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Infinito?


GioCo
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Uno dei tanti personaggi che ho incrociato nella mia vita mi ha invitato a fare un esercizio che il mio demone mi ha aveva già allenato a fare dal primo momento che si è palesato.

Mettersi a "pensare all'Infinito", provando a stare "nei suoi panni".

Ecco, parrebbe un poco come dire "mettersi nei panni di Dio" e questo fa certamente storcere il naso a tanti, me compreso, ma non è richiesta una sostituzione, non c'è l'idea che siamo Dio o possiamo sostituirci alla sua opera, ma solo di rifletterci con i poveri strumenti che ci sono dati. Al solito modo, con il principio della coerenza, partendo dal considerare un punto di vista che non è quello che abbiamo di solito, nel Mondo limitato e limitante che abitiamo "obtorto collo", cioè nostro malgrado.

Il primo aspetto che emerge è che non essendoci limiti, non c'è modo di vivere il Male. Il Male è sperimentabile unicamente se manca qualcosa. Qualsiasi cosa. Nel momento in cui abbondiamo di tutto e sempre, qual'è il "Male" che si può riprodurre? Vorrei essere davvero molto chiaro su questo aspetto quindi userò una metafora eufemistica, cioè sostituendo una condizione (la nostra) possibile e proiettandola nella dimensione dell'infinito e in senso puramente provocatorio. Abbiamo fatto tutta la trafila vaccinatoria. Sappiamo benissimo che questo significa avere accettato in corpo tutta una serie di "tencologie" che ci importa pure poco quale natura abbiamo e come agiscono, comunque il rapporto è esattamente quello che abbiamo con il cellucoso. Superficiale. Paradossalmente anche chi ha messo a punto questi preparati poi non sa bene dirci cosa diamine combinano. Fanno "Male"?

No, fanno malissimo... Anzi, peggio!!!

Ma per quello che ho scritto QUI e poi QUI se il tuo Maestro Interiore ha deciso che tu te la dovevi fare per "i motivi" che poi diventeranno chiari, magari da morto ma non è detto, non importa cosa ne pensi a riguardo e quanta paura ti fa iniettarti quella roba in corpo, se necessario ti verranno a prendere con la forza e ti inoculeranno la schifezza come si fa con le bestie. Punto e basta. Certo, poi farai tutto quello che farai per denunciare la situazione, l'abuso, etc. etc.

Però la tua visione del Mondo rimarrà dominata dal fatto che siccome era "mio" diritto e siccome ciò che possedevo era "mio" per principio, allora c'è l'abuso... E se c'è l'abuso allora Dio ce l'ha con me. Invariabilmente arriviamo sempre lì. Perché in effetti cosa volete che gli freghi all'infinito del "danno" che ne ricaverete, morale o fisico? Se vuole, quando vuole, il più veleno velenoso velenifero, lo farà acqua fresca in meno di uno schiocco di dita. Se vuole. Ma evidentemente... Accettarlo diventa davvero complesso. Per noi.

Quindi se esiste un veleno, esiste un avvelenatore ed esiste una costrizione che ci impone ad assumerlo, allora per forza non può essere che una volontà superiore a imporlo e da cui procedono tutte queste cose e se così è quella stessa volontà non sta facendo evidentissimamente il nostro bene. Oh no? Allora Dio diventa facilmente il Male e siccome prima si adorava un Dio buono che evidentissimante "ha fallito" nell'esercizio delle sue funzioni primarie (cioè fare in nostro bene e provvedere anche a quello di tutti noi) allora tanto vale adorare il Male che ci spiega un giorno si e l'altro pure (=tentazione) di come abbia senso "sostituirci alla sua opera" prenendo noi in mano le redini del nostro destino. Così lo teniamo buonino o ci proviamo almeno, data l'evidente "potenza pervasiva e inarrestabile". Per quel che ci riesce ovviamente!

Forse Dio è morto come cantava Guccini. Oppure non è mai stato buono come dicono i satanisti. Ma se falliamo miseramente nell'interpretazione di un Dio buono, ne Guccini ne i satanisti ci pare diano più senno e senso alla faccenda. Cosa abbiamo sbagliato nel seguire il principio di coerenza?

Tanto per cominciare all'infinito proprio perché è infinito non gliene può fregare di meno di tutte ste nostre "palle" che poi sono pensieri, vento, scoreggia che puzza passa e va oltre. Schifezza di cui non si può fare a meno come il marcio o la cacca. Fanno parte di un ordine cosmico e se non è chiaro l'ordine, semplicemente vivi nella melma, la palude puzzolente e ributtante che sono questi pensieri tormetosi "conservati" come "oro". Schifo. Vomito. Non molto di più e perché più stagnano dentro di noi e più fanno schifo. Come il cibo. Dovrebbero starci il tempo giusto, non "per sempre". Ma putroppo al solito siamo di dura cervice... E ci vuole taaanto tempo, taaante vite per accettarlo. Fuziona così.

Riavvolgiamo il nastro e ricominciamo da capo. Approfondiamo.

Se tu sei un bebè che vive nel suo pannolino, questo è pulito in principio. Poi si riempie di merda e di piscio e va cambiato. Tutti coloro che hanno mai avuto a che fare con bebè sanno bene quanti straca%%o di pannolini ci vogliono per stare dietro a quella specie di industria di merda e di piscio a dimensioni ridotte. Meno male che non è un cucciolo di balena verrebbe da dire. Qualcuno aveva pure colcolato che la prima forma di inquinamento nel Mondo erano proprio i residui di pannolini usati che moltiplicati per i neonati anche solo di una metropoli moderna, facevano tonnellaggi che rivaleggiavano con qualsiasi altra produzione industriale "inquinogena" globale. Certo, sempre meglio che farlo cacare e pisciare per casa liberamente, non vivamo in ambiente libero come le bestie selvagge. Tuttavia se quella cacca fosse pensiero... Allora il pannolino dov'è? E' la Mente. Capite bene che se non si impara a "tenerla pulita" arriveremo a "navigare nella nostra stessa merda". L'infinito che fa? Il minimo indispensabile perché non s'affoghi al primo giro di boa nello schifo. Perché un bebè non è autonomo, deve imparare. Poi però come fa ogni genitore che si rispetti, verremo "pressati" perché si raggiunga in fretta l'autonomia e presto (più presto possibile) conosceremo il vasino. Dove scaricarci. Bene, il vasino chi lo impersona (in questa metafora)? Gli altri. In specie quelli a cui "vuoi tanto bene". Non c'è niente che sostituisca meglio il vasino di coloro a cui vogliamo bene. In specie poi perché "gli altri" potrebbero usare la nostra "merda" contro di noi.

Tipo "internet"? I sicurissimi "social"? Sarà un caso che poi i potenti ci vogliano fare su un economia morale? Forse è perché "la loro cacca" dentro cui nuotano è corruzione e ricatto? Certo, è indubbio che siano intelligentissimi ma come ripeto sempre "l'emozione comanda" e in ragione di ciò "ognuno parla di se stesso, sempre e comuque".

Senza emozione non c'è presenza, ma un pupazzo vuoto. Un meccanismo che può per similitudine fare tutto quello che riproduciamo in Vita, imparando da noi. Come il vento che simula la danza tra le fronde delle piante o un orologio, si muove e può ingannare. Può ingannare i sensi di qualcuno e per un certo tempo, ma solo se sei sconnesso (come già ho avuto modo di spiegare nei miei POST precedenti) o non stai abbastanza (per il tuo livello di coscienza) attento.

Dicevamo dell'Infinito. Che rapporto ha tutto questo con noi? Che rapporto abbiamo con l'Infinito? Riusciamo a dialogare? Ecco, il dialogo con l'Infinito porta armonia. Sempre.

Il dialogo con "io" no. Quando veniamo al Mondo il corpo ci induce ad avere una serie di esperienze che sono le esperienze del limite che il corpo conserva. Tuttavia in esso ci specchiamo, perché noi non siamo assolutamente terminati nel corpo. Andiamo ben oltre. Quindi il corpo pone il limite ma noi che ci specchiamo in esso non lo riconosciamo. Perché ci estendiamo all'infinito e in tutte le direzioni. All'inizio questa condizione non ci è "chiara", per chiarircela dentro, per dargli dimensione e significato dobbiamo viverla e non una volta, ma tante e ripetute, ogni volta meno grossolane di prima. Non si torna indietro, mai. Anche se dovessimo reincarnarci bestie, non si torna indietro.

In altre parole ogni "perdita" è totalmente apparente. Certo è una apparenza "molto solida"!!! Come una sventola in faccia noi la percepiamo così "Male". Tanto che mi posso spingere a dirvi che "perdita" è "materia". Il suo significato allegorico e mistico è quello... Nel senso che qualsiasi cosa, non importa cosa, è significata "materia", rappresenta "perdita" e la sua solidità è la contropartita esatta che ha quella specifica "perdita".

Definizione che per ovvi motivi logici non è accettata ne accettabile.

Vedete, ho passato anni a studiare scienze umane per trovare il senso che diamo al valore. Penso che tutta l'educazione da quando esiste questa disciplina non faccia altro che girare come le mosche attorno al letame, per trovare una definizione chiara e semplice di ciò che per noi è "valore". Di come ad esempio facciamo a dare o meno valore alle cose. Ecco, ora lo sapete e sapete perché non ci si arriva a dirlo pubblicamente e con chiarezza ma rimanga sussurrato in circoli esotici da (praticamente) sempre. Non perché sia difficile o incomprensibile, dato che è una stupidaggine, ma perché è impossibile accettarlo "moralmente" e poi anche trasformarlo in una "azione educativa accettabile".

In specie se Dio è stabilito essere buono aprioristicamente e per fede. In questo modo non si può che concludere che sarà anche così però deve essere pure uno stronzo cosmico. Cioè uno che si diverte a pigliarci per i fondelli senza soluzione di continuità.

Approfondiamo.

"Perdita" va ricollegata a un altro pensiero che ci possiede fin dalla più tenera età: "mio". La proiezione nel corpo di cui facciamo esperienza subito stabilisce un "principio di proprietà" che poi è allungare banalmente le mani e afferrare in modo da "avvicinare e conservare" l'oggetto del desiderio. Il fine è quello della soddisfazione di un bisogno che è fisico nel principio. Per esempio la soddisfazione di zuccheri. In origine, dato che il corpo deriva da una biologia adatta al consumo di frutta che non è altro che "zucchero e acqua" il bisogno era in linea con un equilibrio ambientale e proprio di un corpo rimesso in ambiente selvatico. Oggi non ci sono le piante ma i cioccolaniti (avvolti in carta argentata) piazzati strategicamente accanto alla cassa del supermercato dove invariabilmente il genitore passa col carrello e il bambino. Il bambino ovviamente non ha mediazione per le sue dimensioni interiori, il luogo e il gesto non hanno altro da significare se non il suo "bisogno" riflesso e quindi allunga la mano prende il cioccolatino e dice "mio" avendolo riconosciuto. Noi sappiamo che non c'è malizia, non può esserci perché non sa manco dove diamine si trova poverino. Dovrà impararne tante di cose prima di arrivare a capire che quel cioccolatino non è "dato" ma scambiato. Non viene "offerto", non è un "dono", non c'è nessun rapporto di armonia ed equilibrio esprimibile in quel contesto mercantile. C'è un "cosmo" di realtà via via sempre più osceno e ributtante da dover considerare, prima di arrivare al cioccolatino e al motivo per cui il genitore lo concede oppure no.

Pensate che all'infinito gliene fotta qualcosa se vi mettete a piangere perché non ricevete il vostro "cioccolatino"? Se gliene frega non è di certo più di quanto possa fregare al genitore, anche quello "migliore".

In ultima sintesi "perdita" è non ricevere. L'infinito non può "togliere". Non c'è nessun modo per cui qualcosa si possa "togliere". Un pensiero, un vissuto, un accadimento, può essere dato o no. Non si può "togliere". Si aggiunge (o no) alla vostra lista e basta. Quindi esiste solo lo stato neutro (o di quiete) e positivo (o perturbato). Non esiste "la negazione". Nel momento in cui desiderate, ecco che allora il desiderio costruisce in voi l'idea della perdita. Desiderate un auto nuova fiammante, un partner, un dolce, la pace, uccidere, riposare. Non importa. Riceverete o no e sarete o meno soddisfatti. Ma la vostra dimensione emotiva legata alla proiezione che avete nel corpo è responsabile dell'armonia residua tra ciò che effettivamente riceverete e ciò che poi percepite come "soddisfacente". Potete accontentarvi del minimo o anche di niente oppure l'intero infinito non vi basterà.

E' evidente che se siete spiritualmente immaturi punterete all'infinito. Perché è nella vostra essenza e lo proietterete compulsivamente. Qui verremo quindi per stare nei nostri pannolini e per gestire almeno al minimo sindacale la nostra merda (Mentale). Poi cresceremo in fretta e useremo i vasini scambiandoli per genitori, parenti, amici e affetti vari. Da loro pretenderemo "affetto" che poi è in soldoni la loro residua disponibilità verso di noi.

Che impariamo a "guadagnarci". Come i soldi che ci occorrono per ottenere il cioccolatino al supermercato. Anzi, tutti i cioccolatini che desidereremo in futuro o meglio, tutti quelli che saremo in grado di permetterci. Possiamo a questo punto soggiacere al comando del "bisogno" e quindi strafare, perché saremo sempre protesi verso l'esagerazione, per ovvi motivi logici, oppure commisurare emotivamente il bisogno riducendolo al minimo. Non per il cioccolatino ma per avere un rapporto più in equilibrio con la nostra dimensione emotiva. Perché senza soddisfazione stiamo effettivamente Male ma questo non dipende da un Male oggettivo, dal "privarci" di un piacere, quanto dall'assenza di armonia emotiva in noi.

L'infinito non ha "bisogno". Non ce l'ha mai avuto e mai l'avrà. Ma nella misura in cui cerchi quell'infinito nella proiezione corporea troverai solo ciò che ti manca che poi in soldoni è "solo tutto il resto".

Oh no?


Citazione
mystes
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IL ‘DEMONE’ DI SOCRATE

Una testimonianza concorde circa Socrate ci riferisce che il filosofo affermò sempre in modo molto esplicito che sin da fanciullo era assistito nel prendere varie deliberazioni da una ‘chiaroveggente’ voce interiore, voce di un ‘demone’ che lo tutelava e lo guidava secondo principi di prudenza, opportunità e moralità.

E’ questo il più grande ‘enigma’ della sua personalità e del suo vissuto.

Nelle credenze della Grecia antica con quel termine, dàimon (in italiano demone, s’intendeva un essere intermedio tra l’uomo e la divinità, di natura benigna o maligna, in sostanza un ‘genio’, un’entità vivente in un mondo ‘sottile’, ‘invisibile’, ma collegato in qualche modo al piano ‘materiale’ dell’essere.

A volte s’indicava la stessa anima dell’uomo, la sua psiche, come una realtà ‘demonica’ in quanto di natura ‘spirituale’ e di origine ‘divina’.

Con ciò ci si riconnetteva alla nota tesi sapienziale per cui lo spirito dell’uomo, la sua ‘coscienza’, è un ‘demone’ che solo provvisoriamente ‘abita’ in un corpo ‘materiale’ in quel breve intervallo tra la nascita e la morte che noi esseri umani chiamiamo ‘vita’ per poi continuare la sua esistenza in una dimensione oltremondana da cui spesso ritorna ad ‘incarnarsi’ (è la nota dottrina della ‘metempsicosi’, dal greco metempsychosis che letteralmente indica il processo per il quale la psyché va oltre-metà- e dentro –in- un corpo).

Spesso, più genericamente e meno ‘personalisticamente’, il termine si usava per indicare una generica ed informale ‘potenza’, una ‘forza’ metafisica dotata di una propria consapevolezza ed identità non comparabili con quelle umane ma avente la capacità d’incidere sul mondo degli uomini, di consigliarli o di forzarli nei loro comportamenti.

Che cosa voleva dire esattamente Socrate quando dichiarava di essere assistito da un ‘demone’?

Nella stessa apologia che pronunziò di fronte al tribunale della sua città egli riferì proprio al consiglio della sua ‘entità’ sovrumana la decisione di non partecipare alla vita politica e la definisce come un “qualcosa di divino e demoniaco”, così come altrove ne parla come di un “segno divino”.

Sempre nell’Apologia Socrate non si riferisce mai a quella entità con la forma sostantivata: “il demone” (to daimònion) ma sempre in forma aggettivale, sottintendendo il termine “segno”.

La voce dell’entità è quindi sostanzialmente per lui il segnale, il consiglio, l’indicazione del Dio. Ma l’entità è il Dio dei filosofi, svincolato dall’ antropomorfismo radicato nella tradizione mitologica ed è inteso quindi da lui come l’Essere Supremo, come il Nous di Anassagora, cioè la Mente che governa il mondo, o come il Dio unico di Senofane.

Quando poi Socrate fa riferimento a Delfi, cioè a quel santuario che l’aveva indicato come l’uomo più saggio della Grecia, è evidente che l’espressione ‘il Dio’ allude ad Apollo come aspetto ‘particolare’ della Divinità, quale nume della mantica.

A suo dire, la volontà divina gli giungeva sotto forma di una “voce interna”. E’ celebre il passo dell’Apologia in cui rende pubblico ed esplicito tale suo intimo segreto:

“Forse potrà parere strano che io vada in giro e mi dia tanto da fare per dare consigli a questo e a quello in privato, e se poi si tratta di dare consigli in pubblico alla città e di salire sulla tribuna per parlare al popolo, allora mi manchi il coraggio. E la ragione di questo me l’avete sentita dire più volte e in più luoghi, che c’è dentro di me non so che spirito divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell’atto di accusa. Ed è come una voce che io ho in me fino da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da qualcosa che io sto per fare, e non mi persuade mai” (31c, d).

E’ molto significativo il riferimento del filosofo all’atto di accusa sottoscritto da Meleto: se non s’intendesse l’espressione di Socrate come un inequivoco riferimento ad una ‘entità sottile’ appartenente alla dimensione metafisica, non si potrebbe intendere affatto l’imputazione con cui viene trascinato in giudizio.

Infatti l’accusa di ‘empietà’ (asébeia) per aver voluto introdurre “nuovi demoni” (kainà daimónia) in Atene non poteva essere intesa che come la presuntuosa e blasfema intenzione del filosofo d’innovare la vita religiosa della città, sovvertendo così gli antichi culti, le venerabili credenze e gli atavici costumi su cui la polis aveva edificato nel tempo la sua grandezza.

Socrate viene accusato e processato per essere un pericoloso ‘eretico’ o persino un ‘ateo’ che non “riconosce” gli dei tradizionali o non ne riconosce affatto, corrompendo con ciò stesso i giovani.

Secondo la testimonianza platonica proprio nel contraddittorio con Meleto avvenuto nell’ambito del processo, Socrate, incalzando il suo accusatore con la sua abilità dialettica, lo costrinse ad una palese contraddizione, avendogli imputato nel contempo di credere e di non credere agli dei: infatti come lo si poteva dapprima accusare di voler introdurre nuove divinità ad Atene e poi dichiararne un radicale ateismo? Il riconoscimento dell’esistenza di dèmoni comporta infatti il riconoscimento dell’esistenza degli dei, poiché i dèmoni –afferma Socrate- o sono essi stessi dei, o sono figli di dei.

Sono pertanto gli stessi accusatori a dare al termine daimònion il significato ‘realistico’ di entità divina oggetto di possibile venerazione e culto.

E tale significato ‘letterale’ Socrate, si badi bene, non lo contestò.

Egli si limitò a replicare che la missione filosofica a cui si sentiva ‘vocato’ gli era stata indicata dal Dio per il bene suo e della città: ogni sua azione così come ogni consiglio del demone erano infatti volti ad ‘impedire che si commettessero ingiustizie’ e che si trasgredisse la legge.

A tale compito di divino ammonimento egli non era disposto a venir meno neanche per paura della morte; infatti disse:

“Voi lo sapete bene, o Ateniesi, che se da un pezzo io mi fossi messo ad occuparmi degli affari dello Stato, da un pezzo anche sarei morto e non avrei fatto nessuna cosa utile né a voi né a me…di fronte a ciò che è giusto io non sono uomo da cedere per paura della morte a nessuno; (voi sapete) che, pur di non cedere, sono pronto anche a morire” (31d, 32a).

Nell’Apologia platonica è lo stesso Socrate a motivare la sua serena accettazione della condanna a morte con la radicale fiducia nel demone il quale non gli ha suggerito di evitare il processo, fuggendo, ad esempio, in esilio:

“Quella mia solita voce profetica, quella del demone, per tutto il tempo passato io la sentivo continuamente e ad ogni occasione; e sempre mi si opponeva, anche in circostanze di poco conto, solo che stessi per fare qualche cosa che non mi riuscisse bene: Oggi m’è avvenuto un caso, lo vedete anche da voi, di quelli appunto che si possono giudicare, e la gente giudica, gli estremi dei mali. Ebbene, né a me stamattina quando uscivo di casa si oppose il segno del dio, né quando salivo qui sul tribunale, e nemmeno durante la mia difesa, in nessun punto, ogni volta che ripigliavo a parlare. E sì che più volte, in altri discorsi, mi fermò la parola anche a mezzo. Ora invece, per tutto questo processo, qualunque cosa stessi per fare o dire, non mi dette cenno mai di nessunissima opposizione, E allora, la ragione di questo silenzio quale devo pensare che sia? Ve la dirò, questa: che il caso capitatomi oggi deve essere sicuramente un bene; e certo non pensano rettamente quanti di noi ritengono che il morire sia un male. Ho avuto di ciò una grande prova: non è possibile che il segno consueto non mi si sarebbe opposto se quel che stava per accadermi non avesse dovuto essere un bene” (40a-c).

Per Socrate la funzione del demone era stata per tutta la vita quella di stimolarlo e guidarlo passo-passo nella missione filosofica; Platone lo testimonia anche nel Teeteto dove è quell’entità a proibirgli di sottoporre alla sua maieutica alcuni di coloro che lo seguono (cfr. Fedro, 242b-c).

Se la testimonianza di Platone circa la natura metafisica ma nel contempo ‘realistica’ del demone è, a ben vedere, già di per sé inequivoca, quella di Senofonte è ancor più chiara ed esplicita.

Costui riconosce a Socrate, proprio in virtù del suo dialogare con quell’entità, la stessa capacità profetico-divinatoria della Pizia. Infatti per rendere comprensibile quel ‘fenomeno’ e quella particolare facoltà del filosofo fa riferimento ad altri tipi di divinazione utilizzati dagli esseri umani, quali l’osservazione del volo degli uccelli, l’attento ascolto dei tuoni, ecc. (Apologia di Socrate, 12-13).

Per Senofonte gli avvertimenti del demone si manifestavano in forma di parole ‘chiarudite’ che assumono la forma non solo di ‘proibizioni interiori’ (come Platone tendeva ad interpretarle) ma anche quella di consigli ‘propositivi’; a riprova del tutto lo stesso Senofonte attesta il verificarsi nella vita del filosofo di prodigi, ‘segni’, eventi, pregni di significato ‘provvidenziale’.

I suggerimenti del demone orientavano l’azione di Socrate non solo in quelle occasioni in cui doveva operare scelte morali ma anche nelle vicende più minute ed apparentemente più insignificanti della sua vita. In tali casi la sua ‘voce interiore (a volte in modo ‘enigmatico’) dava delle indicazioni che si dovevano intendere alla stessa stregua dei ‘responsi’ della mantica antica.

Senofonte così non ha dubbi nell’intendere il demone socratico come una vera e propria entità sovrumana e che tale la considerassero tutti i contemporanei del filosofo è dimostrato da quanto lui ci racconta: spesso delle persone ponevano delle domande a Socrate per interrogarne in realtà il demone; in effetti il loro stesso contenuto presupponeva l’ipotesi da parte dell’interrogante di una capacità chiaroveggente del pensatore.

In tale linea interpretativa ‘magica’ si collocarono, del resto, tutte quelle opere che nei secoli successivi videro nel saggio ateniese un facitore di miracoli.

Ad esempio Cicerone, nell’opera dedicata alla divinazione, ricorda episodi attestanti le facoltà paragnostiche di Socrate come quello per cui in una precisa circostanza sconsigliò Critone di andare in campagna dove in effetti, essendovisi tuttavia recato, rimase ferito da un ramo d’albero ad un occhio (“Non mi hai ascoltato quando ti ho sconsigliato di andarci – disse- seguendo io, come sono solito, un presagio divino”); o come quell’altro per cui Socrate, trovatosi in fuga con il comandante Lachete dopo la sconfitta nella battaglia di Delio, giunto ad un trivio non volle continuare la sua strada con lui perché ne era trattenuto dal demone; in effetti coloro che non seguirono il suo consiglio vennero poi tragicamente a scontrarsi con la cavalleria nemica.

La interpretazione ‘sovrannaturalistica’, ‘medianica’, ‘magica’, ‘esoterica’ – comunque la si voglia qualificare – del demone avanzata da Senofonte, non è per nulla contraddetta dallo stesso Platone che nell’Apologia mette in bocca al filosofo l’espressione: “…mi parlava la solita mantica, quella del demone”.

Plutarco che assieme ad Apuleio ha dedicato al tema un’opera specifica (De genio Socratis) ci ricorda ad esempio che un giorno il filosofo, mentre camminando interloquiva con Eutifrone “…all’improvviso fermandosi e tacendo, stette raccolto in se steso per lungo tempo” poi cambiò strada invitando gli amici che lo accompagnavano a fare altrettanto. Alcuni seguirono il suo consiglio, altri continuarono a procedere per la stessa via ma vennero di lì a pochi istanti travolti da un gruppo di maiali che l’insudiciarono. Teocrito, che nell’opera di Plutarco si dichiara testimone dell’accaduto esprime nell’opera la sua meraviglia “per il fatto che mai il dio trascura Socrate e lo abbandona”. Il commento di Plutarco stesso è che il saggio ateniese “era guidato da un potere superiore e da un maggiore intendimento verso il Bene” (De genio Socr., 9-12).

E’ sempre tale autore a raccontare un vero e proprio prodigio divinatorio di cui fu protagonista il padre di Socrate il quale, avendo interrogato l’oracolo mentre il figlio era ancora molto piccolo, ebbe l’indicazione di non imporre maestri al figlio perché dal Dio era destinato nella vita ad “avere una guida in se stesso”.

Concordi con tale ‘lettura’ del genio socratico (che non è quindi da intendere come una generica, astratta ed intellettualistica figura concettuale per indicare il sentimento morale dell’uomo), furono sia Apuleio nel suo De deo Socratis, sia tutti gli esponenti neo-platonici del II e III secolo d. C., sia autori più tardi come Giamblico, Siriano e Proclo.


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