emma Marcegaglia ha spiegato che presso la casella postale Bp 4801 di Point Noire, capitale economica del Congo, era domiciliata sia la Petro Services, sia la Elengui Ltd, società offshore di Marie Magdalena Descalzi basata nelle Isole Vergini Britanniche: ma solo perché, “essendo in Congo limitato il numero di caselle postali disponibili, la stessa casella postale viene assegnata a numerose persone e/o società”.

Le rogatorie hanno smentito anche questa affermazione della presidente dell’Eni. Ora i vertici della compagnia sono sotto inchiesta per corruzione internazionale in Congo e sotto processo per corruzione internazionale in Nigeria. E altre tre società della galassia Petro Services avrebbero incassato da Eni, secondo un’inchiesta dell’Espresso, oltre 310 milioni di dollari. Dicono a Re “Già lo scorso anno avevamo cercato di avere spiegazioni sul perché di tanta reticenza. Le ultime notizie sulle relazioni di Haly con la signora Descalzi spiegherebbero tutto”.

Il punto è che le reticenze sono della presidente Marcegaglia. Fin dall’inizio del suo mandato, a maggio 2014, si è distinta per l’energia con cui ha difeso il capo dell’ufficio legale Massimo Mantovani dalle critiche dei due consiglieri Karina Litvack e Luigi Zingales per la gestione del caso delle tangenti nigeriane. Adesso che ha scaricato Mantovani (indagato per associazione a delinquere), si parla di Marcegaglia per l’inchiesta siciliana sull’ex vicepresidente di Confindustria Antonello Montante.

I due sono legatissimi, e Montante deve a Marcegaglia (presidente di Confindustria dal 2008 al 2012) la sua folgorante ascesa confindustriale e non solo. Ma si comincia a sospettare che l’amicizia tra i due coinvolgesse anche l’Eni. Gli inquirenti rilevano che Nazario Saccia (non indagato), ufficiale della Guardia di finanza di Caltanissetta, è stato assunto all’Eni come security manager nel 2010, pochi mesi dopo aver guidato una spettacolare perquisizione al petrolchimico di Gela con il collega Ettore Orfanello, arrestato un anno fa con Montante.

In una telefonata tra i due all’inizio del 2016, quando Montante era già indagato per mafia, secondo un’annotazione della Squadra mobile di Caltanissetta, “il Saccia spiegava all’Orfanello che non gli piacevano delle situazioni all’interno dell’Eni e il Montante, attraverso la Marcegaglia, poteva fare valere la sua volontà, accontentandolo”.

Nel dialogo tra i due ex colleghi della Guardia di finanza si fa riferimento alla gratitudine che entrambi nutrono per Montante, un dettaglio che sembra alludere alla capacità di influenza sull’Eni dell’imprenditore siciliano. Entreranno questi pezzi di realtà nel salone dell’assemblea Eni 2019?


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marcopa
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A differenza degli altri due temi precedenti, nessuno probabilmente parlerà invece della guerra libica.

Ma l' Eni ha una grande importanza in Libia e la Libia ha una grande importanza per l' ENI e dal 2011 la guerra civile, ora strisciante, ora più aspra, viene finanziata dalla produzione di gas e petrolio.
le milizie irregolari, molte delle quali di integralisti islamici, vengono finanziate direttamente dal commercio legale di petrolio.
Ne scrisse Gad Lerner nel 2015, ma ancora oggi è così.

Salah Badi, citato da Lerner, è oggi accusato di crimini di guerra, e sta combattendo ancora oggi al fianco di Serraj, sostenuto dall' Italia e insediato dall' ONU.

marcopa

VENERDÌ, 2 GENNAIO 2015
Da paura… guardate chi “protegge” la base Eni e la nostra ambasciata in Libia

SCRITTO DA
Gad Lerner

Inquietante lettura l’intervista rilasciata a Nancy Porsia, per “Il Fatto”, dal capo della milizia libica Fajr, giunta a controllare Tripoli dalla sua roccaforte di Misurata. Salah Badi, questo è il nome del signore della guerra libico che si contrappone al generale filo-egiziano Haftar e ai suoi alleati della regione di Bengasi, si presenta con un biglietto da visita che non può lasciare insensibile l’Italia: il commpound oil&gas dell’Eni, sito a Mellita, da dove parte il gasdotto sottomarino che arriva fino a Gela, “è protetto oggi dai nostri uomini”, dichiara Salah Badi, “proprio come l’ambasciata a Tripoli”.

“Per noi l’Italia è sempre la benvenuta perchè abbiamo interessi in comune”, aggiunge il nostro, prima di compiacersi di un paragone storico: “Gli italiani hanno riservato a Mussolini lo stesso trattamento che i libici hanno riservato a Gheddafi. Noi abbiamo esposto il corpo di Gheddafi per cinque giorni, gli italiani hanno tenuto in piazza il corpo martoriato del Duce”.
Orbene, al di là di queste suggestive reminiscenze, la notizia è che l’Eni e l’ambasciata italiana si trovano sotto la “protezione” di una fazione, Fajr, il cui comandante non smentisce l’alleanza con fazioni jihadiste vicine all’Isis, e ammonisce l’Onu: se non vi sbrigate a accogliere le nostre richieste, vi toccherà fare i conti direttamente con i fondamentalisti.

La Libia è un ginepraio nel quale probabilmente oggi non esiste un solo interlocutore affidabile. Ma certo sapere che oggi i nostri rifornimenti energetici e la nostra politica di sicurezza devono far conto su Salah Badi e personaggi della sua levatura, a 200 chilometri dalle coste italiane, non è per niente rassicurante.


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