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25 Aprile: veri e falsi partigiani


Tao
 Tao
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Oggi, come si sa, cade la festa della Liberazione dal nazifascismo. Per quanto mi riguarda (e anche se la cosa potrà sorprendere qualcuno) posso dire non solo di essere figlio di un partigiano ma di essere orgoglioso che mio padre abbia preso parte alla Resistenza. Non rinuncio però, anche oggi, a dire qualcosa di revisionista. Ricordo infatti che Paul Rassinier, il fondatore del revisionismo olocaustico, fu non solo partigiano ma venne anche insignito della medaglia d'argento della Riconoscenza Francese e della Rosetta della Resistenza, decorazioni che peraltro non portava mai.

Leggendo la nota biografica di Rassinier pubblicata dalla Graphos nell'edizione del 1996 della Menzogna di Ulisse, c'è un passo che ha attratto la mia attenzione (p. 20):

"Riprende il suo posto alla testa della federazione SFIO [il partito socialista] di Belfort e non esita a dichiarare di non aver mai incontrato nella Resistenza la maggior parte degli uomini che ora parlano in suo nome".

Mio padre ha vissuto un'esperienza analoga: nella sua città la locale sezione dell'ANPI è stata guidata per interi decenni da personaggi totalmente estranei al movimento partigiano. Quando mio padre fece richiesta per avere la pensione da partigiano (di misera entità ma di sacrosanto valore simbolico) questi stessi personaggi gliel'hanno ripetutamente negata. Ora, che mio padre sia stato davvero partigiano è attestato tra l'altro da un diploma, firmato a Roma nel 1947 dai comandanti delle Brigate Garibaldi, Pietro Secchia e Luigi Longo.

Il destino di mio padre non è stato unico: anche i suoi compagni sono stati emarginati dalla detta sezione dell'ANPI. Essi infatti costituivano un rimprovero vivente per i millantatori che si fanno belli ogni 25 Aprile.

Il fenomeno delle false testimonianze in ambito resistenziale è analogo, anche se molto più oscuro e trascurato, delle false testimonianze olocaustiche: quante carriere hanno avuto il lustro di benemerenze partigiane puramente fittizie! Sarebbe ora che qualche storico se ne accorgesse.

Andrea Carancini
Fonte: http://andreacarancini.blogspot.com/
Link: http://andreacarancini.blogspot.com/2009/04/25-aprile-veri-e-falsi-partigiani.html
25.04.2009


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mendi
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E questi buffoni millantatori vanno in piazza a festeggiare la liberazione senza vergogna.


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katy
 katy
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da noi nelle marche, quanti politici di sinistra hanno fatto carriera sfruttando la morte di partigiani e la resistenza con discorsi in piazza .Veramente uno schifo!!!


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TitusI
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Rispetto profondamente i partigiani, e anche chi, in quegli anni combatte sul fronte opposto se lo fece credendo di essere nel giusto, e non per difendere un qualche specifico interesse.

Ma quanti partigiani ci sono stati DAVVERO in Italia? sembra che aumentino sempre anno dopo anno invece che diminuire...

Che schifo.

P.S.

Non festeggio il 25 Aprile, poiche' la liberazione prevede che dopo si sia liberi, e non mi sembra questo sia il caso.

Ma ci tengo a dire che ringrazio TUTTI coloro che hanno combatutto per darmi un futuro migliore del passato che hanno vissuto.
Spero che non si debba mai riverificare in futuro una simile inutile strage, ma temo che sia alle porte.

Signor Tao, le sarei grato se lei potesse girare il mio ringraziamento a suo padre (se cio' e' possibile ovviamente).


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Melkitzedeq
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Ancora nel ricordo del capo partigiano “CINCINO” Montanari

“Francesco Montanari, partigiano, ma grande uomo”.
Ritengo necessario rileggerlo, nel desiderio, oggi gennaio 2008, di rinverdirne la memoria.

22.02.08 - I lettori capiranno.

Avevo scritto: <La quiete agiografica nella quale si cullavano da anni le forze resistenziali antifasciste fu scossa violentemente un giorno del 1990. Accadde che un ex deputato comunista ed ex partigiano, l’ingegner Francesco Otello Montanari (“Cincino”), ricordando gli eccidi compiuti dai suoi compagni nelle giornate primaverili (e ben oltre) del 1945, lanciò appunto “quel giorno del 1990, un grido accorato: ‘Chi sa parli!’”.

Superfluo aggiungere che dopo quella denuncia intorno a Montanari fu eretta una cortina di silenzio e di omertà. Il dado, però, era tratto e l’ex partigiano voleva lavarsi completamente la coscienza. Nel 1994, venuto a sapere che lo Stato era pronto ad assegnare all’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) la somma di 20 miliardi, scrisse a Scalfaro minacciandolo: “Se consegnerete quei soldi, io mi brucerò vivo!”.

Sabato 17 febbraio 1996 “Cincino” Montanari affidò una lettera, che può essere considerata il suo testamento spirituale, ad un amico, l’avvocato Gustavo Raffi. Di quella lettera ricordiamo alcuni passi più significativi: “Sono certo che coloro i quali detengono le leve del potere faranno tutto il possibile per farmi passare per matto o anormale (…). Mi ammazzo perché so valutare la ‘sora’ morte nella maniera giusta, perché ho dignità, moralità, sensibilità e coraggio per cui, in questo letamaio pieno di miserie, ingiustizie e violenza – dove comandano i ladri, i delinquenti e i mafiosi – si potranno trovare bene i loro compari o le pecore, ma non il sottoscritto (…). Durante la guerra sono stato comandante partigiano (…). Non ho mai fatto scatenare terribili rappresaglie su gente innocente, non ho mai vigliaccamente giustiziato nessun fascista a guerra finita (…). Qui non c’è una sola cosa che funzioni per il verso giusto: si privilegiano gli stranieri illegali invece dei fratelli, si puniscono i ladri di galline e i piccoli evasori, ma mai i grossi: i sindacati insegnano solo i diritti (mai i doveri) (…). Provo ormai nausea a vivere in questa ripugnante società di ladri, di delinquenti e di pecore. Perciò vi dico ‘IO NON CI STO’ più e tolgo il disturbo!

Spero di avere sufficientemente chiarito che il mio non è un gesto inconsulto, ma un gesto di protesta nei riguardi dei principali responsabili di questo sfascio morale e materiale dell’Italia.

Vi saluto tutti, amici e nemici, e vi prometto che, se di là si sta peggio che di qua, vi scriverò. Ma se non riceverete niente, vuol dire che si sta meglio.

Francesco Montanari”>

Il mio articolo così continuava: <I 20 miliardi furono consegnati all’A.N.P.I. e, da uomo coerente, Montanari, il 22 febbraio 1996 si dette alle fiamme ponendo atrocemente fine alla sua vita.

P.S. Da perfetti vigliacchi, ma coerenti, a parte un paio di quotidiani, i “mass-media” ignorarono il “fatto Montanari”>.

Sin qui le parti più salienti di quanto scrissi nel novembre del 2000. A metà aprile di quest’anno ho ricevuto una lettera dalla Direzione del periodico a firma di Livio Valentini, datata “Milano, 11/03/03”, nella quale, in merito al “caso Montanari”, si legge: <(…). Senonché, giunto alla storia di Otello Montanari (in arte “Cincino”), mi disse che (lo scrittore Gian Paolo Pansa, nda) non era stato lui a lanciare la famosa frase. Inoltre, in occasione di una prolusione pubblica, tenuta una quindicina di giorni prima in Emilia, riguardante il suo ultimo libro, aveva incontrato il Montanari (vecchio, ma vivo e vegeto) col quale aveva avuto anche una discussione. Insomma ho rimediato una figuraccia, perché quella nota errata poteva inficiare anche la verità delle altre cose che raccontavo. Quella storia non me la sono inventata; l’ho ripresa da un articolo apparso su un periodico (novembre 2000) che allego in copia.

Conoscendo la serietà del giornale, mi pare difficile che il sig. Giannini si sia inventato tutto, penso ad una omonimia (ma in tal caso non si tratterebbe di Francesco Otello Montanari, né sarebbe stato deputato)>.

Confermo tutto quel che scrissi, a parte che Francesco Montanari (“Cincino”) non fu deputato comunista (anche se sul sito http://digilander.libero.it/tricolore1/comuitalia.htm, attesta essere stato deputato comunista), ma questo, ai fini del gesto del capo partigiano, ha poca importanza. La lettera di Livio Valentini dimostra, una volta di più, la capacità dei comunisti di nascondere la verità. Infatti il Montanari incontrato da Livio Valentini doveva essere Otello Montanari (non Francesco, tanto meno “Cincino”). Ma questi non poteva non sapere che era esistito un suo omonimo e che fu proprio lui a lanciare quella frase che incriminava la maggior parte della “Resistenza”, ma soprattutto che era stato autore di un gesto tanto eclatante.

Francesco “Cincino” Montanari aveva 76 anni, era nato a Ravenna, ma abitava a Cesena. La notte del 22 febbraio 1996 salì su una vecchia “Ritmo” acquistata pochi giorni prima e la parcheggiò in San Mauro in Valle (una frazione di Cesena) dove si dette fuoco. Il suo corpo fu divorato dalle fiamme, ma rimasero intatte alcune copie del suo libro dal titolo: “Qui il più pulito ha la rogna”, libri che aveva posto accanto alla macchina prima dello stoico gesto. A maggior documentazione riporto uno stralcio di una lettera inviata a “Il Giornale” il 15 marzo 1997 dal signor Italo Tassinari di Padova che aveva fatto parte della stessa brigata partigiana di Montanari: <Ero amico intimo di Francesco “Cincino” Montanari, amico sino a recensire il suo ultimo libro “Qui il più pulito ha la rogna” (…). Anche Cincino Montanari era un capo partigiano che combatteva per una Resistenza diversa e che non indusse mai ad atti come quello di Codevigo, dove la 28^ Brigata Garibaldi del Pci, comandata dal cosiddetto “eroe rosso” Boldrini, medaglia d’oro al Vm (figuriamoci) senatore della Repubblica per meriti resistenziali, passò per le armi circa 300 giovani nelle “radiose giornate” 10, 11 e 12 maggio 1945, cioè dopo la fine della guerra (…). Cincino, prima di suicidarsi, venne a trovarmi di domenica nella mia casa di Bellaria, in quel di Rimini, per salutarmi. Un addio semplice: “Caro amico Italo – mi disse – ti porto dieci copie del mio libro, diffondilo. Mi ucciderò mercoledì prossimo, perché in questo merdaio di grassatori e tangetocrati non voglio più vivere (…). Questa Italia nata dalla Resistenza, un parto che forse era meglio fosse stato aborto…”>.

Questa è la storia, per dovere di spazio molto concisa, di un grande uomo che è un onore avere avuto come avversario; non nemico. Perché poche cose ci dividevano da Lui.


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Maria Stella
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Quanti partigiani dell'ultimo minuto mi ha indicato mio padre, che partigiano fu davvero e fu privato di ogni riconoscimento, amareggiato dalla ingiustizia e dalla arroganza di gente senza qualità che ancora parla e sparla, arricchitasi su una colossale bugia. Hanno loro si, sporcato e sporcano la Resistenza come coloro che hanno ammantato assassini e ruberie della veste della resistenza, ma d'altro loro trattavano. Spiace che in questo Paese nessuno o quasi abbia avuto il coraggio di dire, denunciare, parlare. Una "partigiana " con cui ho parlato mi ha detto chiaramente: io non parlerò mai, ho figli e nipoti, sarebbe come ammazzarli, e piangeva per l'orrore di quello che avevano fatto pseudopartigiani nel suo Paese. Poi lei povera, loro "politici" a livello nazionale. Che schifo!! La liberazione in Italia non c'è stata, e non ci sarà , siamo in guerra civile e ci saremo finchè certi da sta guerra si avvantaggeranno nascondendo la loro pochezza, hanno cominciato la presa del potere con freddo calcolo, una vergogna che continua, freddi e calcolatori, peggio dei peggiori fra quelli cui lo toglievano il potere, e lo sappiamo tutti, nonostante la toppa che si cerca di metterci sopra da 60 anni ormai..hanno rovinato un Paese, e ancora parlano, ancora arroganti, ancora calcolatori , ancora contro


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Melkitzedeq
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Ecco a voi tre "personaggi notevoli", padri dell'Italia antifascista e resistenziale tornati sugli automezzi dei liberatori americani a insegnarci la democrazia:

1) Arrigo Levi, nato nel 1926, ha costantemente accompagnato l'avvocato
Agnelli alle riunioni del Bilderberg e della Commissione Trilaterale,
insieme al sindacalista preferito dall'Avvocato, Giorgio Benvenuto,
per una vita segretario della UIL.
E' raro che la Trilateral accolga sindacalisti nei suoi consessi
segreti: ma l'Avvocato garantiva per il suo sindacalista di casa.
Tanto più che secondo i maligni, oltre che segretario della UIL,
Benvenuto ne era anche l'unico membro.
Cosa credibile, visto che la UIL era emanazione del Partito
Repubblicano.
Il quale - secondo i suddetti maligni - teneva i suoi congressi
plenari in una cabina telefonica.
E tuttavia De Gasperi non poté fare a meno, nel suo primo governo, di
imbarcare quel partito repubblicano e il suo segretario Ugo La Malfa.
E a chi gli chiedeva il perché, spiegava che senza La Malfa
imbarcato, non sarebbero arrivati i soldi del Piano Marshall.
Questo per dire che tipo di potere è quello.
Difatti, m'è parso di vedere Benvenuto nel direttivo del nuovissimo
partito americano di Uòlter Veltroni.
Si vede che serve ancora.
Arrigo Levi era riparato, durante il fascismo, in Sudamerica: ecco
perché il rampollo Ricardo Franco è nato a Montevideo.
Vista la discendenza, c'è da rimpiangere il vecchio Arrigo, e da
capire la sua luminosa carriera, corrispondente de Il Corriere da
Londra poi suo commentatore internazionale, poi direttore della
Stampa, poi al vertice Rai. fino a diventare un Venerato Maestro.
Ricordo che discettava, con voce nasale e didattica, spiegando a noi
italiani dappoco le norme e regole della democrazia unica e vera,
quella USA.
Non ricordo se fosse davvero intelligente.
Ma non ne aveva bisogno.
Era di casa al Council on Foreign Relations, dava del tu a Kissinger:
da lì venivano le idee e le direttive, che Arrigo si limitava a
riportare per noi dappoco.
Del resto, ai tempi, la dottrina economica unica non era ancora il
liberismo assoluto e devastatore della scuola di Chicago, era un
keynesismo rooseveltiano, il che andava benissimo per la Fiat, in
quanto legittimava la socializzazione delle perdite della Casa e il
denaro pubblico che riceveva per «mantenere l'occupazione».
L'Avvocato teorizzava una pace sociale in cui l'inflazione era il
«lubrificante» della dialettica capitale-lavoro: gli aumenti
salariali venivano dalla stampa di lire, e il potere d'acquisto era
sùbito divorato dal rincaro dei prezzi, ma la macchina sociale,
pistone e cilindro, funzionava come l'olio.
Altri tempi.

2) Il secondo era Renato Mieli, il papà di Paolo, direttore de Il
Corriere: venuto tra noi in uniforme USA, con i gradi di ufficiale,
nei primi mesi di occupazione era un «capitano Smith» (o qualcosa del
genere) a cui i giornalisti italiani dovevano rivolgersi per ottenere
l'autorizzazione a lavorare e ad aprire giornali, insomma il
responsabile della epurazione morbida del giornalismo per conto degli
Alleati.
Allora, parlava esclusivamente inglese.
Subito dopo, fondò l'ANSA.
Ancora qualche mese, e molti di quei giornalisti che avevano chiesto
l'autorizzazione a scrivere al capitano Smith si stupirono poi di
ritrovarlo, sotto il nome di Renato Mieli, come direttore de L'Unità.
L'organo del PCI diretto da un ufficiale americano?
Evidentemente l'OSS (futura CIA) aveva deciso che occorreva loro un
controllore dentro quel partito.
Renato Mieli, che probabilmente era tanto comunista quanto era un
dromedario, resistette disciplinato dieci anni: nel '56, la rivolta
d'Ungheria gli diede il destro di andarsene sbattendo la porta, e
scrivendo peste e corna sugli orrori staliniani del Partito comunista.
Scrisse anche una sua biografia, «Deserto Rosso, dieci anni da
comunista»: titolo rivelatore. Effettivamente, dieci anni di
recitazione da comunista sono tanti.
Si finisce per non poterne più.
Trovò ospitalità da Montanelli.
Ma anche un altro lavoro: la direzione del CESES, un «osservatorio
sui Paesi dell'Est» pagato dagli USA, affollato di agenti slavofoni
che andavano e venivano da là (ma mi pare ci fosse anche Giuliano
Amato) e diretto nelle cose concrete da tale Warren Nutter, un
economista (chiamiamolo così) che era stato allievo di Milton
Friedman a Chicago.

3) Il terzo personaggio notevole di quella generazione fu Ugo Stille.
Anche questo sbarcò nel '43 con le truppe USA, in veste di «sergente
Micha Kamenetzky» (il suo vero nome) e subito divenne direttore di
Radio Palermo.
Era l'emittente allestita dagli Alleati subito dopo la conquista
della Sicilia.
Ma per poco: Stille seguì la truppa yankee su per l'Italia, fino a
Milano.
A Il Corriere, naturalmente.
Pronti: che mansione preferiva?
Dica, Kamenetzsky, oggi la stampa è libera in Italia.
Stille preferì tornare a Washington, commentatore per il Corriere.
Se Arrigo Levi da Londra echeggiava le visioni di Kissinger e del
Council on Foreign Relations di Rockefeller, Kamenetszky spezzava,
per noi italiani, il pane della sapienza della Brookings Institution,
un think tank un tantino più liberal ma non meno potente, visto che
questa fondazione privata stilò da capo a fondo il Piano Marshall,
che poi il Congresso approvò senza variazioni nel 1948.
Insomma fra Levi e Stille correva la stessa differenza che corre tra
i «repubblicani» e i «democratici» in USA, due sfumature di tinta dei
poteri forti che in Italia erano rappresentati dal partito liberale
(di «destra») e dal repubblicano («sinistra», diciamo).
Due partiti artificiali, creati in laboratorio - nell'ufficio studi
della Banca Commerciale dove Raffaele Mattioli, il laicissimo, aveva
allevato La Malfa e Malagodi, Merzagora e Cuccia, distribuendo le
parti fra loro quando l'Italia sarebbe stata liberata: tu Malagodi
farai il liberale, tu La Malfa farai da mazzinianno, repubblicano
intransigente.
Tu Merzagora alle Assicurazini Generali, tu Cuccia, Enrichetto mio, a
Mediobanca - insomma avete capito.
Era la libertà, finalmente.
PLI e PRI poi gli italiani non li votarono, e non si riuscì a fare il
bipartitismo perfetto della perfetta democrazia americana.
Stavolta si spera che andrà meglio a Uòlter e al Belursca.
Perché il potere di quella prima generazione sussiste.
Emana ancora un raggione da teletrasporto da far impallidire il
dottor Spock.
Basta pensare a dove sta Paolo, il figlio di Renato Mieli.
Basta dire che Gianni Riotta, per il solo fatto di aver scodinzolato
per anni attorno ad Ugo Stille chiamandolo Venerato Maestro e
professato per lui la sua infinita ammirazione (slurp slurp) è
diventato direttore del TG1: e mica nel 1943, oggi.


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