Ridimensionato l'incubo del terrorismo, ora la paura è legata alle incertezze della vita quotidiana
Gli scrittori - diceva Céline - sono come i cani da slitta siberiani: capaci di fiutare un crepaccio a cento metri di distanza nel buio della tormenta. E con quest'attitudine da presaghi del disastro siamo entrati tutti noi, dieci anni or sono, nel nuovo decennio che allora si apriva e oggi si chiude. Ci entrammo con i nervi a fior di pelle, i muscoli contratti, i sensi all'erta e il naso sollevato a fiutare nei vortici d'aria in burrasca la presenza incombente del crepaccio.
Il nostro burrone fu una bolla di fuoco partorita alle 8.46 di una bella mattina di settembre dal ventre di una torre gemella. Il decennio, il secolo e il millennio cominciarono in quel momento, con quel terribile parto isterico. Gli anni '00 si erano così aperti all'insegna di un immaginario apocalittico: un millenium bug a scoppio ritardato. Per un attimo, fummo certi che il «doppio zero» fosse un quadrato di potenza del ground zero - il punto di corrispondenza al suolo di un'esplosione avvenuta in cielo.
Conclusosi così lo «sciopero degli eventi» degli anni '90, finita la «fine della storia», il rapporto con il tempo storico si rimise in marcia cadenzato dal rintocco lugubre del paradigma apocalittico: un tempo dell'avvento, dell'irruzione di accadimenti squassanti, che avrebbero strappato la trama degli eventi, portando con sé sciagura e distruzione ma anche rivelazione. L'apparire della verità, irruente come quella seminale esplosione, avrebbe ripetutamente posto fine al mondo fin lì conosciuto ma ne avrebbe anche rivelato l'essenza nascosta. Il disvelamento in ambiente violento sembrò esser divenuto, a un tratto, l'unico criterio del vero. Questo il dono obbligante dell'apocalisse: l'occulto che diviene manifesto in una eclatante rivelazione (ricordate la guerra giustificata con la promessa di disoccultamento delle inesistenti armi di distruzione di massa?).
Da quel momento in avanti, tutto ciò che sarebbe potuto ancora accadere era l'incidente, tutto ciò che poteva ancora essere intentato era l'attentato, tutto ciò che ci rimaneva da attendere era l'esplosione di una bomba, psichica, batteriologica o plastica, reale o simbolica, propria o impropria che fosse. Qualsiasi cosa, animata o inanimata, sembrava suscettibile di trasformarsi in ordigno esplosivo e pronta a farlo: un'automobile, un volo di linea, una giovane cecena, palestinese o irachena. Dopo due decenni di vacanza, ritornava in questo modo la politica ma in una temperie religiosa: escatologia, apocatastasi, palingenesi. E nessuna prudenza o previsione possibile. Sotto un cielo da Calderon de la Barca, era impossibile divinare il futuro quando ogni segno era presagio, ogni cosa prodigio.
In effetti, a scorrere la cronologia degli eventi di quegli anni, la sequenza dei disastri appare oggi impressionante: l'undici settembre, la mucca pazza, la guerra in Afghanistan, l'epidemia di SARS, l'esplosione dello Shuttle, l'invasione dell'Iraq, gli attentati di Madrid, lo Tsunami nell'Oceano Indiano, la strage nella scuola di Beslan, gli attacchi nella metropolitana di Londra, l'uragano Katrina, l'epidemia aviaria. Di questo passo, tra una catastrofe naturale e un massacro terroristico, per circa cinque anni, abbiamo vissuto la fine del mondo una volta al giorno.
Di primo acchito, questo andazzo produsse in noi una psicologia da traumatizzati senza trauma (dopo l'Undici Settembre gli psichiatri americani diagnosticarono la Sindrome Post Traumatica da Stress anche negli spettatori televisivi) e un sentimento della vita da sopravvissuti senza aver vissuto. Salvo scoprire, poi, che, paradossalmente, questa vita impastata quotidianamente di «eventi» (guerreschi o mondani, tragici o insulsi) non avrebbe affatto reintrodotto una logica storica ma ci avrebbe invece sprofondati nella cronaca. Sì, perché il millenarismo avrebbe finito ben presto per collassare nel cronachismo: nulla di duraturo, nessun significato permanente, nessun progetto di ampio respiro è più possibile quando si vive un'apocalisse quotidiana. La vita scade allora a malattia cronica di lungo decorso: la nevrosi del consumismo esistenziale che ci costringe a vivere, giorno dopo giorno, sotto il tallone di un'assoluta egemonia del presente, in cui ciò che vale non è più ciò che può essere ereditato e trasmesso alle generazioni future ma ciò che si può misurare solo sul metro breve dell'adesso.
Poi, però, si ebbe un'inversione di rotta. Verso la metà del decennio, le nostre paure conobbero un cambio di paradigma: all'apocalisse si sostituisce il declino, alla catastrofe la decadenza. Lo spettro della fine non si annuncia più come schianto ma come sfinimento. Anche questa svolta avviene in forma di esplosione spettacolare ma è il canto del cigno dello schema esplosivo: a esplodere è adesso una bolla speculativa. Nel 2007, la crisi dei mutui negli USA trascina con sé il sistema finanziario globale. Passata la tempesta, il residuo che lascia è l'autocoscienza del declino. L'Occidente, l'Europa in particolare e l'Italia soprattutto, si scoprono impoveriti. Si diffonde, allora, la consapevolezza che il nostro ciclo espansivo è finito da trent'anni, vissuti nell'illusione di un benessere che era solo il riflesso declinante di una crescita arrestatasi già alla metà degli anni '70.
Ecco che cambia, dunque, il tono del malumore: chi si affaccia alla vita alla fine del decennio, non si aspetta più dal futuro la resa dei conti, l'irruzione clamorosa del redde rationem, ma una lenta, progressiva estenuazione; sa che sarà più povero, più sfruttato, meno istruito della generazione precedente. Insomma, non si aspetta più niente. Il decennio che era cominciato con l'apocalittica politico-religiosa finisce con l'economia. Si passa in un battibaleno dalla legge del profeta a quella finanziaria, dalla sindrome da 11 settembre a quella da 27 di ogni mese, dall'ipoteca del terrorismo a quella sulla casa, dallo spettro dell'esplosione a quello della disoccupazione. Il decennio era cominciato con i musulmani e finisce con i cinesi.
Ma, alla fin della fiera, che si trattasse di apocalisse o di decadenza, abbiamo reagito allo stesso modo: gli anni '00, sul piano della innovazione e della scoperta, verranno ricordati per la diffusione globale di reti di telecomunicazione e di forme di socializzazione virtuale: My Space, Facebook, l'I-pod, lo smart-phone: strumenti utili a scavarsi nicchie virtuali, uteri esterni immateriali in cui riassumere confortevoli pose fetali, gusci in cui rinchiudersi escludendo quel mondo tanto grande, tanto terribile, quel pianeta Terra irrimediabilmente incasinato.
Tornano allora i cani da slitta del principio. Ma questa volta sono quelli di Jack London. Ci racconta London che, quando sulle piste del Grande Nord la temperatura precipitava, anche quegli animali infaticabili si scavavano una buca nella terra e dormivano sepolti sotto la neve per sopravvivere alla gelata notturna.
Antonio Scurati
Fonte: www3.lastampa.it
Link: http://www3.lastampa.it/primo-piano/articolo/lstp/382002/
1.01.2011