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Contro l’Arte (degli affari)


Tao
 Tao
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Robert Hughes, intellettuale e scrittore, da anni influente critico d'arte del Time Magazine, ha tenuto una "lecture" (per Il Corriere della Sera una "lettura"!), recentemente a Milano. Sul Corriere del 21 giugno 2009, si legge che Hughes, nella sua "lecture" si scaglia con una certa violenza e dovizia di dettagli contro il mercato dell'arte, ormai governato dalle case d'asta e da un sistema tanto chiuso ed elitario quanto mistificante.

"Oggi tutto nell'arte deve avere un prezzo. Se un'opera non ha un prezzo, la stragrande maggioranza dei cosiddetti appassionati d'arte non ha alcuna idea di quale possa esserne il valore."
robert hughes

Questo è, secondo Hughes, sintomo di "una delle grandi calamità culturali della nostra epoca", e cioè la confusione fra prezzo e valore.

L'Arte di questi anni, pur slegata dall'obbligo di meravigliare, non rinuncia ai privilegi storicamente attribuiti all'Arte trasformandosi cosi' in un palese caso di insider-trading. Robert Hughes fa nomi, cognomi e descrive una serie di circostanze abbastanza esemplari.
UN AMICO

Contro l' arte feticcio di Warhol, Hirst, Twombly, Botero: cifre immorali Business senza scrupoli ignora i valori e crea mostri

Difendere ciò che è inestimabile: che programma! Oggi tutto nell' arte deve avere un prezzo. Se un' opera non ha un prezzo, la stragrande maggioranza dei cosiddetti appassionati d' arte non ha alcuna idea di quale possa esserne il valore. Quindi si sentiranno autorizzati a definirvi elitario. E la confusione fra prezzo e valore è una delle grandi calamità culturali della nostra epoca.

Quando avevo vent' anni, all' inizio della lunga avventura della critica d' arte che mi affascina, entusiasma, irrita, ripaga e delude da cinquant' anni, si potevano trascorrere giorni in un museo senza mai chiedersi, neppure una volta, quale potesse essere il prezzo delle opere esposte. L' interrogativo sembrava non solo fuori luogo, ma irrilevante e non ricordo di essermelo mai posto né di averlo posto a qualcuno.
Damien Hirst

Nel museo l' opera aveva terminato il suo viaggio. Forse era morta nella sala d' aste, ma adesso era entrata nel paradiso del museo, dove tutti potevano vederla. Il Velázquez che avevi davanti non poteva avere un prezzo perché non era in vendita, e non era in vendita perché apparteneva già al museo e i musei non vendevano le loro opere. Punto e basta. Fine della storia.

In seguito, naturalmente, avrei imparato che non era poi così semplice. Era risaputo che i musei, almeno in America, vendevano le loro opere, o alcune di esse, senza fare rumore, con discrezione, per acquistarne altre che desideravano di più. Ma le cose davvero importanti erano inestimabili, perché se un museo se ne liberava non c' era alcun modo di poterle mai riavere indietro. Non le si poteva riacquistare ad alcun prezzo. Qualsiasi vendita, poco importa quanto potesse fruttare, sarebbe stata una perdita netta.
Warhol

Voglio cominciare col proporre qualcosa di molto semplice. Cioè che l' acquisto di costosissime opere d' arte ha finito col diventare palesemente volgare. Tra l' altro non serve a nulla: non è più un segno indiscutibile di conoscenza artistica o di rango sociale, niente di tutto questo. Adesso c' è qualcosa di piuttosto disgustoso in ciò, perché in un mondo di disuguaglianze esorbitanti come il nostro, il denaro ha sostituito il significato.

Avere sulla parete di casa una costosissima opera d' arte appena acquistata equivale semplicemente a una spacconata, a gridare che tu sei più ricco di me. Ma questo lo sapevamo già entrambi. Esempio emblematico attuale è un' opera d' arte che, a quanto ne so io, è stata la più costosa nel suo genere mai acquistata in Occidente: un ritratto firmato da

Dipinto nel 1907, raffigura Adele Bloch-Bauer, la bella ed elegante moglie di un industriale viennese dello zucchero. Di un metro e mezzo quadrato circa, è stato acquistato dopo una lunga e costosa battaglia legale dall' erede di una casa americana di cosmetici, Ronald Lauder, tre anni fa per la somma davvero stupefacente di 135 milioni di dollari, più del Pil di alcune nazioni caraibiche o africane.

Credo che al riguardo si debba, anche solo brevemente, dare il senso delle proporzioni. Nel mondo reale dei bassi salari e delle ristrettezze economiche, dall' Asia al Sudamerica, la maggioranza della popolazione sopravvive con circa due dollari pro capite al giorno. Vale a dire: il denaro speso per l' acquisto del ritratto di Adele Bloch-Bauer equivale al salario netto di un indonesiano o di un bengalese che sgobbassero in una miniera di rame o in una risaia per circa dieci milioni di settimane.

Calcoli del genere non sono mai stati il mio forte. Ma non credo si debba essere Madre Teresa per trovare la cifra alquanto eccessiva. Un aggettivo più appropriato sarebbe «oscena». L' altro giorno mi è capitata una cosa strana: ho incontrato un collezionista, un certo Mughrabi, il quale mi ha raccontato che suo padre possedeva ottocento Warhol. Ottocento! Io mi guarderei bene dal possederne uno.
Fernando Botero

Riuscite a immaginare di alzarvi al mattino e trovarvi davanti per prima cosa l' ormai noiosissimo cliché della faccia di Marilyn che vi fissa? Non l' ho già vista da qualche parte? Credo che poche cose nella vita possano essere più volgari del collezionare opere di Warhol.

Eppure quel ricco pazzo di Mughrabi continuava a ripetermi, in tutta serietà, che a suo parere Warhol è un artista più importante di Leonardo. Non ho potuto far altro che pensare: bene, credici pure e dillo pure ai tuoi amici, magari Leonardo si sentirà meno pressione addosso. Ne ho così piene le scatole dell' interesse mediatico attorno alle valutazioni astronomiche raggiunte da questo o quel quadro che non voglio più sentirne parlare.

Ogni nuova notizia, ormai, non fa che arricchire quel panorama di stupidità umana, spazzatura e volgarità che si dispiega davanti a noi, un panorama manovrato da aziende che disprezzo, prime fra tutte Sotheby' s e Christie' s. Sono poche le cose in grado di dare a una persona civile maggior piacere della scoperta da parte del mondo dei media che il segmento più esclusivo del mercato dell' arte è praticamente crollato.

Possedete un Matisse? Bene, spero sinceramente che ve lo godiate per le sue qualità perché forse non lo potrete vendere al prezzo che contavate di chiedere e la settimana prossima potrete venderlo ad ancora meno. Il Matisse, tuttavia, rimarrà lo stesso. Sembra che ci avviciniamo a quel giorno, ma non ingannatevi: il mercato si riprenderà, anche se probabilmente in forma ridotta. Molto ridotta, spero.

Immancabilmente penso alla famosa mania dei tulipani nel XVII secolo. Come tutte le bolle, si gonfiò provocando reazioni isteriche e poi scoppiò. I tulipani in sé non ne furono toccati. Non smisero di essere belli né di essere botanicamente interessanti. La loro storia sociale non perse il suo fascino. Eppure... qualcosa era cambiato.

Di tanto in tanto si assiste a una massiccia manifestazione di comicità involontaria, come nel caso di tale Steve Wynn, proprietario di casinò a Las Vegas, che unisce alla passione per il collezionismo d' arte la sventura, che ci crediate o no, di essere cieco al 75 per cento. Nel corso della recente vendita di un Picasso del 1932 intitolato «Il sogno» a un supermilionario americano di nome Steve Cohen, il signor Wynn si è reso protagonista di un gesto maldestro: non essendosi guardato alle spalle, il poveretto ha sfondato con il gomito il capolavoro da cinquanta milioni di dollari, mandando così a monte l' affare.

Un attimo fa il quadro era inestimabile, adesso non vale un fico secco. Il signor Cohen naturalmente non ha acquistato il Picasso danneggiato. Tuttavia, ha rimediato in parte all' inconveniente acquistando per 12 milioni
di dollari il capolavoro post-moderno di un artista inglese di nome Damien Hirst: uno squalo tigre piuttosto grosso catturato per lui da un pescatore australiano, mal conservato nella formaldeide e chiuso in un contenitore di vetro.

Il coso stava già andando in putrefazione e alla fine ha dovuto essere buttato. Nel frattempo Hirst, che era salito alla ribalta appena pochi mesi prima vendendo da Sotheby' s una sua opera per un sacco di soldi, ma che adesso è uno degli artisti la cui reputazione e i cui prezzi hanno subito la batosta peggiore a causa dell' attuale crisi, aveva imbalsamato altri cinque squali che adesso si trovano in enormi freezer a Londra, in attesa di una gioiosa risurrezione come opera d' arte da molti milioni di dollari.
Steve Wynn

Lo squalo di Hirst è stato celebrato come opera sperimentale. Per quanto ho potuto constatare, più l' arte pretende di essere sperimentale e più è probabile che sia banale. Non è sempre stato così, ma questa sembra la realtà di oggi. Molti di noi veneravano l' esponente dell' avanguardia come una sorta di terapeuta, in grado di dare scosse sempre più violente e radicali al nostro sistema nervoso. Ma dopo un po' il sistema nervoso si abitua, soprattutto in una cultura basata su un rischio istituzionalizzato ma largamente inventato.

A un certo punto non rimane nulla di più profondo di un culto della novità. E infine, solo i resti sempre più trash e abusati di tale culto. Perciò bisogna chiedersi: il culto della novità che occupa il mondo dell' arte da venticinque anni a questa parte corrisponde davvero a quanto inizialmente propugnato dal Modernismo? Non è possibile, non è pensabile che le lumeggiature di Vermeer sulla perla di un orecchino provengano da un livello più profondo di realtà, di percezione, rispetto a una vetrina di Joseph Beuys?

O a uno squalo morto in una teca di vetro? Non è immaginabile che l' idea di avanguardia sia stata uccisa dall' uso eccessivo che se n' è fatto? Che sia morta perché non poteva più essere distinta dal mito industriale del XX secolo, ossia che la cultura dipende dalla produzione e dal consumo costanti di nuovi modelli?

E che un altro fattore abbia contribuito potentemente alla sua morte, ossia l' obbligo di una cultura radicale e il fatto che, in assenza di forme culturali riconoscibili come radicali, le affermazioni di tale cultura perdono ogni significato? Può essere però che abbiamo esaurito la nostra riserva di radicalità, quella preziosa polverina magica che si soleva spargere su tutte le cose nella speranza di farle sembrare più potenti di quanto non siano.

Può darsi che la radicalità non sia una risorsa rinnovabile. A molti questa eventualità proprio non va giù. Ho conosciuto un tedesco che usa il termine Torschlusspanik per questo preoccupato senso di chiusura: paura della porta che si chiude, paura che troppe opzioni siano state esaurite e dichiarate insoddisfacenti.

Ritengo che si abbia tanto bisogno di un periodo di sobrietà. Muoio dalla voglia di vedere il ritorno di un certo equilibrio nel modo in cui l' arte è accolta dall' opinione pubblica, e non questa alternanza tossica di boom e di depressione, di feticismo e di indifferenza. Ma non ho idea se ciò possa accadere.

Tuttavia, so questo: in giro abbondano i fanatici del mito della rivoluzione permanente nell' arte, i quali identificano ogni desiderio di stasi, di contemplazione, di bellezza disinteressata, con un invito ad arrendersi. E questo lo trovo stupido, quasi al punto di essere offensivo. L' esperimento, in arte, è un' idea pseudoscientifica. Una volta si parlava all' infinito di arte sperimentale, senza riflettere se gli esperimenti mostrassero o dimostrassero qualcosa di importante o conducessero da qualche parte.

In arte, l' esperimento è soltanto una figura retorica e il più delle volte i processi intellettuali e creativi cui esso allude sono meramente nozionali. Significa solo che qualcosa fatto oggi è diverso da qualcos' altro fatto ieri. Magari, però, si scopre che si tratta di differenze che non dicono assolutamente nulla. L' analogia scientifica non è sufficiente. L' arte non progredisce, non trionfa o fallisce alla maniera della scienza sperimentale. Non dimostra cose.

Ciò che conta davvero nell' arte non sono i processi pseudoscientifici ma i momenti di intensità, di intuito, di visione che non sono riducibili a un metodo e non sono ripetibili da altri. Ma - e questo è il «ma» importante - vengono inventati uno alla volta dagli artisti: da Van Gogh che contemplava le rugosità dei tronchi degli ulivi e le vedeva all' interno di una più vasta struttura ritmica di nubi e rocce il cui movimento permea tutta la natura; da Johannes Vermeer che contemplava la strana luminosità di una perla e notava come le sue lumeggiature richiamassero le goccioline di saliva sul labbro della ragazza che la portava all' orecchio.

Inventare è vedere; vedere è inventare; e l' arte veramente più grande è l' arte che incarna le famose parole di William Blake: se le porte della percezione fossero sgombrate, ogni cosa apparirebbe com' è, infinita. È l' artista a metterci in contatto con questo processo percettivo. La testa bronzea e luccicante di un' aringa su un piatto può essere piena di esistenza come un elmo dorato da parata del Seicento, o come un' intera crocifissione, se la sta guardando l' artista giusto.

E se l' arte non ci mette in qualche modo in contatto con tale pienezza di esistenza, a che cosa serve? Un tempo l' arte si interrogava sul significato del mondo attraverso la disposizione dei simboli. Ciò non è più possibile poiché non abbiamo nessuna simbologia convenuta e nessuna matrice di fede religiosa in cui usare tale linguaggio simbolico, ammesso che esistesse.

Si soleva pensare che ciò avesse qualcosa a che vedere con il grado di astrazione. Si supponeva che l' astrazione rendesse le cose universali, quindi più generalmente accessibili. Ma non è così. Si tratta di andare sempre più dentro alla realtà. Ecco perché, dopo avere ritenuto per anni che l' astrazione potesse essere stata la chiave del successo modernista, sono giunto a dubitarne.

Amo Paul Klee per il suo spirito e la sua fantasia, ma le pretese teosofiche di Kandinskij, le sue solenni ciance slave sulle forme del pensiero mi lasciano del tutto freddo. A mio avviso, la luce e i riflessi su una delle brocche di Vermeer valgono tutta la produzione pittorica di Kandinskij, racchiudono maggiore verità e avvicinano maggiormente all' esperienza di una realtà trascendente.

Con gli ultimi anni del Novecento, il problema diventa davvero serio, almeno per me. Con figure come quella di Barnett Newman, le dichiarazioni da Vecchio Testamento fatte dagli artisti al proprio riguardo, e ripetute dai fans, erano spesso semplicemente assurde. «Ritenevo che la nostra disputa fosse con Michelangelo», è una memorabile fanfaronata di Newman. Be' , ti è andata male, Barney. Se davvero è così, hai perso.

Newman aveva un unico schema: la linea verticale che divideva la tela. La chiamava la Zip. Gli ammiratori la paragonavano ad Adamo davanti al suo creatore o al gesto di Dio che divide le tenebre dalla luce. Poiché ero da poco in America, facevo del mio meglio per coltivare tali fantasie, condividerle e ripeterle, perché non volevo sembrare un borghesuccio. Ma la cosa non ha mai funzionato e oggi la Zip di Newman è solo una linea che divide una superficie di colore diverso.

È diventata molto più costosa nei trent' anni trascorsi, ma per me non ha assolutamente alcun aspetto religioso o numinoso o genuinamente sublime, e non posso farci nulla. Ma non vedete che questa è l' America? Se qualche opera di arte più o meno contemporanea eseguita da un francese o da un tedesco cinquant' anni fa può valere un prezzo astronomico, allora è antipatriottico restringere la distribuzione delle valutazioni astronomiche: le vogliamo anche per noi americani.
Per vedere il meccanismo in azione, basta leggere alcune riviste d' arte. Le opinioni indipendenti sull' arte e il suo mercato sono praticamente scomparse, soffocate dal business. Se non lodate il mio cliente, non avrete le mie inserzioni pubblicitarie. Si sfogliano le pagine di pubblicità a colori in cui, per esempio, viene esaltata l' opera di un supernoioso come Botero.

Un dannato Botero dopo l' altro: quelle immagini barbose di figure rotonde, ognuna delle quali sembra essere stata gonfiata, come un palloncino pubblicitario, tramite una pompa infilata nell' ano. O quei dipinti di fiori di tre metri che Cy Twombly ha esposto alla Gagosian alcuni anni fa. Chiazze noiose e sciatte che hanno raggiunto prezzi enormi non perché dicessero qualcosa sui fiori, o anche in generale sulla natura, ma solo perché recavano la firma di Twombly.

Robert Hughes
Fonte: www.dagospia.com/
Link: http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/articolo-7632.htm
6.07.2009


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