«L’America ha due nuovi leader, da oggi siamo in tre», aveva detto Fidel Castro, ricevendo all’Avana i presidenti venezuelano, Hugo Chavez, e boliviano, Evo Morales. E, appena rientrato a La Paz, quest’ultimo ha subito voluto mostrarsi degno dell’accoglienza cubana, decidendo di fatto la nazionalizzazione delle risorse energetiche, gas soprattutto, della Bolivia. Una misura ambigua, che teoricamente lascia la possibilità alle grandi compagnie straniere di restare, ma rinegoziando entro sei mesi i loro contratti a diverse e forse insostenibili condizioni, e che in pratica è un proclama politico, di tipo, diciamo, socialista, comunque contro la libertà dei commerci, il liberismo, la globalizzazione.
Quest’alleanza tra il leader tardocomunista Castro e i due presidenti «populisti»,ma eletti, Chavez e Morales, l’hanno chiamata «Alba», che vorrebbe dire alleanza, o alternativa, «bolivariana» per le Americhe. E naturalmente Simon Bolivar è il famoso, storicamente, «libertador» del Sudamerica dal colonialismo europeo (ora si direbbe nordamericano, o occidentale in genere). Nell’«Alba» potrebbero entrare prossimamente il peruviano Ollanta Humala e il redivivo Daniel Ortega del Nicaragua. E dunque i leader acclamati all’Avana potrebbero diventare, da tre, cinque. Un gruppo tutt’altro che trascurabile, se non fosse che c’è un’altra sinistra latino-americana, riformista e non velleitariamente rivoluzionaria, che è già al governo in paesi come il Brasile, il Cile, l’Uruguay, e anche l’Argentina (quest’ultima, alcuni temono, con qualche incertezza).
Naturalmente, chi nazionalizza le principali risorse del proprio Paese ha sempre qualche ragione. A volte lo fa per sottrarle allo sfruttamento dall’esterno, ai danni dell’economia nazionale, altre volte per utilizzarle comunque come strumento di potere, o di potenza. Questo secondo, per esempio, è il caso della Russia, che, in maniera sempre più evidente, usa il bisogno europeo, e anche asiatico, del suo straripante gas, per indirizzare la sua politica estera. Altro che Bolivia.
Ma ci si può chiedere se le nazionalizzazioni alla fine giovino, e a chi. Il caso più importante è forse quello del primo ministro iraniano Mossadeq, che nei primi anni ‘50 chiuse le porte alle cosiddette «sette sorelle», le più grandi compagnie petrolifere mondiali, per poi essere rovesciato dall’alleanza, oggi diremmo golpista, tra lo Scià e gli Usa. In attesa dell’ayatollah Khomeini. E poi l’egiziano Nasser, nel 1956, con la nazionalizzazione del canale di Suez, che incrinò gli equilibri mondiali, fino a mettere in pericolo la pace «nucleare». La conclusione può essere, pensando soprattutto all’odierno mondo globalizzato, che le nazionalizzazioni sono sempre o spesso frutto di malintesi, o comunque di rivalità, rimediabili. O che dovrebbero essere tali.
Aldo Rizzo
Fonte: www.lastampa.it
3.05.06