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Agonia liberale?


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Agonia liberale?

di Sandro Guzzi-Heeb (*) - 21 aprile 2011

Dall’inizio dell’anno tutti ormai ne parlano: i liberali-radicali sono in crisi, mentre i partiti di destra come Lega e Udc sembrano inarrestabilmente in progressione. Un fenomeno che, del resto, si era delineato già da tempo. Se i motivi della crisi, come sempre, sono certamente complessi, un ingrediente centrale mi sembra l’incapacità del liberalismo nostrano di rinnovarsi, superando un’ideologia del “meno stato”, ripetuta come una cantilena, e che pena ad inquadrare i problemi reali odierni.

All’inizio dell’anno il quotidiano romando “Le Temps” ha pubblicato una serie di articoli sullo stato attuale del liberalismo: invitati ad esprimersi erano vari rappresentanti in vista della corrente liberale in Svizzera.

Tenore dominante, come un vecchio ritornello intonato nei vari contributi: la lotta contro lo stato, visto come la principale minaccia per la cosiddetta “libertà”. Nel contributo conclusivo, Gerhard Schwarz, direttore di “Avenir Suisse”, sprecava ad esempio il prezioso spazio a disposizione rimasticando la trita questione “Come contenere lo stato vorace?”.

Se questo è il liberalismo odierno, non c’è effettivamente da stare allegri. Dopo la crisi finanziaria, durante la quale gli stati europei – cioè noi cittadini – hanno dovuto spendere miliardi per salvare l’economia di mercato, tornare a recitare stoicamente la cantilena del “meno stato” mi sembra ormai un segno di ristagno intellettuale. E lo diventa ancora di più dopo Fukushima, in cui, ancora una volta, è lo stato – e cioè i cittadini giapponesi – a dover rimediare ai danni epocali provocati dai liberi imprenditori.

La fedeltà alle ricette liberiste tradizionali ha significato, di fatto, anche un rifiuto di affrontare decisamente i problemi che le società contemporanee pongono: i tentennamenti sul problema delle laute gratifiche ai manager e di una regolamentazione del settore bancario rivelano ad esempio una mancanza di volontà di tirare le conseguenze dalla crisi finanziaria. In modo simile, il dogma liberista ha indotto a chiudere per anni gli occhi davanti ai problemi ambientali, aprendo la strada al successo dei Verdi liberali, soprattutto nella Svizzera tedesca.

Mi sembra, in sostanza, che il liberalismo non sia stato capace negli ultimi anni di ripensare criticamente la propria storia, rimettendo in discussione vecchie certezze un po’ ammuffite – che per l’essenziale risalgono alla fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento – per proporre una visione aggiornata e realista del ruolo dello stato in una società complessa come quella in cui viviamo.

Una visione che offrisse delle risposte e delle prospettive non solo ai ricchi, alle grandi imprese, alle banche e ai professionisti, che sono i primi a godere della libertà d’impresa, ma anche ai ceti medi che nella realtà odierna hanno visto deteriorarsi le prospettive economiche. Che malgrado i grandi slogan di “libertà” e “responsabilità individuale” si ritrovano di fatto a lottare contro disoccupazione, precarietà dei posti di lavoro, costi delle casse malati, problemi nelle scuole, la difficoltà di far quadrare il bilancio per una famiglia… Quei ceti medi che, con la politica del meno tasse e del meno stato attuata da anni, si ritrovano fra i perdenti dello sviluppo, e che ora ripongono le loro speranze nella Lega, nell’Udc o in chiunque dia qualche segno di capire i loro problemi.

La crisi attuale del liberalismo è un fenomeno storico serio, che non dovrebbe preoccupare solo gli elettori del Plr, ma tutta la società, compresi coloro che – come l’autore di queste righe – non si definiscono come liberali, in senso partitico: poiché comunque il liberalismo autentico è una componente centrale dei nostri stati occidentali e, se interpretato intelligentemente, può essere una garanzia di corretto funzionamento istituzionale e di efficienza. L’Italia berlusconiana attuale offre il triste spettacolo di uno stato che non ha mai conosciuto un forte movimento autenticamente liberale, che ponesse una certa efficienza e razionalità, così come il rispetto dello stato e delle istituzioni pubbliche, fra i propri obiettivi principali.

Un vero liberalismo ha quindi un ruolo importante da giocare nella gestione di una società capitalista aperta, moderna, tollerante: per l’elettorato saldamente ancorato ai partiti cosiddetti borghesi, l’alternativa sono attualmente movimenti populisti di destra come la Lega o l’Udc, come i fatti recenti hanno mostrato, o come indicano gli esempi della Finlandia o dei Paesi Bassi.

Eppure il liberalismo, e soprattutto il radicalismo, non sono stati solo questo. In Svizzera e in particolare in Ticino è sempre esistita una componente autenticamente democratica, laica e riformista, più vicina alle aspettative e alle esigenze dei ceti medi e della popolazione in generale. Tuttavia sulle questioni importanti essa è spesso e volentieri stata messa in minoranza dall’ala “economica” del “partitone”; allo stesso tempo la politica delle concessioni all’Udc ha di fatto marginalizzato e discreditato le tendenze democratiche e laiche. Anche sulla questione storica della laicità, in effetti, il Plr ha avuto diversi sbandamenti poco comprensibili; molti osservatori si sono meravigliati che un membro di Comunione e Liberazione fosse fra i candidati liberaliradicali al Consiglio di Stato ticinese. Qual è oggi la linea del partito sulla questione dello stato laico?

Pur senza voler dar facili consigli agli altri, penso che un’uscita dalla crisi sia possibile solo attraverso un recupero della coscienza storica del movimento liberale e soprattutto radicale. Poiché paradossalmente, al di là della retorica dello stato cattivo e vorace, sono stati i movimenti di campo liberale a creare lo stato moderno: dalla rivoluzione francese in avanti, sono state le forze liberali a volere uno stato forte, laico, riformatore, con la pretesa inaudita di far progredire la società e di educare i cittadini. Anche in Svizzera, nell’Ottocento sono stati dapprima i liberali e i radicali a volere una Confederazione forte, uno stato più centralizzato ed efficiente e a investire nelle infrastrutture pubbliche. Un’eredità storica che andrebbe ripensata seriamente, al di là di facili ideologie.

(*) storico


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