Elezioni regionali, più astenuti che negli Usa
Tutti i perché di una diserzione da record
Quasi un cittadino su due non è andato a votare. E non basta dire che ieri era una bella giornata di sole: è una gigantesca crisi di rappresentanza che a urne chiuse si dimentica troppo in fretta
di Alessandro Gilioli
01 giugno 2015
Elezioni regionali, più astenuti che negli Usa Tutti i perché di una diserzione da record
Ci siamo persi per strada un altro dieci per cento di elettori, in un anno.
Ogni volta, un pezzo di Paese reale in più diserta le urne, nell'indifferenza dei partiti e immediatamente sparito dai commenti della nottata. La massa crescente degli invisibili, quelli di cui dopo pochi minuti si dimenticano tutti.
Ormai non tiene più nemmeno il riferimento consolatorio agli Stati Uniti: dove l'astensionismo è alto ma costante - non in continua e rapida ascesa come da noi - e dove alle ultime elezioni ha comunque votato il 55 per cento: più che in Liguria, in Campania e in Puglia, ieri.
Come sempre in politica, ogni effetto ha più cause. Quindi per spiegare l'astensionismo record si può parlare della bella giornata di sole, dell'ultimo turno del campionato di calcio, del ponte del 2 giugno che i più fortunati hanno usato per una vacanza.
Ma al netto di queste ragioni spicciole e contingenti, ce ne sono probabilmente di diverse, un po' più profonde. Le regioni stesse, per cominciare. Conquistate come diritto di autogoverno locale quasi mezzo secolo fa, oggi sono vissute dagli elettori come istituzioni utili solo al ceto politico, che se ne spartisce le poltrone e le abbondanti prebende: talvolta al di qua, troppo spesso al di là della legge. Non a caso l'affluenza è stata (un po') più alta laddove si votava anche per le comunali: il sindaco, tutto sommato, è ancora visto come qualcuno che può incidere nella vita concreta delle persone.
L'istituzione-regione è invece in una crisi di credibilità profonda. E non è servito (anzi, forse ha prodotto l'effetto opposto) il fatto che diversi dei nuovi consiglieri regionali potrebbero diventare domani anche senatori, se passasse la riforma costituzionale su cui Renzi tanto punta. A peggiorare il tutto, il mix di leggi elettorali tutte diverse, da regione a regione, un pastrocchio frutto di varie alchimie e che nella maggior parte dei casi erano tutt'altro che chiare ai cittadini chiamati alle urne.
Ma c'è altro, naturalmente. Ad esempio, nessuno dei candidati governatori in questo turno era in grado di suscitare entusiasmi, speranze di massa. Nemmeno chi poi ha vinto. Espressioni di partiti o di azienda, di clientele o di blocchi di potere, ma comunque lontani dall'aprire una breccia nel cuore dell'elettorato di opinione.
Anche questo è insieme una causa e un effetto della frattura tra Paese e partiti. E poi, ancora, la confusione della geografia politica. Forza Italia e Lega erano alleati da una parte, avversari in altre; lo stesso è avvenuto con il Pd e l'area alla sua sinistra. Nelle Marche si è arrivati al caso limite di un ex governatore del centrosinistra che si è ricandidato con il centrodestra, giustamente punito alle urne. Con l'aggravante delle divisioni correntizie diventate contrapposizioni di liste: la Lega si è spaccata in Veneto, il Pd in Liguria, Forza Italia in Puglia. A volte per motivi politici, altre volte per faide personali.
In ogni caso, il risultato è stato che la Seconda Repubblica - nata con il sogno di un centrodestra e un centrosinistra limpidamente diversi e avversari - sembra naufragata in una balcanizzazione senza precedenti, effetto di trasformismi vari e di giochi di palazzo. In più, c'è l'ipotesi che che nella crescita degli astensionisti abbia pesato anche la strategia di Renzi - cioè portare il Pd fuori dal suo recinto tradizionale, attraendo elettori di centro e di destra. Che ha come rovescio della medaglia la percezione da parte di molti di una marmellata indistinta, senza quei robusti contrasti che costituiscono il sale della sfida politica e inducono a schierarsi, quindi a partecipare.
Siamo stati il Paese di Peppone e di don Camillo, poi quello dei berlusconiani contro gli anti berlusconiani: oggi quelle forme di dialettica - magari semplificatorie ma chiare a tutti - sono sparite. E con esse, il coinvolgimento di molti. In questo quadro di disaffezione, tuttavia, forse giocano un ruolo anche i limiti del Movimento 5 Stelle. Il cui risultato elettorale è più che positivo se parliamo in “politichese”, cioè tenuto conto che alle amministrative il M5S è sempre meno forte che alle altre elezioni, che i suoi candidati erano volti ignoti, che gli altri partiti hanno monopolizzato i media e speso milioni di euro in campagna elettorale.
Eppure proprio questo turno con così tanti astenuti evidenzia che il M5S ha il problema di non riuscire a sfondare come potrebbe tra i delusi della politica, in quell'esercito che costituirebbe il suo bacino naturale. E alla contrapposizione centrodestra-centrosinistra il M5S non è (ancora?) riuscito a sostituire nella percezione dei più l'idea di un nuovo dualismo che lo veda antagonista in grado di vincere, di godere dei frutti dell'alternanza per governare. Il che è tanto più paradossale per una forza politica che è risultato primo partito in più di una regione.
Di sfondo, in questo record d'astensionismo, l'idea crescente che andare al voto “non serva a niente”, comunque. La sensazione cioè che le decisioni vere vengano prese altrove, da poteri economici, tecnocratici o anche politici ma comunque lontani, a Bruxelles, a Francoforte, nelle city.
È come se il diritto alla propria autodeterminazione conquistato dopo il fascismo fosse stato di nuovo sottratto, questa volta in modo silenzioso e sottile, impalpabile e surrettizio. O almeno così, da molti elettori, viene percepito. E questo, forse, è il problema più grave: che il turno elettorale di ieri ci ha solo confermato e ricordato.