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Le favole sull'immigrazione


ilnatta
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UN BILANCIO DEMOGRAFICO DA GUERRA MONDIALE E LE FAVOLE SULL'IMMIGRAZIONE

di Giordano Masini

"Al 31 dicembre 2014 risiedono in Italia 60.795.612 persone, di cui più di 5 milioni (8,2%) di cittadinanza straniera. Nel corso del 2014 il numero dei residenti nel nostro Paese è rimasto stabile. Il saldo complessivo apporta un incremento minimo (+12.944 unità) e addirittura negativo per la popolazione femminile (-4.082). La variazione reale, dovuta cioè alla dinamica naturale e migratoria, registra, al di là delle regolarizzazioni amministrative, un aumento di appena 2.075 unità.

Il movimento naturale della popolazione (nati meno morti) ha fatto registrare un saldo negativo di quasi 100 mila unità, che segna un picco mai raggiunto nel nostro Paese dal biennio 1917-1918 (primo conflitto mondiale).

Continua la diminuzione delle nascite. Sono stati registrati quasi 12 mila nati in meno rispetto all'anno precedente. Anche i nati stranieri continuano a diminuire (-2.638 rispetto al 2013), pur rappresentando il 14,9% del totale dei nati. La mortalità resta stabile, con una lieve diminuzione dei decessi in valore assoluto (-2.380).

Il movimento migratorio con l'estero ha fatto registrare, nel 2014, un saldo positivo pari a circa 141 mila unità, in diminuzione rispetto agli anni precedenti. Le iscrizioni dall'estero, pari a 277.631, sono costituite per il 90% da stranieri e risultano in calo rispetto agli anni precedenti. Le cancellazioni per l'estero sono in aumento, sia per gli italiani sia per gli stranieri. Il movimento migratorio, sia interno sia dall'estero, è indirizzato prevalentemente verso le regioni del Nord e del Centro (...).

Continua l'invecchiamento della popolazione italiana: l'età media è 44,4 anni."

Vale la pena di leggerlo per intero, il Bilancio Demografico Nazionale dell'ISTAT, pubblicato ieri mattina. Una fotografia desolante, che racconta di un paese con un saldo tra nati e morti simile a quello registrato durante il biennio più duro della Grande Guerra - della quale paradossalmente celebriamo in questo modo il centenario - e mai più da allora tanto negativo, nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale. Quello che segue è il grafico, allegato allo studio, che illustra la forbice tra nascite e decessi, in perenne divaricazione dall'inizio della crisi.

Un saldo complessivo che riesce a sostenersi (per sole 2000 unità) esclusivamente grazie al contributo degli immigrati, e sul quale pesano però negativamente le cancellazioni per l'estero, ovvero i cittadini italiani e stranieri che scelgono di cercare miglior fortuna in altri paesi. Sono 136 mila, infatti, ad avere lasciato l'Italia nel 2014, e di questi circa 90 mila sono italiani, in sensibile aumento rispetto agli anni scorsi, mentre cala l'immigrazione dall'estero nel nostro paese. Nel 2014 il saldo positivo tra arrivi e partenze è stato di sole 140 mila unità.

Su queste pagine avevamo già parlato del valore economico dell'immigrazione su una popolazione inattiva che cresce più velocemente di quella attiva. I dati dell'ISTAT confermano l'analisi di Lorenzo Tondi e le conferiscono un senso di drammatica urgenza. Il tutto mentre l'Italia preferisce raccontare a se stessa la favola della buonanotte di un'invasione che non c'è, e della quale saremmo gli unici a farci carico, e si ostina a farlo anche di fronte alle immagini dei disperati che proprio in queste ore si accalcano al confine con la Francia e nelle principali stazioni ferroviarie del paese, nel tentativo di andarsene altrove.

http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/1217-un-bilancio-demografico-da-guerra-mondiale-e-le-favole-sull-immigrazione


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brumbrum
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vabbuò
allora parliamo di quella percepita, come con le temperature


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PietroGE
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Ancora un articolo, se ne vedono ormai da tutte le parti, su come dovremmo essere grati e felici dell'invasione perché il popolo autoctono ha deciso di suicidarsi. Quindi, non solo dobbiamo pagare l'invasione del proprio territorio, cosa mai vista nella storia dell'umanità, ma addirittura essere contenti.
Che poi si vada ad aggravare la situazione di disoccupazione, di sovrappopolazione di cementificazione e di spesa pubblica e debito non sembra importare a nessuno. State sereni!


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Primadellesabbie
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...Il movimento naturale della popolazione (nati meno morti) ha fatto registrare un saldo negativo di quasi 100 mila unità, che segna un picco mai raggiunto nel nostro Paese dal biennio 1917-1918 (primo conflitto mondiale). ...

Da questa osservazione si può dedurre che l'azione dei governi degli ultimi anni ci ha costretti in trincea come allora? E sempre per conto terzi.

Vuol dire che verrà esumato un disoccupato suicida o un vittima di Equitalia, rigorosamente anonimo, e la Vittima Ignota traverserà lo Stivale su un treno speciale e sarà collocato all'Altare della Patria e ogni anno un Napolitano ne farà la commemorazione?


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Noooo Napolitano noooo ti prego!!! 8)


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Primadellesabbie
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Un Napolitano, come quello di adesso ad esempio.


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Tetris1917
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Se l'immigrato sgobba con la schiena piegata 12 ore su patate/pomodori/insalata/cocomeri, ecc.. allora va bene, nulla da eccepire. Se l'immigrato chiede diritto ad avere una esistenza dignitosa, allora apriti cielo: "non siamo razzisti, è solo che sono tanti e noi non abbiamo risorse per gli italiani". Un ritornello tanto inutile e stupido, quanto deleterio per quel poco di economia che ancora resiste in Italia. Quando vedrò un leghista o un militante di qualche groppuscolo fascistoide pulire il culo a un nostro vecchio incontinente e raccogliere per 20 euro patate al sole di Foggia, allora il ritornello diventerà qualcosa di più serio. Per ora solo slogan........


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ilnatta
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PIÙ SIAMO MEGLIO STIAMO: IL VALORE ECONOMICO DELL’IMMIGRAZIONE

di Lorenzo Tondi

Anche se i paesi colpiti dalle misure di austerità hanno assistito ad una crescita dell'ostilità nei confronti degli immigrati, nel lungo periodo dovremo imparare a riconoscere l'apporto decisivo dell'immigrazione per invertire una tendenza demografica che condannerebbe l'Europa al declino.

Negli ultimi anni l'immigrazione è diventata sempre più centrale nel dibattito pubblico in molti paesi europei: in risposta alla crisi finanziaria l'Unione Europea ha costretto alcuni stati membri a perseguire una politica fiscale restrittiva ed un programma di riforme strutturali volte a recuperare la competitività dei loro sistemi economici. Queste riforme hanno avuto un forte effetto pro-ciclico, gettando il continente in una recessione di cui non riusciamo ad intravedere la fine: i paesi colpiti dalle misure di austerità hanno assistito ad una crescita imponente della xenofobia e dell'ostilità nei confronti degli immigrati. La conseguenza principale di questo fenomeno è che l'idea di una politica migratoria comune risulta, ora più che mai, politicamente irrealizzabile: l'unica posizione comune degli Stati europei in materia è la concezione secondo cui l'immigrazione è un problema di ordine pubblico piuttosto che un'opportunità economica. La creazione e il rafforzamento di Frontex, l'agenzia europea che si occupa del coordinamento della vigilanza frontaliera nell'Unione, è una logica conseguenza di questa politica.

Chiunque si interessi minimamente di politica conosce la massima secondo cui "la democrazia è il peggior sistema di governo, fatta eccezione per tutti gli altri". Uno dei problemi endemici di ogni sistema democratico è il conflitto tra interesse pubblico di lungo periodo e consenso politico di breve periodo: spesso la politica più efficace ed intelligente non è applicabile perché è difficile "venderla" agli elettori. La politica migratoria è uno dei settori in cui oggi dobbiamo fare i conti con questo problema: nessuno vuole adottare una politica comune nonostante possa produrre benefici enormi per il futuro dell'Unione. Quest'articolo vuole cercare di fare un po' di luce sull'argomento e se possibile convincervi di un fatto molto semplice: se vogliamo arrestare il declino politico, economico e sociale del nostro continente dobbiamo accogliere molti più immigrati e dobbiamo farlo in fretta.

Il primo motivo per essere a favore di una politica migratoria comune è, se vogliamo, metodologico. Chiunque sia interessato a rafforzare il processo di integrazione europeo e a raggiungere l'obbiettivo finale di un'Europa federale deve confrontarsi con una semplice realtà: il controllo delle frontiere e l'ultima parola su chi può immigrare e chi no sono due elementi fondamentali dell'insieme di poteri che vanno a definire quella che noi chiamiamo sovranità statale. Non può esserci alcuna federazione senza una politica estera e di difesa federale: un soggetto politico è credibile solo se può costringere gli altri agenti a rispettare le proprie decisioni, e questo risultato può essere garantito soltanto attraverso il controllo delle forze armate e della polizia, vale a dire attraverso il monopolio legittimo della forza nel territorio dello Stato e sui suoi confini.

L'immigrazione è un'opportunità per l'Europa piuttosto che una minaccia. Spesso le destre raccontano la storia degli immigrati che "rubano il lavoro": secondo l'OCSE, però, negli ultimi 10 anni gli immigrati hanno costituito il 24% dei nuovi posti di lavoro nei settori europei in declino. Più spesso di quanto siamo abituati a pensare, gli immigrati accettano occupazioni che gli europei non vogliono più, in genere a causa della cattiva reputazione sociale che li accompagna.

In secondo luogo, gli immigrati sono fondamentali perché ci aiutano a rallentare il calo della popolazione. Le dinamiche demografiche possono variare molto a seconda dell'area geografica che consideriamo, ma possiamo facilmente definire una legge generale secondo cui i paesi in via di sviluppo hanno una popolazione più giovane e più in crescita dei paesi sviluppati. Il fenomeno può essere spiegato da diversi fattori: migliori condizioni di vita nei paesi ricchi hanno come conseguenza un'aspettativa di vita più alta, dunque una percentuale più alta di persone anziane. Nei paesi in via di sviluppo, quando le condizioni economiche migliorano e le convenzioni relative al ruolo della donna cambiano, il tasso totale di fertilità tende ad abbassarsi.

Il tasso totale di fertilità non è altro che il numero di bambini per ogni donna: è una misura un po' rozza ma efficace per definire se la popolazione naturale (cioè la popolazione che è nata nel territorio dello stato) sta crescendo o no: possiamo concludere che la popolazione naturale cresce se questo tasso è sopra il cosiddetto livello di sostituzione di 2. L'intuizione è molto semplice: se ogni donna in media partorisse 2 bambini, avremmo 2 bambini per ogni coppia, dunque la popolazione rimarrebbe stabile. Come mostra il grafico, nell'Unione Europea il tasso di fertilità negli ultimi 10 anni è sempre rimasto al di sotto di questa soglia: questo, in parole povere, vuol dire che nel lungo periodo l'Europa perderà popolazione in termini assoluti, se non teniamo in considerazione l'immigrazione.

Perché questo dovrebbe essere un problema? Una popolazione decrescente nuoce all'economia perché le società moderne hanno raggiunto un livello di complessità tale per cui diversi servizi pubblici richiedono risorse enormi per funzionare in maniera fluida: solo una popolazione numerosa ed in crescita e soprattutto un'alta densità di popolazione permette a questi servizi di essere economicamente sostenibili. Pensiamo per un attimo ai treni ad alta velocità: sono veicoli che necessitano di infrastrutture estremamente costose e che vengano sottoposte a manutenzione continua, dunque hanno bisogno di tanti clienti. Se operano al di sotto di una certa frazione della loro "capacità produttiva" non saranno più profittevoli. Se tenete alla salute della stampa, il tradizionale cane da guardia delle nostre società, sapete anche che ha bisogno di lettori. Lasciando da parte la crisi della stampa, che ha le sue lontane radici nell'avvento della televisione, è evidente che ceteris paribus, cioè a parità di altre condizioni, una popolazione maggiore permette l'esistenza di giornali più letti, quindi più potenti ed autorevoli. La stampa anglosassone è in salute perché ha un mercato potenziale enorme, di miliardi di persone: una popolazione in crescita potrebbe aiutare la stampa europea a contrastare gli effetti negativi del cambiamento tecnologico.

Non abbiamo soltanto bisogno che la popolazione cresca, ma anche che sia più giovane: purtroppo, l'età mediana della popolazione dell'Unione continua ad aumentare. Da 39.2 anni nel 2004 siamo passati ai 41.9 del 2013. In Italia il problema è ancora più grave: nel 2004 vantavamo un'età mediana di 41.3 anni, nel 2013 abbiamo superato i 44 anni: i nostri concittadini stanno invecchiando in fretta e questo ha diverse conseguenze, tutte piuttosto spiacevoli.

Come mostrato dal grafico, la popolazione dell'Unione Europea di età superiore ai 65 anni era il 16% del totale nel 2002 e il 18.2% nel 2012: se non riusciamo ad arrestare questo fenomeno, la popolazione inattiva crescerà più velocemente di quella attiva. Tutto questo in realtà sta già avvenendo da almeno 10 anni, come un altro grafico dimostra: il rapporto tra popolazione inattiva e popolazione attiva continua a crescere. Questo vuole dire che le persone che rice
vono la pensione sono sempre di più, mentre quelle che versano i contributi che servono a pagare le pensioni sono sempre di meno. Un fenomeno del genere può minacciare seriamente la sostenibilità dei nostri sistemi pensionistici: il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo, è bene precisarlo, non ci mette al riparo dal pericolo. Quasi tutti i sistemi pensionistici europei sono prevalentemente pubblici: lo Stato preleva ai lavoratori una quota del loro stipendio e la utilizza per finanziare i versamenti a chi è già in pensione. Se la popolazione attiva continua a diminuire, le scelte sono due: o si aumenta l'aliquota contributiva sullo stipendio di chi lavora o si diminuisce il montante, cioè la percentuale degli ultimi stipendi che per ogni lavoratore è la somma cui mensilmente ha diritto una volta andato in pensione. È evidente che modificare il montante in maniera discrezionale esporrebbe il legislatore ad una valanga di ricorsi: di conseguenza l'unica via possibile sarebbe aumentare ancora la tassazione sui lavoratori. Uno scenario che potremmo definire poco opportuno, per usare un eufemismo.

Tutto quello che abbiamo detto finora non è soltanto un esercizio intellettuale, ma dovrebbe avere implicazioni pratiche rilevanti: la nostra popolazione naturale sta calando o rimane costante nella migliore delle ipotesi; cresce leggermente soltanto grazie al contributo dell'immigrazione, che peraltro non sembra essere sufficiente ad arrestare l'invecchiamento della popolazione. In altri paesi, come in Canada, è in corso da diversi anni un dibattito sull'opportunità di rivedere le leggi sull'immigrazione in senso più tollerante: la riforma annunciata da Obama ha dato il via ad un intenso dibattito pubblico.

È evidente che cambiare la politica migratoria europea significa anche cambiare il modo in cui concepiamo l'intervento dello Stato nell'economia: in particolare, se decidiamo di costruire un futuro di crescita demografica per l'Europa dobbiamo essere pronti ad riservare alla sfera pubblica un ruolo più importante di quello che riveste ora. Per integrare gli immigrati nel sistema economico e sociale avremo bisogno di più insegnanti, di più scuole, di più ospedali e di servizi pubblici più efficienti e capillari. La via francese dell'integrazione formale che passa per la lingua ma si scontra con l'emarginazione drammatica delle banlieues si è dimostrata fragile come quella multiculturale inglese: lo scenario è inquietante, perché né l'Unione Europea né gli Stati membri sembrano essere dotati della visione politica, del coraggio e dei mezzi necessari a sostenere uno sforzo progettuale simile. Eppure, nonostante tutte le difficoltà che le caratterizzano, una nuova politica migratoria e una strategia comunitaria di integrazione sono gli strumenti principali di cui disponiamo per frenare il nostro declino relativo ai paesi in via di sviluppo e per cercare di conservare il nostro status geopolitico e il nostro benessere economico.

http://stradeonline.it/innovazione-e-mercato/1022-piu-siamo-meglio-stiamo-il-valore-economico-dell-immigrazione


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[quote="Tetris1917"]Se l'immigrato sgobba con la schiena piegata 12 ore su patate/pomodori/insalata/cocomeri, ecc.. allora va bene, nulla da eccepire. Se l'immigrato chiede diritto ad avere una esistenza dignitosa, allora apriti cielo: "non siamo razzisti, è solo che sono tanti e noi non abbiamo risorse per gli italiani".

Vero, ma anche vero che questi sono in mano alla criminalità organizzata e i vari caporalati, prima questi lavori li facevano gli italiani per qualche lira in più, lo so bene perché ho degli amici che l'hanno fatto.
Questo è solo una parte del problema.


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PIÙ SIAMO MEGLIO STIAMO: IL VALORE ECONOMICO DELL’IMMIGRAZIONE

di Lorenzo Tondi

Beh, non per niente Tondi è iscritto al PD. Da come scrive deve essere parente della Picierno.

Population Growth: the More, the Better?

We saw in Chapter 8 that in the Third World a rapid increase in population had already begun during the period of colonization. In some countries this happened as early as the mid-nineteenth century, but for the whole of the Third World it did not start until the 1930s. Let us recall the main data. If between 1880 and 1913 the population increased by an annual rate of 0.5%, for the 1913-29 period it was already 0.7-0.8%, reaching 1.1-1.2% between 1929 and 1938 and 1.2% for the 1938-1950 period.

A population growth without precedent

From 1938 to 1950 onwards the rate of growth began to increase rapidly: 2.1% in the 1950s and 2.5% in the 1960s. Due to a significant slow down in China, the rate of growth for the whole of the Third World declined thereafter: 2.3% for the 1970s and 2.1% for the 1980s. Even if we take the entire 40-year period between 1950 and 1990, we are faced with an annual growth rate of 2.24%, which means a doubling of the population over a period of 31 years. If we exclude China from the rest of the Third World, the annual increase in the Third World market economies has been 2.44% during the same 40-year period, which means doubling every 29 years. For Africa the rate reached 2.7% (doubling every 26 years) and for some countries it was above 3%: Iraq, Jordan and Tanzania (3.2%); Syria (3.3%), Libya and Zimbabwe (3.7%). Also, 3.7% per year means doubling every 19 years, multiplying by 10 in 63 years and by 38 in 100 years.

Never has any large region witnessed a population increase during a 40-year period even half as rapid as the recent average for the Third World. If, to begin, we limit ourselves to the societies before the Industrial Revolution, the most rapid increase in Europe, China and India was about 0.4-0.6%. After the Industrial Revolution the 40 years of most rapid population growth for the developed countries was the 1870-1910 period, where it stood at 1.1%. But this was made possible by the largest migration in history, when between 1870 and 1913 some 33 million Europeans emigrated - most of them to North America. If we limit ourselves to Europe, the 1870-1910 annual increase was only 0.9%.

Western Europe took a century (between 1810 and 1910) to double its population; the Third World market economies took only twenty-eight to twenty-nine years (between 1950 and 1978/9) and while the European GNP per capita increased by 180-200% during the nineteenth century, the rise was only 60-75% in the Third World. Another, although minor, fact is that during the eighteenth century Western Europe's population increased globally by 45-55%, whereas for the Third World market economies between 1850 and 1950 the total increase had been 120-130%. All these comparisons prove the magnitude of this problem in the difficult task of Third World economic development.

A nexus of myths and a paradoxical alliance

Despite this, a nexus of myths took shape. These were largely mingled with ideological and religious dogmas, and even led to a paradoxical alliance. The first component in this nexus of myths is the wrong assumption that during the first stages of Western development, population increase was a positive factor. As we shall see later, this was not so, but even if it had been, as we just have seen, there is no comparison in the respective rates of population increase between these two cases.

Another component of the nexus of myths concerning population is that one of the major arguments for delaying population-control measures was that 'development is the best contraceptive', and the example of the West is given as a proof. The major problem in this argument is that it took almost a century in the Western world for the birth rate to counterbalance the decline in the death rate. In Western Europe the death rate had already begun to decline at the end of the eighteenth century, whereas the birth rate in most countries did not begin to fall until the 1870s and 1880s. Another argument against family planning is the belief that birth control is a disruption of traditional values, and of 'natural' population evolution. The real disruption is the rapid decrease in infant mortality due to modern technology, and birth control is only a corrective measure against this disruption.
Finally, very often there is confusion between population increase and population density. The fact that some regions are regarded, rightly or not, as low-density populated leads to the wrong conclusion that in such cases population growth has no negative aspects.

In the 1950s and 1960s a very paradoxical informal alliance was formed between the Catholic Church and the Marxists. The Bible was, and still is, the origin of the Catholic Church's opposition to birth control. For the Marxists the 'theological' opposition to birth control goes back to the bitter feud between Marx and Malthus. Western efforts to persuade less developed countries to introduce birth control were presented as an 'imperialistic plot' against the Third World. Mao Tse-tung even suggested the 'absurdity' of birth-control measures through his slogan 'a mouth more to feed means two more hands to work', forgetting, or deliberately ignoring for political reasons, that a mouth has to be fed for years before the hands can work: and that without tools, fertilizer and, above all, additional land, often hands cannot increase food production sufficiently.

One of the paradoxes is that all less developed countries that adopted Marxism, from China to Cuba, had, most of the time, stringent family-planning policies, and in fact experienced the lowest population increase. Between 1950 and 1990, China's population rose at an annual rate of 1.8% compared to 2.4% for the Asian market economies; Cuba's population increased annually by 1.5% compared to 2.5% for the rest of Latin America. The coalition between Catholics and Communists was one of the major causes of the failure of the 1974 United Nations-sponsored World Population Conference to recommend the family-planning policies in the Third World, a failure that retarded such measures in many countries.

After all, one could expect such a nexus of myths and paradoxes when we are dealing with a problem that arouses so much emotion and which entails such complex interactions. What is more emotional than dealing with expected or existing children and, even more, with grandchildren (and a grandfather is writing, who is blessed by great joy provided by 6-year-old Alice, 3-year-old Jonas and a newly born Colin). Complex interactions . . . yes indeed, the problems of relations between population growth and economic growth are very complex.

Population growth and economic growth: a complex problem

Some years ago I was asked to prepare a report on 'Population growth and long-term international economic growth' for the International Population Conference in Manila, 1981 (organized by the International <b>Union </b> for the Scientific Study of Population). In the introduction, I wrote the following:

“Population growth and economic growth, what a wide and marvellous problem; but what a difficult one also. Marvellous and frightening at the same time, for it involves two of the most important aspects of human evolution for, in the last two centuries, and even more so over the last three decades, there has been an unprecedented increase in the pace of change of both of those aspects which may lead, in the case of the Third World, to dangerous food shortages. A difficult problem . . . yes, since it is obvious that the interactions of these two fundamental aspects are numerous, deep, and complex. Difficult, as it is also obvious, population growth is only one among many factors which can influence or be influenced by economic growth. It is also difficult because there are few questions which ar
e so deeply related to religious or political dogmas.”

Yet despite the wide interest in and profound implications of this problem, and probably because of its difficulty, what a United Nations report of 1973 said then is still valid today: The empirical and comparative study of the interrelation between population and economic growth remains one of the least explained areas in the field of demographic economic interrelation.

Statistical analysis of growth in the populations of individual developed countries and economic growth during the last two centuries does not provide any indication that periods of accelerating population growth lead to more rapid economic growth. Whatever the relation between these two factors, it is not a very strong one. If one takes into account the quality of the data, to the very limited extent that a statistically valid conclusion can be reached, it shows a negative relation between population and growth. The results are similar if, instead of a chronological, a cross-spatial analysis is performed. Here too it appears that it is rather the countries with a slower population growth that achieved the better economic performance. More rapid population growth was rather negative, especially when the rate of growth exceeded 1% per year.

The constraints of rapid population growth

One of the most negative results of too rapid a population growth lies in the great difficulty for an economy to absorb the numerous newcomers into its workforce. In the Third World market economies around 1960 we had the following parameters. An annual increase in the workforce of 2.4%; a workforce distribution where 77% were employed in agriculture, 10% in industry and 13% in services. In such a situation, in order to absorb the surplus agricultural labour, it implied that employment in the other sectors should be increased by an annual 8.0%, which is impossible. In Europe, around 1800, when the share of the agricultural workforce was close to that of the Third World in 1960, the comparable percentage increase was below 2% per year.

In the Third World this situation did not allow the rest of the economy to absorb the agricultural labour surplus. Therefore, we saw a continuous increase in the agricultural workforce which exacerbated an already negative situation in the land/workforce ratio. Since in most regions land suitable for agriculture was already in use by the mid-nineteenth century, the situation in the mid-twentieth was even more negative. Around 1950 in the Third World market economies there were only 2.4 hectares of agricultural land2 per agricultural worker. In Europe, around 1910, which was the historical low point, this figure was 3.6 hectares. At the same time, it was 14.6 hectares in the United States and 5.1 hectares for the whole of the developed countries. Around 1990, for the Third World economies this ratio had fallen to below 1.8 hectares, and in some large Asian countries even below 1.0 hectare (Bangladesh, 0.4 hectare).

Even if we take into consideration the fact that, because there are two crops a year in most rice-producing countries, yields are higher than they were in Europe in the nineteenth century, and that thanks to the green revolution important progresses were made, this still implies low cereal production capacity. In Asia, where three-quarters of the Third World's population are concentrated, the average yield per hectare for all the cereals combined is now close to 2,600 kg compared to 950 kg for Europe around 1850. But, on average, each European farmer then had four or five times more land. This explains the low agricultural productivity in the Third World, which, in turn, is one of the factors that has led to the rapid increase in cereal imports (see Chapter 9). But, in addition to this important negative constraint of population growth, others are also present. Let us give a brief overview of these.

The first, and the most obvious, is the need for a high rate of investment in order to absorb the population increase. According to the best estimate of the capital output ratio, 4-5% of GNP must be invested in the Third World in order to obtain a 1% growth in the economy. This implies that to compensate for the 2.4% population increase, some 10-12% of GNP needs to be invested. Such an investment ratio was reached in Europe only after more than half of a century of development, at a time when its population increase was only a third of that of the Third World today, and, what is even more important, when per capita income was higher.
A high rate of population increase implies an even more rapid rise in school-age populations. This, in turn, implies the necessity for a very rapid expansion in school facilities in both physical and human terms, and both are not easy. Training a large number of teachers is not an easy task. Rapid population growth also implies very large families, which entails negative consequences for both parents and children.

To what extent are these constraints modified in less densely populated countries? The only difference, and it is not a marginal one, lies in the availability of agricultural land. This, for example, enabled Latin America to increase the amount of land per agricultural worker despite an increase in their number. Even if some poorer land had to be used for cultivation, this enabled Latin America to increase its agricultural productivity much more rapidly than the rest of the Third World.

This, however, was not enough to counterbalance the other negative constraints of too rapid a population increase, especially since Latin America's agriculture was less dominant globally. The economic performance of this region has been much worse than that of the rest of the Third World. In Latin America, GNP per capita exceeded that of the rest of the Third World market economies by 170% by 1950, but this figure was reduced to 100% 40 years later. Without giving too much significance to this, it is worth noting that if we rank the major regions by their rate of population growth in the last 40 years, this ranking is exactly the inverse of that of per capita GNP growth.

Finally, and this is far from being a minor aspect, rapid population growth is one of the major causes of Third World urban expansion, which is unprecedented in both its scale and modalities.

Its scale . . . Between 1950 and 1990 the number of people living in the Third World cities rose from 0.26 billion to 1.45 billion. This implies a rate of growth more than twice as fast as that in Europe during its greatest period of urbanization. The absolute increase during this period, close to 1.2 billion city dwellers, represents a number twice as high as the total world urban population in 1950.

Its modalities . . . This urban expansion took place virtually without economic development and led to a concentration of populations in very large cities. Furthermore, living conditions in those cities are deplorable, especially as far as housing is concerned, not to speak of services such as basic health care, water and sewage. There has been a proliferation of shantytowns whose population in 1980 represented 40-45% of urban inhabitants in the Third World economies. Worse still is the fact that practically all the qualities that made Western cities in the nineteenth century (and in traditional societies in general) a factor in their countries' economic development do not play a similar role in the Third World. Globally, today in the Third World, urbanization is more a burden than an asset.
Undoubtedly awareness of the reality of the constraints imposed by rapid population growth has increased. The number of countries in the Third World supporting family-planning programmes rose from two in the mid-1950s to eight in the mid-1960s, to 33 in 1970 and to 113 in 1988, and the 1980s were characterized by a slowing in the rate of population increase.

All this does not imply that the measures have been stri
ct enough (except for China) and that therefore the rapid population growth will disappear in the near future. According to United Nations projections (medium variant) published in 1991, the Third World market economies' population will rise from 2.8 billion in 1990 to 5.4 billion in 2025. This means that by then, compared to the mid-eighteenth century, when this region was already largely populated, the level of population will have multiplied by 15 (for the developed countries, by seven). Furthermore, this does not imply either that the myth that population growth does not have negative aspects has disappeared, especially in the lower densely populated regions. Therefore it is crucial to take into consideration the fact that population growth was never an asset, and is in every situation a great constraint. Even if a rapid population increase had no negative economic consequences, it still leads to a reduction in one of the most prized assets: space, and this is more than a sufficient reason for an international effort to reduce population growth.

P.s.: E questo ha pure studiato economia (diplomino), unbelievable!


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