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Breve storia dell'idea di "progresso"

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Il progresso può definirsi come un processo che accumula tappe, la più recente delle quali è sempre giudicata preferibile e migliore, ossia qualitativamente superiore a quella che l’ha preceduta. Questa definizione comprende un elemento descrittivo (un cambiamento interviene in una direzione data) e un elemento assiologico (questa progressione è interpretata come un miglioramento). Si tratta dunque di un cambiamento orientato, e orientato verso il meglio, al contempo necessario (non si ferma il progresso) e irreversibile (non c’è globalmente un ritorno indietro possibile). Essendo il miglioramento ineluttabile, se ne deduce che domani sarà sempre migliore.
I teorici del progresso si dividono sulla direzione del progresso, il ritmo e la natura dei cambiamenti che lo accompagnano, eventualmente i suoi attori principali. Nondimeno, tutti aderiscono a tre idee-chiave: 1) Una concezione lineare del tempo e l’idea che la storia ha un senso, orientato verso il futuro. 2) L’idea dell’unità fondamentale dell’umanità, chiamata nella sua totalità a evolvere nella stessa direzione. 3) L’idea che il mondo può e deve essere trasformato, il che implica che l’uomo si afferma come sovrano padrone della natura.
Queste tre idee provengono in origine dal cristianesimo. A partire dal XVII secolo, lo sviluppo delle scienze e delle tecniche comporta la loro riformulazione in un’ottica secolarizzata.
Presso i greci, solo l’eternità è reale. L’essere autentico è immutabile: il movimento circolare che assicura l’eterno ritorno del medesimo in una serie di cicli successivi è l’espressione più perfetta del divino. Se c’è salita e discesa, progresso e declino, è all’interno di un ciclo al quale non può che succederne un altro (teoria della successione delle età in Esiodo, del ritorno dell’età dell’oro in Virgilio). D’altra parte, la determinazione maggiore viene dal passato, non dal futuro: il termine archè rinvia anzitutto all’origine (“arcaico”) in quanto autorità (“arconte”, “monarca”).
Con la Bibbia, la storia diventa un fenomeno oggettivabile, una dinamica di progresso che mira, in una prospettiva messianica, all’avvento di un mondo migliore. La Genesi assegna all’uomo la missione di “dominare la Terra”. La temporalità è il vettore grazie al quale il meglio è chiamato a rivelarsi progressivamente nel mondo. Di conseguenza, l’evento diventa salvatore: Dio si rivela storicamente. La temporalità è inoltre orientata verso il futuro, dalla Creazione alla Parusia, dal Giardino dell’Eden al Giudizio universale. L’età dell’oro non è più nel passato, ma alla fine dei tempi: la storia finirà, e finirà bene, almeno per gli eletti.
Questa temporalità lineare esclude ogni eterno ritorno, ogni concezione ciclica della storia, a immagine dell’alternanza delle età e delle stagioni. Da Adamo ed Eva, la storia della salvezza si svolge secondo una necessità stabilita da tempo immemorabile, cammina con l’Antica Alleanza e, nel cristianesimo, culmina in una Incarnazione che non può ripetersi. Sant’Agostino sarà il primo a trarre da questa concezione una filosofia della storia universale inglobante tutta l’umanità chiamata a progredire di età in età verso il meglio.
La teoria del progresso secolarizza questa concezione lineare della storia, da dove derivano tutti gli storicismi moderni. La differenza maggiore è che l’al di là è ripiegato sull’avvenire, e che la felicità sostituisce la salvezza. Nel cristianesimo, il progresso resta infatti escatologico più che storico in senso proprio. L’uomo deve cercare di costruire la sua salvezza quaggiù, ma in vista dell’altro mondo. Egli non ha, d’altra parte, il dominio del piano divino. Infine, il cristianesimo condanna il desiderio insaziabile e afferma, come lo stoicismo, che la saggezza morale risiede nella limitazione più che nella moltiplicazione dei desideri. Solo la corrente millenarista, che si ispirava all’Apocalisse, fa precedere il Giudizio universale da mille anni di regno terreno. Secolarizzando la visione di Agostino, ispirerà la posterità spirituale di Gioacchino da Fiore.
Per pervenire alla sua formulazione moderna, la teoria del progresso aveva dunque bisogno di elementi supplementari, che appaiono a partire dal Rinascimento, e sbocciano a partire dal XVII secolo.
Lo sviluppo delle scienze e delle tecniche, aggiunto alla scoperta del Nuovo Mondo, nutre allora l’ottimismo sembrando aprire il campo di un’infinità di possibili miglioramenti. Francesco Bacone, che è il primo a utilizzare la parola progress in un senso temporale e non più spaziale, afferma che il ruolo dell’uomo è di dominare la natura conoscendo le sue leggi. Cartesio propone ugualmente agli uomini di diventare padroni e possessori della natura. Questa, scritta per Galilei “in linguaggio matematico”, diventa allora muta e inanimata. Il cosmo non è più portatore di senso di per se stesso. Non è altro che una meccanica che bisogna smontare per conoscerla e strumentalizzarla. Il mondo diventa puro oggetto dell’uomo-soggetto. L’uomo sperimenta la convinzione che, grazie alla ragione, può affidarsi solo a se stesso.
Il cosmo degli Antichi cede così il posto a un mondo nuovo, geometrico, omogeneo e infinito, governato da leggi di causa-effetto. Il modello che vi si applica è un modello meccanico, più particolarmente quello dell’orologio. Il tempo steso diventa omogeneo, misurabile: è il “tempo dei mercanti” che sostituisce il “tempo dei contadini” (Jacques Le Goff). La mentalità tecnica sorge da questo nuovo spirito scientifico. La tecnica ha l’obiettivo principale di accumulare cose utili, ossia di aiutare a produrle.
C’è un’evidente convergenza tra questo ottimismo scientifico e le aspirazioni di una classe borghese sul punto di imporsi su mercati nazionali la cui creazione è andata di pari passo con quella dei regni territoriali. La mentalità borghese tende a considerare come valide, o addirittura come reali, le sole quantità calcolabili, ossia i valori mercantili. Georges Sorel vedrà più tardi nella teoria del progresso una “dottrina borghese”.
Nel XVIII secolo, gli economisti classici (Adam Smith, Bernard Mandeville, David Hume) riabilitano dal canto loro il desiderio insaziabile: i bisogni dell’uomo, secondo loro, sono sempre suscettibili di essere aumentati. È dunque nella natura stessa dell’uomo volere sempre di più e agire di conseguenza, cercando costantemente di massimizzare il suo miglior interesse. Unita all’ottimismo ambientale, questa argomentazione tende a relativizzare o a cancellare nelle menti la tematica del peccato originale.
Con una particolare insistenza, si sottolinea il carattere cumulabile del sapere scientifico. La conclusione che se ne trae è il carattere necessario del progresso: se ne saprà sempre di più, dunque tutto andrà sempre meglio. Essendo un buon ingegno “composto da tutti quelli che l’hanno preceduto”, se ne deduce la costante superiorità dei Moderni: “Siamo nani collocati su spalle di giganti”, dice Bernardo di Chiaravalle, ripreso da Fontenelle. Dunque non c’è più un’autorità degli Antichi. La tradizione è al contrario percepita come un naturale ostacolo alla marcia in avanti della ragione. Il confronto fra presente e passato, sempre a vantaggio del primo, permette nello stesso tempo di svelare il movimento dell’avvenire. Il movimento comparativo diventa così predittivo: il progresso, posto in un primo tempo come il risultato dell’evoluzione, si instaura come il principio di questa evoluzione.
Un’altra idea, già formulata da Sant’Agostino, è quella di un’umanità concepita come un organismo unitario, che avrebbe progressivamente lasciato l’infanzia delle “prime epoche” per entrare nell’“età adulta”. Turgot parla così del “genere umano, considerato dalla sua origine… che appare agli occhi del filosofo un tutto immenso che ha, come ogni individuo, la sua infanzia e i suoi prog
ressi”. Il meccanicismo cede qui il posto alla metafora organicista, ma si tratta di un organicismo paradossale, poiché non vi sono considerati né l’invecchiamento, né la morte. Questa idea di un organismo collettivo che diventa perpetuamente “più adulto” farà nascere l’idea contemporanea dello “sviluppo” compreso come crescita indefinita. Nel XVIII secolo, essa incoraggia un certo disprezzo dell’infanzia, che procede di pari passo con il disprezzo delle origini e degli inizi, sempre guardati come inferiori.
La nozione di progresso implica ancora l’idolatria del novum: ogni novità è a priori migliore per il solo fatto che è nuova. Questa sete di nuovo, sistematicamente considerato sinonimo di migliore, diventerà rapidamente una delle ossessioni della modernità. In ambito artistico, essa sfocerà nella nozione di “avanguardia” (che ha anche in politica le sue contropartite).
La teoria del progresso possiede ormai tutte le sue componenti. Turgot, nel 1750, e poi Condorcet, la esprimono sotto forma di convinzione: “La massa totale del genere umano marcia verso una sempre più grande perfezione”. La storia dell’umanità è così percepita come definitivamente unitaria. Ciò che si conserva del cristianesimo, è l’idea di una futura perfezione dell’umanità e la certezza che l’umanità si dirige verso un fine unico. Ciò che è abbandonato, è il ruolo della Provvidenza, sostituita dalla ragione umana. L’universalismo si fonda d’ora in poi su una ragione “una e intera in ciascuno” debordante tutti i contesti, eccedente tutte le particolarità.
Parallelamente, l’uomo è posto non soltanto come un essere di desideri e bisogni continuamente rinnovati, ma anche come un essere indefinitamente perfettibile. Una nuova antropologia ne fa alla nascita una tavola rasa, una cera vergine, oppure gli attribuisce una “natura” astratta, interamente dissociata dalla sua esistenza concreta. La diversità umana, individuale o collettiva, è vista come contingente e indefinitamente trasformabile attraverso l’educazione e l’“ambiente”. La nozione di artificio diventa centrale e sinonimo di cultura raffinata. Si presume che l’uomo realizzi la sua umanità solo opponendosi a una natura da cui gli è necessario affrancarsi per “civilizzarsi”.
L’umanità deve allora affrancarsi da tutto ciò che potrebbe intralciare l’irresistibile marcia in avanti del progresso: i “pregiudizi”, le “superstizioni”, il “peso del passato”. Indirettamente, qui si rasenta la giustificazione del Terrore: se l’umanità ha come fine necessario il progresso, chiunque ostacoli il progresso può a buon diritto essere soppresso; chiunque si opponga al progresso dell’umanità può a buon diritto essere posto fuori dell’umanità e considerato “nemico del genere umano” (di qui la difficoltà di riconciliare le due affermazioni kantiane dell’uguale dignità degli uomini e del progresso dell’umanità).
Questo atteggiamento di rigetto della “natura” e del “passato” è frequentemente rappresentato come sinonimo di un affrancamento da ogni determinismo. In realtà, la determinazione mediante il passato è sostituita dalla determinazione mediante l’avvenire: è il “senso della storia”.
L’ottimismo inerente alla teoria del progresso si estende rapidamente a tutti gli ambiti, alla società e all’uomo. Si presume che il regno della ragione sfoci in una società al contempo trasparente e pacificata. Ritenuto vantaggioso per tutte le parti, il “dolce commercio” (Montesquieu) è chiamato a sostituire lo scambio mercantile al conflitto, le cui cause “irrazionali” saranno progressivamente eliminate. L’abate di Saint-Pierre enuncia così un “progetto di pace perpetua” che Rousseau criticherà duramente.
Condorcet propone di perfezionare razionalmente la lingua e l’ortografia. La stessa morale deve presentare i caratteri di una scienza. L’educazione tende ad abituare i bambini a sbarazzarsi del “pregiudizi”, fonte di ogni male sociale, e a far uso della loro sola ragione.
La marcia dell’umanità verso la felicità è così interpretata come il completamento della felicità morale. Per gli uomini dell’Illuminismo, dato che l’uomo agirà in futuro in modo sempre più “illuminato”, la ragione si perfezionerà e l’umanità diverrà moralmente migliore. Il progresso, lungi dall’interessare solo il quadro esteriore dell’esistenza, trasformerà dunque l’uomo stesso. Un progresso acquisito in un ambito si ripercuoterà necessariamente in tutti gli altri. Il progresso materiale causa il progresso morale.
Sul piano politico, la teoria del progresso è associata molto presto a un animus antipolitico. Lo sguardo posato sullo Stato dai teorici del progresso è tuttavia ambiguo. Da un lato, lo Stato imbriglia l’autonomia dell’economia, guardata come la sfera della “libertà” e dell’azione razionale per eccellenza: William Godwin dice che i governi creano per natura ostacoli alla naturale propensione dell’uomo ad andare avanti. Dall’altro, permette all’uomo, nella tradizione contrattualista inaugurata da Hobbes, di sfuggire alle costrizioni proprie dello “stato di natura”. Lo Stato può dunque essere al contempo ostacolo e motore del progresso.
L’idea più comune è che la politica deve diventare razionale. L’azione politica deve cessare di essere un’arte, governata dal principio di prudenza, per divenire una scienza, governata dal principio di ragione. A immagine dell’universo, la società può essere vista come un meccanismo, di cui gli individui sono gli ingranaggi. Essa deve dunque essere gestita razionalmente, secondo principi regolari quanto quelli che si osservano in fisica. Il sovrano deve essere il fisico incaricato di far evolvere la “fisica sociale” verso “la più grande utilità pubblica”. Questa concezione ispirerà la tecnocrazia e la concezione amministrativa e gestionale della politica che si ritroverà in un Saint-Simon o un Auguste Comte.
Un problema particolarmente importante è sapere se il progresso è indefinito o se sfocia in uno stadio ultimo o terminale che sarebbe o una novità assoluta, o come la restituzione più “perfetta” di uno stato anteriore o originale: sintesi hegeliana, società senza classi che restituisce il comunismo primitivo (Marx), fine della storia (Fukuyama), etc. Nello stesso tempo, si trova posto il problema di sapere se la meta finale, qualora ce ne fosse una, può essere conosciuta in anticipo. In cosa sfocia il progresso, per quanto sfoci in qualcosa d’altro da se stesso?
I liberali tendono qui a credere in un progresso indefinito, in un miglioramento senza fine della condizione umana, mentre i socialisti gli assegnano piuttosto un fine felice ben determinato. Questo secondo atteggiamento fa confluire progressismo e utopismo: il perpetuo cambiamento sfocia nello stato stazionario, il movimento della storia è affermato solo per meglio considerarne la fine. Il primo atteggiamento non è tuttavia più realista. Da una parte, se l’uomo è in marcia verso la perfezione, quest’ultima, in quanto perfetta, dovrà pure un giorno cessare di perfezionarsi. D’altra parte, se non c’è una meta conoscibile del progresso, come si può ancora parlare di progresso, poiché il riconoscimento di una meta data permette di affermare che uno stato nuovo rappresenta, rispetto a questa meta, un progresso in rapporto allo stato precedente?
Un altro problema ugualmente importante è questo: il progresso è una forza incontrollata che interviene da sola, oppure gli uomini debbono intervenire per accelerarlo o sopprimere ciò che lo ostacola? Il progresso è d’altra parte regolare e continuo, o implica salti qualitativi bruschi e rotture? Si può accelerare il progresso intervenendo nel suo corso o si rischia, così facendo, di ritardare la sua realizzazione? Anche qui, i liberali, fautori della “mano invisibile” e del “lasciar fare”, si separano dai socialisti, più volontaristi, se non rivoluzionari.
Ne
l XIX secolo, la teoria del progresso conosce in Occidente il suo apogeo. Essa si riformula tuttavia in un clima differente, segnato dalla modernizzazione industriale, il positivismo scientista, l’evoluzionismo e l’apparizione delle grandi teorie storiciste.
L’accento è allora posto sulla scienza più che sulla ragione, nel senso filosofico del termine. Si generalizza la speranza di un’organizzazione “scientifica” dell’umanità e di un dominio di tutti i fenomeni sociali da parte della scienza. È il tema sul quale ritornano instancabilmente Fourier con il suo Falansterio, Saint-Simon, con i suoi principi tecnocratici, Auguste Comte, con il suo Catechismo positivista e la sua "religione del progresso”.
I termini di “progresso” e “civiltà” tendono contemporaneamente a diventare sinonimi. L’idea di progresso serve a legittimare la colonizzazione, che dovrebbe diffondere ovunque nel mondo i benefici della “civiltà”.
Si riformula la nozione di progresso alla luce dell’evoluzionismo darwiniano, essendo la stessa evoluzione del vivente reinterpretata come progresso (in particolare in Herbert Spencer, il quale definisce il progresso come evoluzione dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo). Le condizioni del progresso si trasformano allora sensibilmente. Il meccanicismo illuminista si coniuga d’ora in avanti con l’organicismo biologico, mentre il suo ostentato pacifismo cede spazio all’apologia della “lotta per la vita”. Il progresso risulta d’ora in poi dalla selezione dei “più adatti” (i “migliori”), in una generalizzata visione concorrenziale. Questa reinterpretazione rafforza l’imperialismo occidentale: essendo la civiltà dell’Occidente presumibilmente la più “evoluta”, essa è anche la migliore.
L’evoluzionismo sociale, che deve anch’esso tutto all’idea di progresso, arriva allora al massimo della popolarità. La storia dell’umanità è divisa in “stadi” successivi, che segnano le differenti tappe del suo “progresso”. La dispersione delle differenti culture nello spazio è ritrasposta nel tempo: le società “primitive” rimanderebbero agli occidentali l’immagine del proprio passato (sono “antenati contemporanei”), mentre l’Occidente presenterebbe loro quello del loro avvenire. Già Condorcet faceva passare l’umanità attraverso dieci tappe successive. Hegel, Auguste Comte, Karl Marx, Freud, ecc., propongono schemi analoghi, che vanno dalla “credenza superstiziosa” alla “scienza”, dalla “mentalità primitiva” (magica o teologica) alla mentalità “civilizzata” e al regno universale della ragione.
Coniugata al positivismo scientista, che concerne essenzialmente l’antropologia e nutre l’illusione che si possono misurare in senso assoluto le culture in valori, questa teoria è all’origine del razzismo, che percepisce le civiltà tradizionali o come definitivamente inferiori, o come provvisoriamente in ritardo (consistendo la “missione civilizzatrice” delle potenze coloniali nel far loro colmare questo ritardo), e postula l’esistenza di un criterio universale, di un paradigma sovrastante, che permette di gerarchizzare le culture e i popoli. Il razzismo appare così direttamente legato all’universalismo del progresso, che a sua volta ricopre un etnocentrismo inconscio o mascherato.
Non si discuterà qui della critica dell’idea di progresso, che inizia in Rousseau, né delle innumerevoli teorie della decadenza o del declino che le sono state opposte. Noteremo soltanto che queste ultime rappresentano spesso (ma non sempre) il doppio negativo, il riflesso speculare, della teoria del progresso. L’idea di un movimento necessario della storia viene conservata, ma in una prospettiva invertita: la storia è interpretata non come costante progressione, ma come inevitabile regressione (puntuale o generalizzata). In effetti, la nozione di decadenza o di declino appare altrettanto poco oggettivabile di quella di progresso.
Da almeno vent’anni si moltiplicano le opere sulle disillusioni del progresso. Alcuni autori arrivano fino al punto di dire che l’idea di progresso non è altro che una “idea morta” (William Pfaff). La realtà è probabilmente più sfumata. La teoria del progresso è oggi seriamente colpita, ma non c’è dubbio che sopravvive in forme diverse.
I totalitarismi del XX secolo e le due guerre mondiali hanno con ogni evidenza scalzato l’ottimismo dei due secoli precedenti. Le disillusioni sulle quali si sono fracassate molte speranze rivoluzionarie hanno suscitato l’idea che la società attuale, per quanto disperante e priva di senso, è malgrado tutto la sola possibile: la vita sociale è sempre più vissuta nell’orizzonte della fatalità. L’avvenire, che appare ormai imprevedibile, ispira più inquietudini che speranze. L’aggravamento della crisi sembra più probabile dei “domani che cantano”.
L’idea di un progresso unitario è battuta in breccia. Non si crede più che il progresso materiale renda l’uomo migliore, o che i progressi registrati in un campo si ripercuotano automaticamente negli altri. Lo stesso progresso materiale appare come ambivalente. Si ammette che accanto ai vantaggi che procura, ha anche un costo. Si vede bene che l’urbanizzazione selvaggia ha moltiplicato le patologie sociali, e che la modernizzazione industriale si è tradotta in una degradazione senza precedenti del naturale quadro della vita. La massiccia distruzione dell’ambiente ha originato i movimenti ecologisti, che sono stati tra i primi a denunciare le “illusioni del progresso”. Lo sviluppo della tecnoscienza, infine, solleva con forza la questione delle finalità. Lo sviluppo delle scienze non è più percepito come qualcosa che contribuisce sempre alla felicità dell’umanità: lo stesso sapere, come si vede con il dibattito sulle biotecnologie, è considerato come portatore di minacce. In strati di popolazione sempre più vasti, si comincia a comprendere che più non è sinonimo di meglio. Si distingue tra l’avere e l’essere, la felicità materiale e la felicità tout court.
La tematica del progresso resta tuttavia pregnante, anche solo a titolo simbolico. La classe politica continua a fare appello al raggruppamento delle “forze del progresso” contro gli “uomini del passato” e l’“oscurantismo medievale” (o i “costumi di un’altra epoca”). Nel discorso pubblico, la parola “progresso” conserva globalmente una risonanza o una carica positiva.
L’orientamento verso il futuro resta ugualmente dominante. Anche se si ammette che il futuro è carico di minacciose incertezze, si continua a pensare che, logicamente, le cose dovrebbero globalmente migliorare in futuro. Sostituito dallo sviluppo delle tecnologie di punta e dalla programmazione mediatica delle mode, il culto della novità resta più forte che mai. Si continua così a credere che l’uomo è tanto più “libero” quanto più completamente si strappa alle sue appartenenze organiche o a tradizioni ereditate dal passato. L’individualismo regnante - coniugato a un etnocentrismo occidentale che ormai si legittima con l’ideologia dei diritti dell’uomo – si esprime con la destrutturazione della famiglia, la dissoluzione del legame sociale, e il discredito delle società tradizionali, dove gli individui restano solidali con la loro comunità d’appartenenza.
Ma soprattutto, la teoria del progresso resta largamente presente nella sua versione produttivista. Essa nutre l’idea che una crescita indefinita è al contempo normale e desiderabile, e che un avvenire migliore passa necessariamente attraverso l’accrescimento costante del volume dei beni prodotti e attraverso la mondializzazione degli scambi. Questa idea ispira oggi l’ideologia dello “sviluppo”, che continua a guardare le società del Terzo mondo come (economicamente) in ritardo rispetto all’Occidente, e a fare del modello occidentale di produzione e di consumo il destino necessario di tutta l’umanità. Questa ideologia dello sviluppo è stata perf
ettamente formulata da Walt Rostow che, nel 1960, enumerava le “tappe” che tutte le società del pianeta debbono percorrere per accedere all’universo del consumo e del capitalismo mercantile. Come hanno mostrato diversi autori (Serge Latouche, Gilbert Rist, ecc.), la teoria dello sviluppo non è altro, alla fin fine, che una credenza. Finché non avremo abbandonato questa credenza, non l’avremo fatta finita con l’ideologia del progresso

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=14809

Retorica faziosa atta ad indurre apologia ideologica del passato a priori,che strumentalizza il fanatismo e le stupidita di certi uomini nella storia facendo di ogni erba un fascio e assolutizzando il tutto per fini di propaganda reazionaria.

Analisi disonesta e di parte. Ci vorrebbe diverse ore per illustrarne la semantica ingannevole, mista ad alcune cose anche ragionevoli appunto per fuorviare l'attenzione verso la retorica generale dello scritto.

per te e' retorica per me e' l'evidenza di una trasformazione palese della realta,quella che viviamo ogni istante appunto senza nemmeno rendercene più conto

Non ho detto che E' TUTTO retorica.

C'e' tanta retorica, che estremizza ed assolutizza certe posizioni fanatiche da una parte, e criminali dall'altra..ma contemporaneamente tacendo sulle posizioni equilibrate e ragionevoli, come se esistessero solo cattivi e pazzi in ogni movimento che si esprime in termini di ricerca e impegno nel progresso umano come auspicio di pace.

Dovrei dedicare del tempo per farne una disamina, e forse concorderesti anche su alcune cose. Magari lo faccio come esercizio, mi auguro che dialogerai nel merito, oltre al giudizio sommario di "evidenza" che sostieni.

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