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Fallito colpo di Stato in Turchia: Erdogan assaggia il veleno americano

Scritto il 3 agosto 2016 by Federico Dezzani

Per cinque anni la Turchia di Recep Erdogan è stato il retroterra per le operazioni di destabilizzazione dei vicini, sicura di poter allargare la propria sfera d’influenza se avesse assecondato i piani di Washington per balcanizzare la regione. Lentamente, Erdogan ha compreso che lo stesso veleno somministrato agli altri Paesi mediorientali, era in serbo anche per la Turchia, patria di cospicue minoranze religiose ed etniche. Quando il presidente turco ha meditato un radicale cambiamento di strategia, è stato organizzato il golpe del 15 luglio, coll’obiettivo di precipitare la Turchia nella guerra civile e ripetere lo scenario siriano o libico. Reprimendo il golpe, Erdogan ha vinto solo il primo round.

Un futuro siriano in serbo per la Turchia?

Sono passati cinque anni e mezzo dalle cosiddette “Primavere Arabe” che hanno stravolto il Medio Oriente ed è ormai possibile stabilirne con sicurezza gli obiettivi: le rivoluzioni colorate, di cui sono oggetto gli Stati arabi nei primi mesi del 2011, non sono finalizzate a rovesciare dittatori e presidenti a vita per sostituirli con governi eletti, espressione della Fratellanza Mussulmana tanto cara a Washington e Londra, bensì a destabilizzare tout court la regione. Defenestrati i vecchi leader che garantiscono l’ordine e l’unità, alimentati gli odi settari grazie al fanatismo della Fratellanza, precipitata l’economia nel caos, USA ed alleati puntano a smembrare i vecchi Stati, prodotto dell’epoca coloniale, lungo faglie etniche e religiose, così da coprire la ritirata dell’impero angloamericano con la balcanizzazione della regione.

Tipico, a questo proposito, è il caso della Siria, dove la “Primavera Araba” (2011) si evolve in guerra alimentata ad hoc tra sciiti e sunniti (2012), che, entrata in una fase di stallo, induce angloamericani e francesi a meditare di bombardare Damasco (2013), così da accelerare l’implosione del Paese secondo il copione già sperimentato in Libia. Se la fermezza russa evita il peggio, gli USA rispondono equipaggiando e finanziando l’ISIS (2014), che proprio tra Siria ed Iraq avrebbe dovuto costruire il suo Califfato. Senza il provvidenziale intervento di Mosca (2015), oggi la Siria sarebbe scomparsa dalle carte geografiche: al suo posto sorgerebbe uno Stato sciita-alauita sulla costa, uno Stato Islamico lungo l’Eufrate, un nord conteso tra curdi e turchi.

Veniamo così alla Turchia, finita in queste settimane sotto i riflettori dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio.

Gli angloamericani hanno gioco facile a coinvolgere la Turchia nei loro piani di destabilizzazione della regione: Recep Erdogan è, infatti, un personaggio naturalmente incline ai progetti imperiali (come testimonia il nuovo Palazzo Presidenziale inaugurato nel 2014, 320.000 m² di edifici) ed Ankara nutre storici appetiti sia sulla regione petrolifera di Mosul (oggi Iraq ed un tempo parte dell’impero ottomano), sia sulla città di Aleppo, di cui i turchi posseggono già il naturale porto, ossia Alessandretta (ceduta dai francesi alla Turchia nel 1939, in cambio della sua neutralità in vista dell’imminente guerra europea).

Aiutando ad esportare il caos nei Paesi limitrofi (con cui Erdogan aveva avuto a lungo ottimi rapporti, compresa la Siria di Bashar Assad), la Turchia spera che i suoi sogni di grandezza neo-ottomani si realizzino: architetto di quest’aggressiva politica estera è il professore Ahmet Davutoglu, intimo consigliere di Erdogan, poi ministro degli Esteri (2009-2014) ed infine premier (maggio 2014). Davutoglu è il primo a comprendere i progetti angloamericani in serbo per la regione e, di conseguenza, archivia in fretta la sua iniziale strategia del “zero problemi coi vicini”, concepita per fare della Turchia una potenza economia e commerciale, per sostituirla con un’ambiziosa politica d‘interventismo nei Paesi limitrofi, così da fare della Turchia una potenza militare e territoriale.

La Turchia si trasforma nel naturale retroterra per i terroristi ed i ribelli sunniti che operano nel nord della Siria, nel comodo sbocco per il petrolio estratto dall’ISIS nei campi petroliferi siriani ed iracheni e nel principale punto di partenza per gli islamisti che nel 2015 salpano alla volta della Libia: senza il supporto di Ankara ed il continuo rifornimento di armi americane, l’Esercito Arabo Siriano avrebbe già da anni piegato l’insurrezione, il Califfato non avrebbe mai potuto spingersi fino alle porte di Baghdad e le roccaforti estremiste di Sirte e Derna difficilmente avrebbero potuto consolidarsi.

È una strategia, quella turca, molto pericolosa.

Ankara, infatti, assecondando i progetti angloamericani di balcanizzare la regione, somministra ai vicini un veleno che, all’occorrenza, potrebbe essere somministrato anche alla Turchia: come è possibile smembrare l’Iraq tra sciiti, curdi e sunniti; come è possibile smembrare la Siria tra alauiti, curdi e sunniti; così è possibile smembrare anche la Turchia, patria di 56 milioni di turchi sunniti, 15 milioni di curdi e tra i 6 ed i 10 milioni di arabi aleviti, un ramo dell’islam sciita.

Lungi dall’essere un monolitico Stato-Nazione, la Turchia è un delicato mosaico di etnie e religioni che, sottoposto a violente sollecitazioni, può facilmente esplodere, proprio come i vicini. È la consapevolezza di quanto la Turchia sia vulnerabile che induce Erdogan a mantenere buoni rapporti con la Russia, nonostante i due Paesi si trovino sui due lati opposti della trincea in Siria: quando Vladimir Putin nel dicembre del 2014 gli presenta il gasdotto Turkish Stream, sostituito di quel South Stream sabotato dalla UE/NATO, il “sultano” è ben lieto di accettare.

Trascorre poco tempo prima che la situazione, per Erdogan, volga al peggio.

continua...


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