A Ernesto Guevara è toccata l'icona di "Chesucristo". Al più concreto Fidel Castro è invece toccato il potere, poi il declino nella malattia, ma fin da giovane garantiva: «La storia mi assolverà». Da vecchio, Giuliano Montaldo condivide al punto di aver presentato all'ultima Mostra di Venezia un documentario, L'oro di Cuba, dove l'oro è l'eredità morale di Fidel Castro: senza neppure perifrasi musicali, il regista ha emulato senza inventiva il Wenders di Buena Vista Social Club per narrare un'Arcadia socialista e caraibica, solo posto - con la Corea del Nord - dove il comunismo non sia retaggio di ieri.
Un diplomatico realista prestato al giornalismo o un giornalista di lungo corso e lunghi viaggi non si fanno certo incantare dai documentari. Ma entrambi concorderebbero con l'autoassoluzione di Castro: chi supera mezzo secolo di embargo degli Stati Uniti d'America, pur governando a solo un'ora di volo da Miami, deve avere le qualità di uno statista. Un teorico marxista noterebbe invece che Cuba è ancora allo stadio della dittatura del proletariato e che la società senza classi è di là da venire. Facile ribattere: «Così lontana da Dio e così vicina all'America, Cuba ha avuto più sovranità dell'Argentina e del Brasile». Ma, a culminare nella sovranità nazionale, è la democrazia borghese; quella proletaria, almeno in teoria, vuole più forgiare società nuove che far rispettare frontiere antiche. Prevalgano meriti o demeriti di Castro, molti cubani in ogni caso hanno scelto l'esilio. Cubano della diaspora in Spagna, Ivàn de la Nuez firma, con intenzioni opposte a quelle di Montaldo, il libro Fantasia rossa (edizioni Castelvecchi, pp. 158, euro 15,00), che in Italia trova il sottotitolo: Come gli intellettuali hanno inventato il mito di Cuba. Ma gli intellettuali - quelli impegnati almeno - non inventano: echeggiano solamente. Per la sinistra e l'estrema sinistra il caso di Cuba è quasi unico. C'è stato anche il mito del Vietnam del Nord, ma è durato quanto la guerra con gli Usa. Per la destra e l'estrema destra, meno suggestionabili, non c'è stato nulla di simile. Ma si poteva mitizzare regimi che demobilitavano, non mobilitavano i popoli, come quello della Spagna di Franco, del Portogallo di Salazar, della Grecia di Papadopoulos, del Cile di Pinochet, del Sudafrica di Verwoerd, della Rhodesia di Ian Smith?
Né destra, né sinistra, il primo neofascismo ebbe invece come mito l'Argentina di Evita Peròn. Il ventenne Guevara la disprezzava, ma gli bastò passare la frontiera - come mostra il film Diari della motocicletta del brasiliano Walter Salles - per capire che la realtà circostante era ben peggiore. Così nel 1952 il medico progressista Ernesto Guevara pianse la morte di Evita (si veda il film Evita di Alan Parker e sceneggiato da Oliver Stone, insieme allo stesso Parker, del 1996), per poi mantenere, da Cuba, rapporti epistolari col generale Juan Domingo Peròn, ormai esule a Madrid. Il mito di Cuba in realtà ha elementi comuni col mito fascista. Régis Debray ricorda in Loués soient nos seigneurs (Gallimard) Castro, che dal podio dell'Avana scandiva: «Venceremos!». Alberto Moravia era lì e mormorava fra l'esterrefatto e l'affascinato: «Ma è come il Duce!». Dettaglio sfuggito a Ivàn de la Nuez, sebbene citi questo libro nella sua compilazione. Il patriottismo guerr(igl)iero di Castro non parve epidermico al francese Maurice Bardèche e al belga Jean Thiriart, che apprezzavano la Cuba castrista più di quella di Fulgencio Batista. Che scappò con la cassa, non morì con dignità, come fecero invece lo stesso Che Guevara e, sei anni dopo, Salvador Allende. Anche limitandosi alla Spagna antifascista del dopo-Franco, dove Ivàn de la Nuez è cresciuto, egli potrebbe constatare affinità di temperamento più forti delle barriere ideologiche. Prima di passare fra gli esuli antifranchisti a Parigi, Dionisio Ridruejo era falangista, anzi della Falange aveva scritto l'inno, Cara al sol: «Faccia al sole / con la camicia nuova / che tu ricamasti ieri di rosso / mi troverà la morte, se viene / e non ti vedrò più». Sole e morte sono evocati anche - è una coincidenza? - in Hasta siempre di Carlos Puebla: «Abbiamo imparato ad amarti da quella storica altezza / in cui il sole del tuo coraggio pose assedio alla morte. / Qui rimane la chiara / appassionata trasparenza della tua cara presenza / Comandante Che Guevara». Poi ci sono le immagini dal vero. Sono legione i filmati televisivi, anche prima del lavoro di Montaldo, dove Hasta siempre accompagna il bianco e nero di un cadavere su un lavatoio boliviano, così simile al "Cristo deposto" del Mantegna. «Che cosa resta del fiero sguardo in avanti del Che della celebre foto di Korda?», pare chiedersi il giovane e scettico collaboratore del Paìs Ivàn de la Nuez. Sì, sul lavatoio boliviano lo sguardo del Che è ormai vitreo. Ma non aveva intimato a sé stesso, soprattutto, «Patria o morte!» dalla tribuna globalizzata delle Nazioni Unite?
Si spiega così l'inspiegabile: che dalla Fantasia rossa, che Ivàn de la Nuez coglie soprattutto nei suoi lati modaioli, il morto Che Guevara esca immortale. Che viva e lotti "insieme a noi", nessuno da tempo lo scrive più sui muri. È solo un ricordo il severo rivoluzionario, che s'immolò per Fidel Castro solo per non essere immolato da Castro. Ma Che Guevara celava in sé l'involontario hidalgo, l'inconsapevole highlander argentino di ceppo irlandese, visto che il suo nome completo era Ernesto Guevara Lynch. La fantasia rossa non l'ha capito; i detrattori della fantasia rossa nemmeno. Meglio così.
Maurizio Cabona
Fonte: http://www.secoloditalia.it/publisher/In%20Edicola/section/
7.11.2009