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NeoUmanesimo 2.0: educare?


GioCo
Noble Member
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Topic starter  

"Educere", dal latino "trarre fuori", come ci dice anche wikicoipiedi (QUI) è un opera piuttosto controversa e (aggiungo) delicata in questi nostri tempi caotici.

Se infatti dovessi dire che l'educazione (nel senso di "apprendimento") è il centro esatto della ricerca per quanto riguarda una qualsiasi I.A., ne capiamo al volo la portata e l'importanza. Soprattutto in ambito militare. Inoltre, senza tanti giri di parole, focalizziamo meglio il significato di "educere", non tanto inteso poeticamente come "miglioramento della risposta dei comportamenti umani", ma "correlazione simbiotica con la macchina".

Ci sono infatti due "sQuole" di pensiero (enfatizzo la Q per vari motivi, tra cui i significati "esotici", cioè misterici e simbolici, legati al trampismo e a una certa parte di potere terreno, nonché a tutto ciò che vogliono "evocare" in termini spirituali) tradizionalmente fatte risalire al filosofo Socrate e ai Sofisti a cui possiamo rifarci.

Uno vuole che la conoscenza sia in noi e che basti trovare il metodo "giusto" per tirarla fuori. In quest'opera appare quindi per logica essenziale "sapere di non sapere" (per chi guida il @GioCo delle parti) e "non sapere di sapere" (per chi partecipa) in un unica relazione tra individui.

Chiameremo questa relazione "depotenziale" e poi dirò perché... Comunque è ovvio che non prevale nella relazione con la macchina. Possiamo dare per scontato che una macchina non sappia un tubo (in partenza) di quel che dovrebbe e sia obbligato con ciò a fornirgli per forza tutto quel che gli occorre per fargli "fare" qualsivoglia cosa.

L'altra è quella nota come "sofista" e si rifà al linguaggio, a come questo possa essere usato per influenzare il prossimo. Va da sé che il primo vede il linguaggio come un mezzo tra i possibili, per certi versi indispensabile ma non il principale e il secondo come "IL" mezzo, senza cui non è possibile proprio ottenere alcun fine. Guardacaso le macchine concentrano l'attenzione sul linguaggio con cui si va a istruirle.

Va aggiunto che la parola scritta in questa distinzione si inserisce come "disturbo". La comunicazione orale è più fluida e di fatto introduce tutta una serie di informazioni che non sono il comunicato strettamente orale, ma quel paraverbale che spesso fa la differenza e determina "la qualità" della comunicazione, cambiandone radicalmente il significato. Motivo per cui non si parte "istruendo" le macchine con le parole, ma con un testo scritto.

Tale aspetto non viene mai sottolineato, perché (l'ho scritto molte volte) coinvolge l'emotività soggettiva che viene sempre sottostimata se non adirittura del tutto rimossa, come fosse un aspetto secondario, relativo e tutto sommato se eliminato è persino un vantaggio. Quindi possiamo (coerentemente) considerare la parola scritta come un filtro. Aumentano le qualità mnemoniche, perché lo scritto lascia una traccia durevole, ma si riducono drasticamente quelle "empatiche". La poesia e altre forme di comunicazione analoghe, come le figure retoriche o quelle simboliche proprie delle fiabe e dell'immaginazione mitigano certamente questo aspetto, ma vorrei far notare che un film che dura in media un ora e mezza, veicola una quantità di stimoli emotivi infinitamente superiori a un libro. Il che non rende necessariamente migliore l'esperienza audiovisiva, di sicuro però la rende "fenomeno di massa" in quanto più accessibile. Come le messe del prete d'altrone o racconti che si fanno attorno a un fuoco.

Per quanto mi riguarda tutto ciò permane entro un discorso che attiene la pedagogia e che imposta il lavoro di analisi del processo educativo in modo distorto, quasi a farlo apposta, riducendo drasticamente le possibilità di inquadrare lo stesso. Mancano prodromi essenziali per far luce sul processo.

Credo di averne individuati alcuni (nel mio piccolo) e uno di questi è proprio la categorizzazione con cui affrontiamo l'analisi. Per me esistono due "andamenti" interdipendenti con cui processiamo la realtà tramite l'esperienza. Ci arriveremo in fondo, per ora partiamo dall'impostazione "classica" condivisibile che per me è più coerente.

Essi operano a precindere da come ci rapportiamo con i sensi e rimangono "attivi" anche in molti stati di incoscienza, come nel sogno. Va sottolineato che non sono due attività parellele ma contigue come i due capi di un unico filamento, solo che tendiamo a considerare sempre primario uno sull'altro.

Nell'impostazione classica, la prima è elaborativo/cognitiva (vedi cognitivismo QUI) e riguarda (per semplicità) il procedere valorizzando le correlazioni tra le cause e gli effetti. In essa sembra prevalere la logica ma vedremo che non è esattamente così, prevale (paradossalmente) la sintesi e con essa l'astrazione che riguarda l'atto di dissociare l'esperienza sensibile dall'informazione tramite un passaggio elaborativo. Ad esempio, si contano le pecore e poi si da spazio al numero che è un concetto con cui si possono contare altre cose, come i sassi. Nell'apprendimento il processo si ripete per tutta la vita.

Tutto ciò non riguarda il processo induttivo/deduttivo che spesso viene indicato come il passaggio dal particolare al generale e viceversa. Galileo è chiaro e indica come deduttivo il procedimento che parte da principi generali e tramite questi cerca di spiegare fenomeni particolari. Parto dal principio della Gravitazione Universale e con questo spiego l'impatto di un meteorite sul nostro satellite. Mentre il procedimento induttivo riguarda il tentativo di stabilire una legge universale osservando i fenomeni "particolari". Allora osservo che tutti gli oggetti sono attratti al suolo, ipotizzo che ciò valga a prescindere da dove mi trovo nel cosmo e ne traggo il principio della Gravitazione Universale. Tra pecore, sassi e Gravitazione Universale, almeno "intuitivamente" si capisce che il processo in atto, dal punto di vista educativo, non è proprio identico.

Questo perché nel primo passaggio, quello dalla pecora alla pietra, domina il lato sensibile ed esperienziale, mentre nel secondo che vede contrapporsi gli stessi alla necessità di intuirne i fenomeni alla base non osservabili direttamete, domina (per forza di cose) il lato astratto ed immaginifico che opera prevalentemente su "informazioni di seconda mano". Il che non significa che non esiste l'osservazione diretta, tutt'altro. Significa che nel processo non è quella componente che domina. Tant'è che è perfettamente lecito fare ricerca senza esperienza diretta. Bastano dati elaborati da altri.

Vorrei inoltre sottolineare le "estremamente" sterili diatribe su cosa sia "esperienza materiale" e cosa no, con l'effetto (forse in certi casi anche voluto) di depotenziare la componente esperienziale della nostra esistenza. Tipo "...alla fine tutto è illusione". Questi genericismi portano confusione e non aiutano la comprensione dei meccanismi alla base dei processi educativi. Se vi aiuta abbandoniamo la terminologia e parliamo banalmente di esperienza sensibile ma aggiungiamo che questa è sempre "integrata" oltre che parzialmente pre-elaborata (dalle stesse terminazioni nervose) e per ciò interessa il corpo nella sua interezza, non frammenti, come ad esempio "il cervello". Non vale neppure dire che "però il cervello è l'unità operativa principale indubbiamente", perché "indubbiamente" non è certo un termine di discrimine per capire l'attribuzione di "principale". C'è una famosa barzelletta, a mio parere illuminante, che alla fine consegna questo attributo al buco del culo.

Certamente possiamo dire che il cervello conserva la sede dell'ipotalamo e della pineale che hanno una attività centrale nella regolazione del bioritmo, ma già da queste parole dovrebbe essere chiaro che non stiamo più parlando strettamente di "unità elaborativa" o di logica, ma di attività come l'alteranza di veglia e sonno o il ritmo cardiaco. Attività intimamente correlabili a quella emotiva e non elaborativa, non trovate?

Quindi l'emozione non elabora? No, elabora eccome, molto di più e in un certo senso anche meglio ma non processa esattamente allo stesso modo e non si "affida" alle stesse fonti. Non fa capo ad esempio a una "legge" di causa ed effetto ma a una più generale di coerenza armonica, di tipo "ecologico" e adattivo. Se una certa risposta appaga viene premiata, altrimenti no e ciò altera la struttura nervosa in vari modi.

La parte che va sottolineata è "più generale". In altre parole, una analisi che si affidi al tentativo di trovare correlazioni di causa ed effetto, si concentrerà sui fenomeni direttamente o indirettamente correlati con l'esperienza. Perché è un modo per elaborare esperienza. Le emozioni invece "creano" (letteralmente) quella esperienza. Quindi operano a un livello superiore (secondo l'ipostazione che sto proponendo).

Possono operare in modo "selvatico" o essere da noi gestite, ma ciò che è obbligatorio dato che "sono comunque più forti della nostra volontà" è comprenderne intimamente la natura al fine di assecondarla e così facendo arrivare dove occorre, cioè agli obbiettivi che ci siamo posti. Dovremmo immaginare l'emozione come una pariglia di cavalli selvaggi che vanno dove vogliono ma spingono in due direzioni opposte.

Questo significa che è impossibile "conoscere" senza emozione. Si può cumulare informazione e si può elaborare la stessa e partire dall'elaborato per ottenere risposte pianificate, ma non è possibile ottenere un I.A. "forte" (vedi QUI, interamente alla teoria dell'intelligenza multipla, quella artificiale) a meno che non venga rivisto il problema del "adattamento" in correlazione a quello del "radicamento".
 
A questo proposito faccio notare che le radici di una pianta sono strutturalmente simili a quelle di una terminazione nervosa.
 
In altre parole, la qualità dell'interazione con l'ambiente dipende strettamente dal tipo di radicamento che stiamo considerando. Se la radice è un filo (come nel caso del dispersore unico di un parafulmine) avrò una qualità bassa dell'interazione, cioè semplice, se ho una diramazione (come l'antenna televisiva) ne avrò una complessa. I due aspetti rimangono interdipendenti e l'uno non può "evolvere" senza l'altro.

Così avremo terminanzioni nervose più semplici nel bambino che mano a mano che si ramificano nella crescita, fanno acquisire migliore adattamento comporamentale rispetto gli stimoli provenienti dall'esterno del corpo e quindi acquisicono contemporaneamente informazione e capacità elaborativa (generica) che si alimenta e arricchisce in un circolo virtuoso. Terminazioni nervose più evolute daranno risposte più complesse fino all'età adulta dove il processo si "stabilizza" e rallenta anche per evitare inutili sovraccarichi.

Quando parliamo di "stimoli", il territorio o terreno entro cui avvengono è esiziale se omesso. Cioè imprescindibile. Tuttavia viene pedissequamente adombrato, come fosse velleitario, illusorio. In questo caso ne abbiamo due e le analisi si complicano. C'è il territorio esterno al soggetto da cui provengono gli stimoli e quello interno in cui gli stessi sono "coltivati". Gli stimoli sono per ciò anche quelli chimico-fisici interni, ad esempio la presenza o meno di certi ormoni o di certi campi elettromagnetici (che alterano le pompe ioniche fondamentali nei processi cellulari). Anzi sono quelli prevalenti e che agiscono come una sorta di "inerzia nervosa", cioè costituiscono lo "stato" psicofisico di generale di partenza del soggetto, entro cui lo stimolo poi agisce. Se in sostanza "sono stanco" non reagisco allo stesso modo rispetto a quando sono riposato e questo riguarda tutti gli stati emotivi cumulati sovrapposti, come l'ansia ad esempio.

Per ciò concentrarsi sui fenomeni che si producono all'esterno del corpo diventa dispersivo. Sarebbe necessario fare una marea di distinzioni che rendono inutilmente complesso il fenomeno.

Possiamo per ciò ridurre a due categorie tutte le emozioni dall'interno, a seconda di come classifichiamo il modo in cui agisce su di noi: attrazione e repulsione. Esiste anche una terza categoria che è quella fondamentale, ed è neutra. Tuttavia quello stato è il punto "di massimo equilibrio emotivo" a cui non tendiamo, perché porta "distacco" dall'esperienza sensibile e il distacco è sempre dal desiderio, il desiderio di ciò che vogliamo (diretto) e di ciò che non vogliamo (indiretto). L'esperienza timica positiva, come il piacere nel cibo, pensiamo al cioccolato, induce a desiderare di riprovare l'esperienza (cercare altro cioccolato). Per ciò il bambino quando vede nel supermercato caramelle e cioccolatini colorati esposti in bella vista e a portata delle sue mani, li vuole e tende a prenderli.

Gli adulti estranei a tali stimoli, solo hanno costruito sopra altri "processi" di elaborazione dell'informazione che possono mitigare o addirittura inibire l'azione. Ad esempio (semplificando molto) ne facciamo abuso (del cioccolato) stiamo male e questo mitigherà successivamente la nostra voglia di altro cioccolato.

Ovviamente in questo processo "di apprendimento" (atomatico o timicamente guidato) le norme sociali e le inibizioni introiettate tramite di esse (per esempio premi e punizioni) faranno la parte del leone e da qui abbiamo ad esempio Vygotsky.

Bene, in tutto ciò dov'è finito quell'educere che da noi vorrebbe estrarre l'informazione? Ce lo siamo perso per strada e non è una piccola perdita. Tutt'altro! Intanto è una perdita procedurale e poi diventa anche sistemica. Cioé smetto subito di pensare "intrisecamente" che basti quello che già c'è e che deve essere portato alla luce e inizio a pensare che intervenire, di forza e di prepotenza, per "governare" l'accadere sia essenziale, non esiziale. Il passaggio è talmente facile e unidirezionale che non ce ne accorgiamo. Da prima diciamo che il bambino ha diritti e deve esprimere la sua creatività e poi lo mettiamo per tale ragione in un banco a guardare fisso in una direzione, quella del maestro, in un sistema che giudica in base al comportamento "adeguato" rispetto al governo dell'istituzione in cui si trova. Come la campanella.

E il bambino? Non c'è. E' ridotto subito a un accessorio che ha un sacco di "voglie" sbagliate, da correggere. Come quelle del supermercato che tanto mettono alla prova il genitore quando si approssima alla cassa. Da qui capiamo bene che il problema non sia il bambino e la sua esigenza di crescere e fare esperienza, ma l'ambiente che è straordinariamente velenoso, nel senso stracolpo di stimoli volti a distorcere in qualche modo la risposta timica infantile, adattandola al veleno e poi si deve correre ai ripari per limitare i danni. Gli adulti sono già assuefatti e la loro opera si riduce con ciò per lo più fare si che il bambini divengano altrettanto assuefatti, riducendo al massimo gli effetti collaterali. Come lo stress e l'ansia.

Allora avremo una relazione che è quella rivolta a potenziare le capacità inespresse che poi sono quelle richieste dalla società mercantilista di cui facciamo parte. L'adattamento al veleno. La società della produzione e del consumo, ma soprattutto dell'inganno e del malaffare, sua inevitabile evoluzione. Poi ne avremo una depotenziata o depotenziale, nel senso che depotenzia il rapporto tra l'individuo e il suo desiderio (il veleno) e con ciò diventa ovviamente auspicabile nella misura in cui riduce gli effetti distruttivi dell'ansia, vero male del nostro tempo. Tuttavia lo affranca anche dalla "dittatura" del materialismo, della brama di possedere, dalla atrofizzazione dei processi elaborativi timici (come le ossessioni) o dalla necessità compulsiva a ripetere certi comportamenti (autismi) nel "piacere". Siccome ridurre tali distorsioni non è funzionale al rapporto con l'assetto sociale vigente, viene limitato (magari dalla parcella?) e al più sfruttato come azione contenitrice delle derive più indesiderabili.

In questo senso avremo per ciò le azioni di "cura" spicologica che si faranno tanto indispensabili quanto risibili nei risultati.


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