12 dicembre 2010
Il professore delle nuvole
Il nostro “man of the year” è Franco Prodi, il climatologo che dice ai catastrofisti: “So di non sapere tutto”
Dopo avere assegnato, un anno fa proprio di questi tempi, il premio “Scrooge of the year” a Giovanni Sartori, al Foglio abbiamo deciso di fare i buoni. Niente premio al più antipatico, ci travestiamo da Time e assegniamo un più esemplare e meritato “Person of the year”. Nei giorni in cui a Cancun, Messico, i rappresentanti di un sacco di stati non sono come al solito arrivati a un accordo vincolante per “combattere i cambiamenti climatici”, e si è affacciata con sempre maggiore forza l’idea che pensare di cambiare il clima emettendo più o meno CO2 è un tantino esagerato, non può non venire in mente chi questa cosa la ripete da anni: il climatologo italiano Franco Prodi.
Non fosse altro che per la costanza e la tenacia con cui si è opposto alla vulgata imperante del catastrofismo climatico e al verbo incarnato in Al Gore del riscaldamento globale di origine antropica (cioè: se fa caldo è colpa nostra e solo nostra, se piove è colpa nostra e solo nostra, se non nevica idem, e pure se nevica) e all’ideologia secondo la quale la scienza ha già capito tutto del clima, non c’è più tempo, bisogna agire ora, il premio sarebbe di per sé già meritato. Ovviamente c’è di più.
Franco Prodi è geofisico e climatologo stimato in tutto il mondo; per la precisione è un fisico dell’atmosfera, esperto di nubi e grandine. Nel decennio in cui i climatologi sui media hanno assunto toni da Apocalisse e atteggiamenti da supereroi (aiutati se non aizzati dai media stessi), Prodi ha scelto il suo mantra, e lo ha ripetuto, pacatamente, con una sicurezza e una costanza impressionanti, fregandosene di come l’opportunismo sposato da certi colleghi avrebbe potuto renderlo più popolare: “Sui cambiamenti climatici sappiamo ancora troppo poco. L’immensità del campo di energia coinvolto dall’irradiazione solare sul pianeta, più la complessità del filtro atmosferico, e mille altre varianti, non consentono certezze a buon mercato, classificazioni facili”; questo il succo dei suoi interventi.
Nono fratello di una famiglia dal cognome che non passa inosservato, Franco Prodi ha studiato abbastanza per non fare del catastrofismo spiccio, ed è troppo intelligente per essere negazionista: “Non sono negazionista né catastrofista – spiegava dodici mesi fa ai giornali, commentando l’inizio dei lavori del summit di Copenaghen, quello che avrebbe dovuto salvare il mondo e fallì tristemente – ma la scienza sa ancora troppo poco dell’evoluzione climatica e i nostri modelli, quelli dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), sono nella loro infanzia. Questo non significa che il clima non può peggiorare. Anzi, proprio perché non è lineare ed è scarsamente prevedibile, il futuro potrebbe essere peggiore delle peggiori previsioni. Bisogna però evitare che di clima parlino solo gli economisti, gli agronomi o qualsiasi incompetente di passaggio”.
La prima volta che si fece conoscere al grande pubblico fu tre anni fa, quando assieme ad altri nove scienziati scrisse al ministro dell’Università Fabio Mussi una lettera molto critica su Alfonso Pecoraro Scanio. L’allora ministro dell’Ambiente aveva inaugurato la Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici di Roma citando dati da B-movie sulla fine del mondo riferiti alla nostra penisola: secondo il ministro, nel giro di un centinaio di anni l’Adriatico sarebbe diventato uno stagno, il deserto avrebbe mangiato mezza Italia e la temperatura nelle nostre regioni sarebbe aumentata quattro volte più che nel resto del mondo. “E’ stata una conferenza impostata male – disse Prodi – le è stata data una impronta scientifica ma non hanno invitato nessuno scienziato”. Come se non bastasse, “hanno sbagliato a leggere i dati: l’Italia è assolutamente in linea con il resto delle altre terre emerse”. Poi la sberla: “E’ stata una campagna propagandistica a favore del suo partito”.
Le sue parole sorpresero tutti: Franco era pur sempre il fratello di Romano, presidente del Consiglio in carica, di cui Pecoraro Scanio era ministro. Di colpo furono dimenticate le polemiche di qualche anno prima, quando Forza Italia e Alleanza nazionale avevano bloccato la sua partecipazione come ospite fisso alla trasmissione di Fabio Fazio, “Che tempo che fa”, proprio perché “fratello di” (polemiche sciagurate, dato che il suo posto fu preso dal catastrofista Luca Mercalli): anche per le critiche alle posizioni del ministro, Prodi ottenne finalmente il patentino di “esperto obiettivo”. Lucia Annunziata sulla Stampa salutò la sua uscita come esempio di “innovazione della politica”: “L’intervento di Franco Prodi – scrisse – rompe con i ‘modi’ della politica, quel ‘sapersi comportare’ cui proprio lui, fratello del premier e barone universitario, dovrebbe inchinarsi, in omaggio a quelli che si chiamano interessi collettivi, e che spesso sono solo il rispetto di un precario equilibrio di governo”. La sua “indignata precisazione rompe l’ombra dell’Apocalisse”.
Ciò che colpisce di Franco Prodi quando lo si incontra di persona e si parla del suo lavoro è la passione per quello che studia, e la certezza di – parafrasando Socrate – “sapere di non sapere ancora abbastanza”. Nell’intervista su Copenaghen al Corriere di un anno fa, ricordava “una discussione con mio fratello Romano, quando era presidente del Consiglio. Lui sosteneva che il politico deve comunque prendere in mano il problema e provvedere. Io gli risposi che la conoscenza scientifica, quella vera, si ha soltanto con una spiegazione e una previsione. Questo mi hanno insegnato all’università. La spiegazione e la previsione sul clima, oggi, non ci sono”. La sua “ignoranza” è figlia di una carriera di studi meticolosi, spesso anticipatori dei tempi. Classe 1941, si laurea in Fisica dello stato solido a Bologna nel 1963, e si imbatte nella meteorologia due anni dopo, quando (è sottotenente all’Osservatorio scientifico sperimentale di meteorologia aeronautica di Monte Cimone) il professor Ottavio Vittori gli mette in mano un chicco di grandine dicendogli più o meno: “Vedi un po’ tu che si può fare”. Da allora non lascerà più quello che lui stesso definisce essere il “materiale naturale più inconsueto e intrigante”.
E’ tra i primi al mondo a scoprire che il chicco di grandine può essere usato come una sonda per capire come sono fatte le nubi. “Lei ha mai spaccato un chicco di grandine?”, chiede. Ovviamente no. E comincia a parlarne come se fosse un figlio: gli strati concentrici, i grani cristallini, le goccioline sopraffuse… Studiare i chicchi di grandine per conoscere le nuvole, insomma. E’ dal 1966 che lo fa (“Se viene qua da me vedrà che ho un tunnel refrigerato per accrescere la grandine”): “E’ un tipo di ricerca che si fa con pochi mezzi e molta costanza, e il sistema italiano dà entrambe le cose”, ride. Prodi le nubi le studia anche con i radar, e in tanti anni ha capito che “sono al centro del sistema climatico, sono la cabina di regia dei cambiamenti climatici”. La battuta è scontata: un professore tra le nuvole. “Mi muove la stessa curiosità di quando da bambino facevo le gare con gli aeromodelli e mi chiedevo come facessero a volare. Poi c’è la curiosità scientifica di vedere come la fisica condiziona anche la natura”.
E’ il fascino della geofisica, dice. Per oltre vent’anni (fino al 2008) professore ordinario di Fisica generale e poi di Fisica dell’atmosfera presso l’Università di Ferrara, nel 1967 entra nel Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), al cui interno ricopre diverse cariche, fino alla direzione, nel 2002, dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (Isac); da due anni ha lasciato quella carica, oggi è associato al Cnr, dove porta avanti di
versi progetti, parallelamente alla gestione di una piccola azienda che produce strumenti di misurazione, la Nubila. “Affronta il lavoro con l’entusiasmo di un ventenne”, racconta chi lo conosce bene. Entusiasmo che contraddistingue il suo approccio anche agli aspetti non strettamente lavorativi. Dicono che sia “un cattolico convinto, ma certo non un bigotto né un moralista”. Gli amici di famiglia lo descrivono come “onesto, corretto, solidale: chiunque abbia bisogno sa che lui è pronto a dare una mano, anche a costo di sacrifici personali”. La descrizione da libro cuore del professore non è però lontana dalla verità. Chi lo ha visto all’opera in tanti anni racconta di un uomo generoso, attento a premiare “il valore reale degli studenti”, ma con un’etica molto salda che gli ha creato anche qualche antipatia: “Non è stato il capo che ha favorito i suoi solo perché erano suoi”, dicono dal Cnr. Prodi ha fatto crescere molti ricercatori, dando loro la possibilità di specializzarsi anche all’estero; ma al momento decisivo li ha sempre valutati per il loro valore oggettivo. Per questo si dice che come direttore dell’Istituto sia stato molto amato ma anche odiato.
Colleghi che lo conoscono bene dicono che “con le sue credenziali poteva arrivare anche ai vertici del Cnr”, ma forse questo suo modo di fare glielo ha impedito. Non ha mai voluto indossare la casacca del “fratello di”, anche se in tanti lo trattavano come tale, spazientendolo non poco. Non ha chiesto favori al fratello Romano, ma chi li conosce entrambi è pronto a giurare che se anche l’avesse fatto gli sarebbero stati negati. Merito di un’educazione di famiglia che non a caso ha cresciuto nove fratelli “sopra la media”: un mix di docenti universitari, medici, un architetto e due politici. Educati al senso del dovere dal padre Mario, ingegnere di origini contadine, e dalla madre Enrica, maestra elementare tra una gravidanza e l’altra, i Prodi sono una famiglia molto unita, come testimoniano le annuali riunioni a Bebbio di Carpineti, dove si ritrovano in parecchie decine. Un clima di assoluta “normalità”, che fece confessare a Gad Lerner che uno dei motivi del suo apprezzamento per Romano Prodi erano anche queste grandiose riunioni.
Non è facile trovare chi lo critichi apertamente, la sua posizione non allineata al vangelo del global warming mette in difficoltà chi ne stima le capacità lavorative. I suoi detrattori al limite lo liquidano con un “è bravo, ma minoritario”. Quindi sbaglia. Come se la scienza fosse una democrazia. Tra i colleghi “catastrofisti” c’è chi lo ritiene “un po’ troppo ingenuo, tanto da prendere vere e proprie cantonate in buona fede” sull’argomento, “magari perché va dietro a chi, in malafede, ci specula su”. Pensarla diversamente sui cambiamenti climatici non impedisce un lavoro proficuo, come racconta Claudio Tomasi, collega di una vita al Cnr e appartenente al filone più “allarmista” (per dirla male) della climatologia. Di Prodi Tomasi ricorda soprattutto alcuni progetti pionieristici fatti insieme, come quello (siamo negli anni Settanta) per studiare il trasporto delle polveri del Sahara in atmosfera, progetto che Israele e Stati Uniti svilupperanno solo vent’anni dopo. Chi la pensa come Prodi sul global warming è Teresa Nanni, dirigente di ricerca e responsabile del gruppo di Climatologia storica dell’Isac del Cnr. Nanni sottolinea come Franco Prodi sia uno dei più titolati al mondo ad affrontare l’argomento: “Si occupa di nubi e vapor d’acqua, fattori fondamentali per capire le variazioni climatiche”, dice.
Quando è lui a spiegarlo sembra semplice: “Bisogna immaginare una palla da biliardo e una lampada. La parte illuminata riceve energia dal Sole, e poi la emette sotto forma di infrarosso. Il clima in teoria sarebbe tutto in questo equilibrio”. Peccato che ci sia l’atmosfera. “I gas che stanno attorno alla palla da biliardo intercettano le emissioni, così le nubi e le particelle sospese. Capisce che è molto difficile fare dei conti? Per questo al momento non si può dire come si evolve il sistema. Come ci si fa a non appassionare a queste cose? Dallo studio delle nubi dipende la comprensione di uno dei grandi problemi dell’umanità”.
Facendo una ricerca abbastanza approfondita sulla rete, è pressoché impossibile trovare critiche alle posizioni di Franco Prodi. “E’ merito del suo essere equilibrato – prosegue Teresa Nanni – Lui parte sempre dai dati”. Difficile dare torto ai numeri. Certo non si può dire che sia uno che cerca visibilità mediatica, anche se ormai ogni discussione riguardo al clima ha lui come interlocutore. “Non si preoccupa troppo dell’immagine che dà di sé – ammette una collega – Dice però ciò che pensa”. E’ per questo che non può non piacere. “Non sono andato a cercarmela – spiega Prodi – mi ci sono trovato, e ho sentito il dovere di raccontare quella che è la mia esperienza. E la mia esperienza mi fa dire le cose che dico”.
Lo descrivono “abbastanza riservato”, ma anche “uno a cui piace avere un rapporto umano forte con le persone”. Non è un introverso, se c’è buona sintonia con l’interlocutore “racconta tutto, pure troppo”. La sua sincerità lo porta però a volte a chiudersi in se stesso, “è uno che soffre se qualcuno gli arreca dei dispiaceri”. Aziendalista esemplare, quando era direttore dell’Isac e da Bologna doveva andare per esempio alla sezione di Roma, si muoveva soltanto in autobus o metropolitana, mai in taxi. Addirittura guidava con la propria auto fino a Bergamo per prendere da lì i voli low cost. Alla segretaria allibita che doveva fare queste prenotazioni, rispondeva con un inequivocabile “lasci fare a me”. Non sopportava di sprecare denaro pubblico. Pari alla passione per la ricerca, c’è la passione di Prodi per la musica.
Come molti dei suoi fratelli (Paolo suona il pianoforte, Quintilio il violoncello; non Romano, di cui dicono sia anche un po’ stonato), Franco l’ha studiata e se ne è innamorato. “Non passa settimana senza che si eserciti alla viola, il suo strumento preferito – racconta chi lo frequenta – Raduna un quartetto di musicisti e prova per ore”. L’opera che più ama è la Sonata per arpeggione di Schubert. Più volte con il quartetto si è esibito per un pubblico di amici e conoscenti. Spesso a casa sua, a volte al Cnr. A San Polo d’Enza, in provincia di Reggio Emilia, sua città natale, ha organizzato un festival di musica dedicato a Sesto Rocchi, liutaio famoso scomparso nel 1991, nonché suo suocero. Il suo legame con la musica è, se possibile, ancor più rafforzato da questo episodio: Franco conobbe la moglie Laura (a cui lo legano, dicono gli amici, “una devozione e un amore che vanno al di là dell’immaginabile”) proprio nella bottega di Sesto Rocchi, dove era andato per acquistare uno strumento. Superfluo raccontare che anche i figli (soprattutto le due femmine, Anna e Maria Chiara) hanno ereditato la passione musicale del padre.
Non ha rimpianti (“mi ritengo molto fortunato”), ma un rimprovero “al sistema Italia”: “Fare ricerca qui – dice – vuol dire essere penalizzati in partenza rispetto ai colleghi all’estero. Certi miei coetanei in altri paesi sono ben più riconosciuti”. Detto questo, “son contento lo stesso: non mi sarei visto altrove, ma soltanto nel mio paese”. Tiepido tifoso di calcio, Prodi usò il paragone con una partita di football per spiegare le divisioni degli scienziati sul riscaldamento globale in un editoriale sull’Osservatore Romano nel maggio scorso. “Sarebbe utile riesaminare l’intera questione, in particolare l’obiettivo della guerra ai cambiamenti climatici, cercando di comprendere quale sia davvero il ruolo della scienza nell’impostare questa strategia, e se questa sia la migliore per il destino a lungo termine dell’umanità”. Ne parla ancora sull’Osservatore di oggi, analizzando il sostanziale fallimento del vertice di Cancun, e ripeten
do, instancabile, il mantra del fino-a-che-non-conosceremo-meglio-certi-aspetti-è-insensato-fare-scenari. Il pensiero di Prodi è semplice, innanzitutto realista: ci occupiamo di una cosa volubile e dimentichiamo il resto. “Mediaticamente vien detto che c’è il riscaldamento globale e allora si deve fare questo mercato sulle emissioni di CO2. Nel frattempo c’è un ambiente planetario – ambiente, non clima – che fa schifo e ne parla solo il Papa”. Quel Benedetto XVI che le “rivelazioni” di Wikileaks vogliono far passare per ecologista, ma che è molto di più, come ricorda Prodi: “Trovo attuale l’invito del Papa a riportare l’attenzione sulla centralità della salvaguardia dell’ambiente, del pianeta, del creato”.
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di Piero Vietti