Tutte le critiche (negative) all’ordine di libero mercato possono essere descritte come il frutto di un eccessivo razionalismo (come avrebbe sostenuto von Hayek) oppure come il frutto di una rivolta contro la ragione (come invece avrebbe sostenuto von Mises).
Quello che in ogni caso c’è di univoco è che il libero mercato ha dovuto praticamente da sempre scontrarsi con opposizioni scientificamente insostenibili.
In tal senso, è doveroso ricordare che l’economia è una scienza, ma in quanto appartenente al mondo delle scienze dell’azione umana e non al mondo delle scienze naturali il suo procedimento d’indagine non può essere lo stesso di questo secondo mondo.
Una delle critiche più recenti all’ordine di libero mercato è quella che va sotto il nome di “decrescita felice”.
La prima apparizione di questo termine viene fatta risalire alla pubblicazione in lingua francese, nel 1979, di una raccolta di saggi dell’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen, ma è solo con l’arrivo del ventunesimo secolo che la decrescita prende l’aspetto di una corrente di pensiero ed inizia costantemente ad entrare nel dibattito pubblico.
A portare sotto le luci della ribalta la decrescita, attraverso una vera e propria elaborazione del concetto, è stato il professore francese Serge Latouche, da considerarsi il deus ex machina di questa corrente di pensiero.
Latouche espone la decrescita come serena e conviviale, mentre il più celebre aggettivo felice è stato introdotto dal saggista italiano ed anch’esso teorico della decrescita Maurizio Pallante.
Quella della decrescita è una scuola di pensiero senz’altro non totalmente uniforme al suo interno, ma comunque i suoi autori presentano molti punti in comune.
I maggiori punti in comune riscontrabili sono una disapprovazione per l’esistenza di un’autonoma dimensione economica della vita umana ed appunto un’avversione nei confronti dell’ordine di libero mercato.
Prendendo in esame in particolar modo il pensiero di Latouche, iniziamo con il dire che questo autore descrive la modernità come un enorme processo di economicizzazione della vita umana e di occidentalizzazione del mondo e dedica una monografia all’invenzione dell’economia, definita come culturale e storica.
Per Latouche, l’economia, come ambito autonomo della vita umana, nasce tra il sedicesimo ed il diciassettesimo secolo e con la sua nascita l’essere umano si riduce progressivamente ad homo oeconomicus, vale a dire ad essere capace solamente di far proprie quelle motivazioni legate alla massimizzazione della sua ricchezza materiale in virtù di un utilitarismo unidimensionale.
Latouche comprime tutta l’economia dentro una scienza degli aspetti “strettamente economici” dell’azione umana, una teoria della sola ricchezza materiale.
L’avversione di Latouche al libero mercato avviene soltanto in seconda battuta rispetto a questa critica verso l’economia così inquadrata dallo stesso autore.
Questa visione di tutta l’economia porta Latouche a considerare libero mercato e socialismo reale come due varianti dello stesso fenomeno da condannare, ossia “la società della crescita”, ma nel libero mercato Latouche vede, in aggiunta, un ordine che finisce per distruggere il pianeta – libero mercato visto come sistema di dilapidazione irreversibile dell’ambiente e delle risorse – così come la società e tutto ciò che collettivo – libero mercato visto come sistema di distruzione antropologica degli esseri umani ridotti in bestie produttrici e consumatrici.
Ora, nel continuare ad analizzare il pensiero di Latouche e la società della decrescita, iniziamo anche smontarne i ragionamenti ed a vedere “l’incongruenza” tra metodi scelti e fini (cioè serenità, convivialità e felicità) cercati.
Latouche si scaglia contro l’occidentalizzazione del mondo, ma qui Latouche sembra proprio confondere la parola occidente con imperialismo, vale a dire con l’atto (o il propugnare tale atto) deliberato di acquisire e conservare il controllo politico, diretto od indiretto, da parte di uno Stato su qualsiasi altro territorio abitato.
L’imperialismo pertanto è un fenomeno da stigmatizzare in quanto incentrato sull’uso e sulla minaccia d’uso della forza a priori, ma sicuramente questo fenomeno non può essere associato come prerogativa esclusiva dell’occidente, bensì è prerogativa che può essere fatta propria da ogni potere politico, non importa a quale influenza culturale sia sottoposto.
Il mondo è la storia hanno, infatti, conosciuto e continua a conoscere imperialismi di ogni genere e solo alcuni di essi possono essere collegati all’occidente inteso come area storico-culturale-geografica.
Se poi ci sono beni e servizi tipicamente occidentali particolarmente apprezzati in tutto il mondo questo certamente non può essere considerato per l’occidente un peccato, giacché piacere ed essere ammirati non può essere una colpa ed il libero mercato non impone niente a nessuno.
L’economia, come ambito autonomo della vita umana, nasce come interazione sociale non programmata e non come risultato di una volontà comune diretta alla sua costituzione come ci vuol far credere Latouche.
L’economia è innanzitutto una conoscenza tacita, e tale conoscenza diviene consapevole, analizzata e strutturata teoricamente soltanto negli stadi successivi della storia dell’umanità, dunque una società dell’economia non è una tardo-invenzione dell’essere umano, ma è un qualcosa che ha accompagnato l’umanità sin dagli inizi del suo agire.
Inoltre, la dimensione economica della vita non ha come fondamento ultimo il desiderio di ricchezza materiale, bensì la condizione umana di scarsità: economici sono i mezzi e non anche i fini ultimi dell’azione.
Siamo quindi costantemente chiamati ad economizzare i mezzi della nostra azione e se non fosse stato per questa capacità dell’essere umano di economizzare non saremmo mai riusciti a risolvere problemi complessi.
L’essere umano è soprattutto un produttore creativo e non un dilapidatore di risorse, o meglio “è un produttore creativo fintanto che si circonda di istituzioni capaci di favorire la creatività umana”.
Pur agendo in condizione di scarsità, la capacità umana di economizzare è in grado, infatti, di “trasformare l’entità delle risorse disponibili da limitate ad incerte”, poiché la risorsa fondamentale per mezzo della quale possono in seguito trovare utilizzo tutte le altre risorse è la mente umana.
La storia dell’umanità dimostra che l’uomo, mediante le sue invenzioni ed innovazioni tecnologiche, è riuscito non solo a spostare sempre un po’ più in là la frontiera delle possibilità produttive ed a scoprire nuove risorse nonché a sfruttare meglio quelle già conosciute, ma, allo stesso tempo, è riuscito ad affrontare e risolvere gradualmente le problematiche ambientali che di volta in volta si ponevano.
Di conseguenza, dichiarare che l’essere umano è un dilapidatore irreversibile di ambiente e risorse è un’affermazione ottusa e disapprovare l’esistenza di un’autonoma dimensione economica della vita non ha alcun senso se non quello di porre l’essere umano dinanzi alla sua auto-distruzione.
Con ciò non si vuole, nel contempo, sostenere che l’essere umano sia capace di massimizzare in senso stretto e che la sua vita si esaurisca nell’idealtipo dell’homo oeconomicus.
Non siamo in grado di massimizzare in senso stretto niente, dal momento che non possiamo accedere alla conoscenza di tutti i dati rilevanti: non si può dire, infatti, del processo di competizione e cooperazione che esso porti alla massimizzazione di un qualche risultato misurabile, ma soltanto all’uso, in condizioni favorevoli, di maggiori capacità e conoscenze rispetto a qualsiasi altra procedura.
CONTINUA QUI http://www.rischiocalcolato.it/2017/03/decrescita-felice.html