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Perché Totò sta tornando d'attualità


Tao
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Libri e studi ripropongono il ruolo, anche politico, svolto dal principe de' Curtis

«Signori si nasce, e io, modestamente, lo nacqui». Con questo celebre tormentone, che trova la propria forza comica nella sgrammaticatura "a effetto", Totò rivendicava la propria origine aristocratica. Sulla quale, peraltro, non c'era nulla da ridere né da ridire: e lui lo sapeva, e ci teneva. Il guitto poteva anche scherzarci su; il principe Antonio de Curtis, no. E a trent'anni di distanza dall'antologica dedicata all'attore partenopeo (SuperTotò di Brando Giordani ed Emilio Ravel raccoglie gli spezzoni di 18 film, distribuiti in tre capitoli: "La maschera", "Le donne", "L'arte di arrangiarsi", " La fame", " I ricchi", "I prepotenti", " Il varietà", "Per gli uomini contro i caporali"), mentre sono in atto la riscoperta e la rivalutazione del suo eccezionale talento- espresso non solo nell'ambito cinematografico - (si veda il saggio di Lorenza Fruci: La canzone di Totò. Malafemmena, prefazione di Renzo Arbore, Donzelli, pp. 147, € 18,00. Il libro sarà presentato al Palazzo Ducale di Lucca, nell'ambito della manifestazione LuccaAutori, alle ore 18 del prossimo 17 ottobre, da Felice Laudario, Dario Salvatori e Ugo Gregoretti, che diresse Totò in Le belle famiglie) - è senz'altro giunta l'ora di occuparsi dell'uomo e del personaggio, che, per carità, pur avvinti da un indissolubile legame, non erano la stessa cosa. Totò era il classico "comico malinconico", e la Fruci ricorda che era lui stesso a dire: «Mi sento comico, ma nella vita sono triste, sono un funerale di prima classe». Secondo lui, era possibile trovare la felicità soltanto in occasioni speciali, mentre il pessimismo era una sorta di contrassegno che si rivelava attraverso poesie e canzoni. Come Malafemmena, scritta nell'aprile del 1951, mentre l'attore era a Formia, per girare il film Totò terzo uomo con la regia di Mario Mattoli. La canzone che evoca il travolgente, tormentato, tempestoso amore tra il comico e Diana Bandini (la Fruci indaga ogni piega dell'intricato legame) è l'ammissione spietata di un maschio annichilito dalla femmina. "Mala", appunto, dunque dominatrice e vessatrice, al punto da schiavizzare un cuore: «Si avisse fatto a ‘n'ato / chello ch'e fatto a mme / st'ommo t'avesse acciso / e vuò sapé pecché? / Pecché ‘ncopp'a a sta terra / femmene comme a te / nun ce hanna sta pe' n'ommo / onesto comme a mme!... / Femmina / tu sì' ‘na malafemmena…». Una canzone, un mito, un'icona: da Giacomo Rondinella a Teddy Reno a Renzo Arbore con la sua Orchestra Italiana, sarebbero stati a centinaia i cantanti impegnati a cimentarsi con questa Regina di Cuori e Donna Vampiro bella e impossibile, eternata dal "sedotto e abbandonato" Antonio de Curtis.

Ma torniamo all'attore. Ne Il più comico spettacolo del mondo, diretto nel 1953 da Mario Mattoli (una parodia di un grande successo cinematografico dell'anno prima: Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. De Mille), il clown Totò così prega: «Dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamente le loro assordanti risate e lascia pure che essi ci credano felici. Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa, io li perdono, un po' perché essi non sanno, un po' per amor Tuo, e un po' perché hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola». Comico e malinconico, dunque. Scrive la Fruci: «Il contraltare della maschera comica di Totò, nota a tutti, del folletto folle e snodato che ha conquistato le platee dei teatri, delle battute pronte che si scambiava con le sue spalle, era fatto di silenzi, ombre e malinconie. Lo ricordano bene coloro che lavorarono con lui: il guitto Totò si materializzava improvvisamente al momento del ciak o all'inizio di una scena, e, una volta finita, tornava di nuovo il principe de Curtis, un uomo distinto e distaccato, riservato e garbato, elegante e pettinato, signorile e cortese».

L'aristocratico Antonio poteva affidare al guitto Totò il compito di raccontare la vita perché di vita erano pieni i suoi anni. Di vita vitale. Dunque sofferta. Dalla nascita. 15 febbraio 1898, Napoli, Rione Sanità, «una città nella città», «l'esegesi della stessa Napoli» (Edoardo Capecelatro-Domenico Gallo, Totò. Vita e arte di un genio, Gruppo Editoriale Viator). Miseria («Io so a memoria la miseria e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può essere un vero attore comico se non si è fatta la guerra con la vita») e nobiltà. Perché Antonio, figlio di NN per l'anagrafe e dunque figlio di "buona donna" (per dirla con un eufemismo) per gli abitanti del rione, non solo ha una mamma, povera ma bella, Nannina, 16 anni, ma un babbo, spiantato ma di illustre progenie, il marchese Giuseppe de Curtis, il suo amante, che l'ha messa incinta, scatenando le malelingue. Ma Nannina, per dirla brutalmente, se ne frega, e ogni notte lo raggiunge, dopo aver dato un bacio al povero Antonio, affidato alla custodia di nonna Teresa. Lui ci soffre: si sente solo, triste e abbandonato, e con un bel po' di risentimento in corpo. Finché, nel 1924, Nannina e Giuseppe si sposano e lui, riconosciuto dal padre quattro anni dopo, non ne assume il cognome.

Ma non gli basta. L'ex ragazzino, che i compagni avevano soprannominato ‘o spione', perché «se ne andava in giro ad osservare la gente», rifacendone poi «le movenze e le espressioni, prima in improvvisate rappresentazioni per i vicoli, il suo primo palcoscenico, e poi nelle periodiche, quegli spettacolini organizzati per le famiglie, che diventavano occasioni di esibizioni artistiche»; l'ex ragazzino, dicevamo, ora trentenne, sentendosi nobile, ambisce a fior di certificazioni. Così, nel 1933, si fa adottare dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas («probabilmente in cambio di un vitalizio»), dopodichè impegna l'amico d'infanzia, l'avvocato Gaetano Bizzarro, in costosissime ricerche, che approdano a un altisonante risultato. Nel '45, infatti, il Tribunale di Napoli gli riconosce il diritto di fregiarsi dei nomi e dei titoli di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo, Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, Duca di Macedonia e di Illiria, Principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, Conte di Cipro e di Epiro, Conte e Duca di Drivasto e di Durazzo. E scusate se è poco, come risarcimento e riscatto, per quel giovanotto che intanto ha trasformato la sua mascella storta (frutto di un terribile cazzotto preso a vent'anni) in una sorta di "insegna" della sua maschera comica. Che si va "definendo" per notorietà e importanza: dai primi successi al Teatro Jovinelli e alla Sala Umberto, Totò, grazie anche al fortunato sodalizio con Anna Magnani, con cui, negli anni Quaranta, interpreta diverse riviste, nel dopoguerra è diventato una "star". Guitto e principe, ovviamente. Fuma le Turmac, corteggia con successo le belle donne, pretendendo, gelosissimo com'è, fedeltà ma, da antico maschilista, senza alcuna reciprocità (la famosa attrice Liliana Castagnola, vent'anni prima, stanca dei tradimenti del brutto, ma fascinoso e virilissimo, Antonio si è uccisa, lasciandogli una lettera grondante d'amore. E lui, pentito, e a memoria perenne, chiamerà Liliana la figlia nata dal suo matrimonio con Diana), veste con grande eleganza, dà confidenza solo a pochi intimi, disdegna ogni volgarità. È un principe. Ma conosce come nessun altro il popolo. E come nessun altro gli dà volto e voce. Al di là di ogni ideologia. Il vero, autentico cinema neorealista lo fa Totò, attore comico, sentimentale e "corporale", capace di parlare al cuore e alla "pancia" degli spettatori, raccontan
do l'Italia piegata e piagata del dopoguerra, che pure, in maniera arruffata, e arrangiandosi, cresce e cerca una sua "dignità".

Totò è un eccezionale narratore e interprete della sua, della nostra controversa vitalità sia in film "grandi" come Guardie e ladri di Steno e Monicelli (1951) che, per noi e alla faccia della critica catto- comunista superdidascalica e superciliosa, "vale" quanto Roma città aperta e Ladri di biciclette, sia in "filmetti" meno impegnativi ma che, comunque, raccontano tra lazzi, frizzi e pinzillacchere cose di casa nostra, da Totò al Giro d'Italia (1948, diretto da Mario Mattoli), a Totò, Peppino e la malafemmena (1956, diretto Camillo Mastrocinque), da Totò lascia o raddoppia (1958, anche questo con la firma di Mastrocinque), a Totò, Peppino e… la dolce vita (1961, diretto da Sergio Corbucci). Ma la filmografia è uno straordinario archivio di vita nazionale, un album di famiglia che non ti stanchi mai di guardare: e se ti metti a fare l'elenco, da Dov'è la libertà? a Siamo uomini o caporali?, da Miseria e nobiltà a Totò e Carolina, da La banda degli onesti a "I soliti ignoti sino a Gli onorevoli, di Sergio Corbucci (1963. Vi ricordate il tormentone «Vota Antonio!» del candidato Antonio La Trippa? ), davvero non la smetti più. E nemmeno la vuoi smettere perché ti accorgi, ti convinci che Totò "aveva capito tutto". Il che significava anche perché non eravamo più fascisti (ma un po', insomma, lo eravamo rimasti…) e perché avevamo a che fare e dovevamo sopportare la Dc, non amandola, e il Pci, entrambi illiberali, tra l'altro, ma riveduti e corretti "all'italiana" (lui, il principe, era un ossimoro vivente: monarchico-anarchico, votava, sembra, per il partenopeo e nazionalpopolare Achille Lauro e il confessarlo in tv gli costò la censura per anni dalla Rai democristiana...).

Se ne accorse Pasolini di avere a che fare con un attore istintivamente, genuinamente politico quando, nel 1966, lo scelse per Uccellacci e uccellini, cucendo su lui (che, da tempo quasi completamente cieco, miracolosamente "recuperava la vista" sul set) e Ninetto Davoli, una parabola-predica con tanto di corvo intellettuale di sinistra («la mia patria si chiama ideologia», proclamava, aggiungendo «vivo nel futuro, in via Carlo Marx»), che cerca di erudire i due "pupi" proletari e innocenti, e finisce spennato e in pentola? Sì e no, visto che Pasolini scrisse che Totò, destinato a morire un anno dopo l'incoronazione ad attore "impegnato", era «reduce da orribili film che oggi una stupida intellighentsia riscopre». Non rendendosi conto che era stata invece stupida"l'intellighentsia che fino ad allora non aveva capito Totò e aveva giudicato orribili i suoi film per puro e semplice schematismo ideologico. Leggiamo anche: «Ho sempre sostenuto che amo fare i film con attori non professionisti, cioè con facce, personaggi, caratteri che sono nella realtà, che prendo e adopero miei film. Non scelgo mai un attore per la sua bravura di attore, ma lo scelgo proprio per quello che è. Volevo un personaggio estremamente umano, cioè che avesse quel fondo napoletano e bonario, e così comprensibile che ha Totò. E nello stesso tempo volevo che questo essere umano, così medio, così "brava persona", avesse qualcosa di assurdo, di surreale, cioè di clownesco». Certo, clownesco, assurdo, surreale: questo era Totò. Ma perché, contrariamente al corvo marxista che non riesce a catechizzare i due sottoproletari, la realtà la conosceva e ci poteva volare dentro e sopra.

Mario Bernardi Guardi
Fonte: http://www.secoloditalia.it
30/09/2010


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