Sorvegliare i pensi...
 
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Sorvegliare i pensieri...


GioCo
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Tempo fa scrivevo: "cos'è il pensiero?"

In effetti è strano che di materie così centrali per la nostra Vita si sappia così poco. Siamo immersi nella "cultura del fare", nel senso che per noi spesso l'atto, l'agire, corrisponde poi alla cosa in sé.

Ad esempio, quando ero alle superiori durante una appassionante lezione di fisica, la nostra professoressa era riuscita dopo parecchi studi e ricerche personali a riproporci l'esatto percorso "mentale" che portava alla formula matematica della gravitazione universale.

Certo, un conto è scrivere una formula e limitarsi a dire "ecco, questa è la formula di Newton" e te la impari a memoria, come di solito accade. Ben altro è arrivare a ricostruire il percorso del pensiero fatto per concepire quella formula e quindi mostrare da dove viene. Tanto di cappello alla mia professoressa, certamente. Ma siccome il mio demone non mi da scampo il ditino l'ho sollevato lo stesso, pur sapendo cosa comportava quello che stavo per fare e quando mi è stata data la possibilità di fare la fatidica domanda ho "mollato la bomba" chiedendo: "...che cos'è la gravità?".

Ora, dovete figurarvi che sta poveraccia aveva compiuto uno sforzo non indifferente (non era certo una cima) per spiegare a una classe media di somari di un IPSIA, riempito da figli di papà dell'alta brianza più interessanti alla gangia che all'istruzione, qualcosa che di certo il programma scolastico non richiedeva e per ciò fatto per puro amore dell'insegnamento e dopo tanta pena la prima domanda "intelligente" che riesce a raccogliere la mette in serio imbarazzo. Lei non aveva alcuna colpa, lo stesso Einstein era perfettamente consapevole del limite enorme che la scienza affrontava: non poter conoscere la natura di ciò che fisicamente viene osservato, ma solo il comportamento. Qundi viene descritto quello e basta. Limite che certo a Newton importava ma che poteva ancora "sopportare", diversamente da Einstein, che infatti formula l'ipotesi del "tessuto spaziotemporale", una sorta di volume entro cui le masse si muovono che possiede caratteristiche proprie della materia, come l'elasticità.

Tuttavia questo era troppo per la mia docente, per il contesto e per l'epoca. Per ciò si è limitata a guardare la lavagna con aria stordita, come per rivolgesi in preghiera silenziosa alla testimonianza della riuscita di tutto il suo sforzo, aggiungendo: "...questa, l'ho appena scritto!". Poi si è anche inca%%azzata quando ho insistito sottolineando che la formula ci diceva solo cosa faceva la gravità, non cos'era.

Eppure tutto ciò era infinitamente più illuminante della conoscienza del fenomeno fisico. Era un tipico fenomeno umano che oltre ogni evidenza ci condiziona tutti, indifferentemente e si impone senza che ce ne accorgiamo governando i nostri "comportamenti". Proprio come la gravità, possiamo descriverli e così facendo illuderci di governarli, quando invece la differenza sta nel riconoscere la natura di quei comportamenti, perché a seconda della medesima, cambiano profondamente i significati dei fenomeni che diventano "coerenti" con l'accadere.

Qualcuno potrebbe dirmi che anche la formula della grativazione universale è coerente e che conoscere la natura fisica del fenomeno non cambierebbe la formula. No, non la cambierebbe, certamente. Tuttavia quella formula descrive un aspetto del fenomeno, non il complesso. Un po' come descrivere i piedi di un corpo e confonderli con il corpo. Einstein fa quello che fanno tutti i ricercatori e allarga l'osservazione per comprendere fenomeni che quella formula non è in grado di descrivere. Pur comprendendo che la stessa rimane un tassello essenziale di cui non si può fare a meno, però per lui può essere al più un punto di partenza, non "la gravità" in quanto tale.

E per noi? Ecco, qui arrivano le note dolenti. Per noi "umani" in generale le cose non stanno proprio così... Come è accaduto in questo episodio, tendiamo a confondere spesso e volentieri la natura dei fenomeni con ciò che accade. Dovremmo accorgerci "dell'errore"? Si, ma a imperdirlo intervengono meccanismi che "usano" la nostra capacità di intendere e di volere "contro di noi". Ci costringono a contorcimenti che somigliano più a quelli osservabili in un nido di serpenti o di vermi. Non violano i principi di causa e di effetto ma tendono ad abusare della verità.

Cioé concepiscono il "verosimile", un ragionamento mediamente accettabile che ci fa riflettere poco e male, cioé "rapidamente". Tutto dipende quindi dalla velocità con cui procede il pensiero. Rallentando un qualsiasi "ragionamento" posso accorgermi se è verosimile e quindi se l'ho "incorporato" nel mio sistema timico come "credenza" e con ciò, con questa operazione, l'ho assunto "inavvertitamente" come "verità".

Il nostro pensiero non è "lento". Tutt'altro. Ma per funzionare il suo rapporto rimane inverso rispetto il tempo e quindi deve procedere per una via inversa rispetto la velocità. Più rallentiamo, più "il pensiero" (per paradosso) ci permette di "riflettere". Al punto che se fermiamo il pensiero, "tutto" diviene più chiaro, tutto appare evidente. Poi di certo rimane la difficoltà di "tradurre" tale chiarezza a livello verbale. Perché si tratta di una chiarezza paraverbale e preverbale che prescinde la parola e "arriva tutta insieme". Tuttavia non è una sensazione e non è "intuizione". Non è in altre parole "illusoria" perché possiamo sempre averne riscontro pratico poi in concreto, nel nostro quotidiano. Semplicemente accediamo a un altro livello di conoscienza, diciamo "un database cosmico" posto a un livello che (in un certo senso) appare illimitato. Facciamo l'etteralmente un "tuffo" nell'oceano della sapienza.

Bene, tutto ciò per arrivare a dire quello che (al solito) il mio demone mi comanda e che è riassunto nel titolo. Per arrivare a capire l'importanza di "sorvegliare i pensieri", non ci basta la "formula" che li descrive. Siamo in un certo senso "obbligati" a includere la loro natura.

Certo, teorica, ma coerente. Nella teoria dovremo cioè tenere conto del "comportamento" del fenomeno e cioè osservare come rallentare il pensiero comporti un automatico quanto deciso miglioramento del funzionamento generale del processo, cioè della qualità del nostro "riflettere". Un ipotesi che possiamo quindi fare è che il pensiero non ci appartiene. Sia più simile a un disturbo, una intromissione indebita, come nelle trasmissioni radio può essere un interferenza.

Se noi non riteniamo che tale interferenza possa esistere mentre agisce, il risultato sarà che essa nell'agire si confonderà con il normale funzionamento del sistema. A questo punto l'interferenza può "suggerire" qualsiasi puttanata, inserendosi nel processo cognitivo come ne facesse naturalmente parte e per fini e scopi che ovviamente non hanno niente a che vedere con l'interesse del soggetto. Parliamo in altri termini di "possesione tecnica".

Immaginate di essere un pilota di aereo e di dover impostare la rotta. Avete tutti gli strumenti a bordo necessari, compresa la cartina e la cognizione di dove vi trovate in quel dato momento. Ma a un certo punto la radio inizia a dare indicazioni a caso mettendovi il dubbio che la lettura degli strumenti non sia corretta. Il risultato è scontato: andate fuori rotta e vi perdete. La confusione, cioè il non sapere più dove vi trovate, sarà una "conquista" inevitabile. Ipotiziamo che qualsiasi "cosa" vi ha dato quelle istruzioni via radio avesse esattamente quelle intenzioni. Cioè di portarvi verso la confusione. Adesso che fate? La logica vorrebbe che si torni indietro. Ma la radio di nuovo interviene e vi dice che non avete carburante sufficiente, che non avete seguito bene le istruzioni fornite per il vostro bene e che fidarsi degli strumenti a bordo quando la vostra prospettiva è così limitata non va bene. Dovete avere fiducia in chi vi può guidare perché vi vede in un contesto molto più ampio e quindi ha possibilità di trarvi di impiccio molto maggiori delle vostre. La Mente.

Ok, suona corretto. Sembra "vero". Ma anche no. In effetti non sappiamo quali siano le intenzioni di chi è intervenuto tramite radio. Il casino però diventa ingestibile se riteniamo tale intromissione "affidabile" e indistinta dalla strumentazione di bordo. Anzi, più efficace perché "più potente".

Anche se non sappiamo se tale potere condivide i nostri interessi, lo diamo per scontato perché non lo separiamo da noi. Ora, risparmiatemi la lezioncina sul fatto che tutto il cosmo è parte di ciò che siamo, qualsiasi tigre affamata è parte del cosmo tanto quanto me, ma questo non la obbliga ad essere necessariamente amichevole nei miei confronti se la incontro, tant'è che è bene non incontrarla affatto. Tuttavia da qui a considerare ogni tigre l'equivalente di una bestia "amichevole" preoccupata di aiutarmi nel bisogno... Ne passa.

Certo, alla tigre farebbe comodo. Lei non è contenta di doversi procurare con fatica il cibo. Come non lo siamo noi, tant'è che il cibo lo abbiamo domesticato "per farsi mangiare". Lo alleviamo e poi ce lo mangiamo.

Inoltre di essere aiutato nel bisogno fa comodo uguale anche alla "preda" e crea legami di interdipendenza anche molto forti "tra specie". Questo lo sappiamo noi quando alleviamo le bestie, tant'è che possiamo scegliere se poi mangiarcele o giocarci e forse lo sa chi ha interesse ad allevare noi tramite il pensiero. Non so se è "vero" e non mi interessa, come sempre mi interesso di coerenza, non di verità. Per ciò invito a riflettere sugli argomenti che propongo, criticandoli e cercando di metterli in dubbio con "intelligenza", non a prenderli per "veri" e crederci, come atto di fede. Invito a "usarli", come fossero attrezzi da lavoro, per osservare cosa ne ricaviamo.

Ora, concludo. Cos'è il pensiero? Rimaniamo sulla domanda e iniziamo ad accettare profondamente che non lo sappiamo e forse non avremo modo di saperlo in questa vita. Tuttavia se fosse frutto di un "disturbo" tenderebbe a portare confusione ed è guardacaso proprio ciò che osserviamo in pratica. Più pensiero = più confusione. Questo non ci dice molto sul rapporto o meno amichevole che il pensiero può instaurare con noi. Non possiamo infatti dire che non ci è mai amichevole. Ma da qui a concludere che sia "nostro" e che produca "il nostro bene", rimane un oceano di possibilità ignorate nel mezzo, tutte più o meno variamente inquietanti.

Il fatto che lo siano (inquietanti) non dovrebbe invitarci a fare finta di nulla ma al contrario ci impone di fare più attenzione.


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sarah
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Non riesco ad inquadrare bene, perdoni se parto da così lontano non volendo affatto banalizzare, cosa intenda esattamente con "pensiero". La cosiddetta "attività cerebrale superiore", cioè non dedita alla mera percezione o al controllo degli organi del corpo oppure solo una parte specifica di essa? Una linea di demarcazione potrebbe essere tra l'attività intellettiva nel suo complesso ( e che comprende quindi la parte percettiva e motoria ) e quella che mi sento di chiamare "verbale", cioè il pensiero che utilizza le parole. Tradizionalmente la psicologia ( Piaget ) riconosce all'aspetto cosiddetto sensomotorio un ruolo fondamentale, specialmente nella prima infanzia, nello sviluppo delle fasi successive più complesse che includono l'acquisizione di procedimenti operativi via via più complessi fino alla piena capacità di astrazione che aprirebbe le porte alle funzioni più elaborate dell'intelletto. Secondo Vygostkij, poi, non ci sarebbe pensiero senza linguaggio, le due manifestazioni sarebbero collegate ed imprescindibili l'una per l'altra. Ecco perché mi sembra coerente immaginare che lei intenda con "pensiero" la parte verbale, il nostro "discorso interiore". Mi potrà correggere se sbaglio. Solo così però sono in grado di seguire la sua riflessione in cui intuisco che lei veda una sorta di "interferenza" del pensiero che io chiamo verbale su quello più ampio che comprende l'aspetto sensoriale. E su questo mi trova d'accordo. Immagino che la sua insegnante di fisica, quando cercò di ricreare il processo di ragionamento che conduce alla legge di Newton, abbia fatto in parte ricorso ai cosiddetti nuclei fondanti dell'argomento, cioè quegli elementi che possono essere condivisi da più persone possibile grazie all'essenzialità dei contenuti. La presentazione dei nuclei fondanti di un argomento riduce al minimo il ricorso al pensiero complesso e, secondo la mia esperienza personale di insegnamento, tende anche a limitare il ricorso al pensiero "verbale" per lasciare spazio a quello più primitivo, se mi consente il termine, quello cioè che coinvolge l'aspetto sensoriale. Se questo però mi permette di comprendere o di far comprendere la manifestazione di un fenomeno ( anche naturale come nel caso che cita lei ), non mi consente invece di cogliere la vera natura o essenza del fenomeno ( Che cos'è la gravità? - non certo una formula scritta con il gesso su una lavagna ). E così si ripropone, ogni volta sotto i nostri occhi, l'evidente differenza interpretativa tra la psicologia che attribuisce alle percezioni l'origine del pensiero e quella che invece lo vede pienamente compiuto solo nel suo legame indissolubile con il linguaggio. Sarebbe abbastanza eretico, per lo meno in una disquisizione formale, sottovalutare il ruolo espressivo ed organizzativo della lingua sull'intelletto umano però io stessa spesso mi pongo questa domanda: veramente la lingua espande il pensiero oppure a volte lo imprigiona e lo ingabbia in categorie prestabilite non sempre utili alla comprensione della realtà? Il nostro "discorso interiore" ci può distrarre da un'esperienza piena di contatto con l'ambiente? Beh, credo di sì, in una certa misura. Ho avuto anch'io questa esperienza: escludendo il pensiero verbale, mi accorgo di raggiungere più facilmente una sorta di equilibrio che, almeno apparentemente, non mi allontana dalla comprensione e non mi fa retrocedere ad uno stato infantile ma, anzi, sembra il mezzo più veloce per riuscire ad apprezzare il bello, rifuggire dall'emotività improduttiva e questo senza ricorrere alla via tortuosa del ragionamento a parole che inevitabilmente passa attraverso categorie prestabilite che cercano solo di riassumere alla meglio concetti e verità che sono condivise dai più ma non necessariamente sono utili a comprendere ciò che in un preciso istante stiamo vivendo. Naturalmente la riflessione si può sviluppare su più piani, questa è una mia lettura. 


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GioCo
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Pubblicato da: @sarah

Non riesco ad inquadrare bene, perdoni se parto da così lontano non volendo affatto banalizzare, cosa intenda esattamente con "pensiero". La cosiddetta "attività cerebrale superiore", [...]

Lettura affatto banale e giustissima critica implicita.

Non ho voluto approfondire sia per amore della sintesi, sia perché gli aspetti "tecnici" (corporei) paradossalmente ripropongono lo stesso problema: ci si concentra sul funzionamento per "non fare attenzione" alla fonte che permette tale funzionamento.

E' meccanico, come vedere la destra o la sinistra: con due paia di occhi frontali non riesco a vedere i due lati dell'orizzonte contemporaneamente. Devo per forza vedere un pezzetto e poi "unirlo" agli altri per avere una panoramica generale.

Questo implica che l'elemento centrale dell'osservazione è sempre l'immaginazione. Però l'immaginazione è un poco più semplice da definire rispetto il pensiero, perché qualche aggancio poi "tecnico" (sempre corporeo) ce lo abbiamo. Sopra la pinneale saprà meglio di me (credo) esistono dei fotoricettori, simili a quelli che abbiamo nell'occhio. La prima domanda che viene spontanea è cosa dimanie ci fanno lì... In una zona del corpo che difficilmente verrà raggiunta da fotoni, dal momento che è una delle più buie. Ma forse è esattamente per quello che si trovano in quel punto, perché è una delle zone più buie.

Se infatti voglio "ricreare" un immagine, come in una camera oscura di un fotografo, non ho bisogno di una interferenza esterna ma di "filtrare" la luce che mi serve in una situazione di generale assenza.

Questo modo di procedere della natura, diciamo "in negativo", è proprio "l'agire" umano e si somma alla necessità di un rapporto tra le parti, un equilibrio che veda sempre contrappesi non equivalenti. Ad esempio nella teoria che divide il cervello in due emisferi la lateralità funzionale non ha una distribuzione omogenea e se tutto va come deve andare un emisfero è bene prevalga sull'altro perché nella elaborazione del pensiero (per esempio per decidere cosa fare in una determinata situazione) questo riduce la possibilità di "blocco" (=non sapere cosa fare). Diciamo che tendenzialmente prendere una decisione anche sbagliata su cosa fare è meglio che rimanere in situazione di stallo. Questo perché procedere anche a casaccio permette poi di correggere il comportamento (oltre che di trovare strategie alternative a cui "non avevamo pensato") e noi tendiamo a funzionare esattamente in questo modo, cioè "procedendo per errori", dal momento che la natura considera l'errore una risorsa e non un problema da eliminare.

Tutto sta a ridurre l'azione "a casaccio" al minimo. Perché l'abuso porta confusione.

Ovviamente questo discorso prescinde poi dalla necessità tipica della natura di "non buttare via niente" e quindi nemmeno lo stallo che infatti può essere utile in tanti frangenti e quindi "provocato apposta". Un esempio classico è l'animale che in situazione di pericolo "si congela" e fa finta di essere morto.

Tutta questa lunga premessa era per dire che quando parliamo di "pensiero" parliamo di una materia che non è affatto banale o scontato inquadrare, nonostante tendiamo a trattarla come se invece ne avessimo compiuta consapevolezza. Ma voglio approfondire perché la citazione sia di Piaget che di Vygostkij in un certo senso mi costringe. Putroppo più si approfondiscono certe tematiche, a prescindere dalla disciplina e qui includo ovviamente anche la matematica in quanto quella più rappresentativa a livello simbolico, più ci si scontra con l'impellente necessità di precisione che viene puntualmente disattesa dalla necessità di comunicare: o comunichi o sei preciso. Un po' come il gatto di schrödinger insomma o il paradosso dell'eletrone che una volta stabilita la posizione non se ne può determinare con precisione il tempo o viceversa, stabilito un tempo non si riesce a capire dove sia e ciò induce il fisico a descrivere l'orbitale di un atomo come una "nube elettronica" come se l'elettrone fosse sovrapponibile allo stesso orbitale.

Ora la questione di lana caprina è se ciò sia una questione fisica o se invece dipenda dal pensiero. Come se "pensare" porti in sé confusione o come se (riproponendo la questione dell'abuso) ne stiamo facendo forse un credo di questo "pensiero", una specie di ente divino indistinto (e quindi mitico oltre che mistico) verso cui concedere potenzialità che non possiede, ma in parte eredita a causa di una inevitabile proiezione. Allora abbiamo un Piaget che giustamente osservando il bambino tende a dare alla dimensione sensomotoria un ruolo centrale, scordando (tra le altre cose) che nel bambino è la gioia che guida non il corpo. Oppure abbiamo un Vygostkij dove, sempre giustamente e sempre dal suo punto di vista, non può esserci un pensiero senza il linguaggio, non vedendo come tutta l'espressione comunicativa che lo circonda ha basi che non corrispondono "esattamente" alle regole di un linguaggio ma a quelle "straordinariamente" più articolate dell'emozione. Il Mondo non funziona in base a linguaggi, come il computer (oltre ogni evidenza evidente) con tutta la sua intelligenza non riesce ad "adattarsi" all'ambiente e alla mutevolezza dei contesti "parlando", rimane rigidino. Quello è un pezzetto del complesso, certamente importante e da studiare come stiamo facendo, ma solo una parte, nemmeno centrale.

Tutto qui.

Nel concludere, lascio una ennesima provocazione: secondo lei "pensiamo" col cervello o con tutto il corpo?


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sarah
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Sembra che la disomogeneità della lateralità funzionale e l'aumento del numero delle fibre non crociate rispetto a quelle crociate seguano il grado di "evoluzione" del cervello: queste caratteristiche sarebbero nette e spiccate nei vertebrati "inferiori" come pesci e anfibi e sempre meno riconoscibili nei mammiferi. Ciò sembra anche collegato ad un aumento dello sviluppo della neocorteccia e dunque suggerirebbe che questa tendenza corrisponda alla capacità di esercitare un'attività cerebrale "più complessa". Non mi addentro ulteriormente nei dettagli propri delle neuroscienze perché corro il rischio di riportare inesattezze fuorvianti. Sembrano però molto chiari i limiti di questa teoria che ha indagato, io direi superficialmente, il fenomeno senza come al solito comprenderne l'essenza. Dando un minimo di credito alle teorie evoluzionistiche, essa ci suggerirebbe che tale riduzione ( di lateralità e di fibre crociate ) rappresenti un qualche vantaggio adattativo e che quindi anche il rischio di "blocco decisionale" non sia poi uno svantaggio in sé ma probabilmente solo un segno di maggiori capacità di elaborazione. 

Mi allontano però dalle "solite" conoscenze teoriche altrimenti non riesco nemmeno a tentare di uscire dall'ingessatura di ragionamento che la nostra riflessione vorrebbe un po' superare. Noi attribuiamo allora forse al pensiero un ruolo che non ha e che non può avere, facendolo assurgere ad una dimensione "mistica"? Se esso finisce per partorire cose come il Principio di Indeterminazione di Heisenberg in cui descrizione del fenomeno e precisione non possono coesistere, cosa è successo? Non è affatto semplice rispondere ma posso procedere da alcuni "punti fermi": a partire dall'Illuminismo tutto ciò che si occupa di descrizione di fatti e fenomeni è andato via via a costituirsi nel famoso "pensiero scientifico", prima del Settecento non esisteva una Scienza o uno scienziato ma piuttosto una Filosofia ( nel senso letterale del termine, amore per la conoscenza ) e dei filosofi. Solo successivamente la scienza diventa disciplina autonoma ed elegge il Metodo Sperimentale come principio guida unico e irrinunciabile. Solo che così il metodo scientifico sperimentale è diventato irrimediabilmente dipendente dalle categorie, esso è un ragionamento categoriale. Noi tutti siamo stati formati secondo un metodo basato sulle categorie e non c'è "divergenza" che tenga, nemmeno nelle istituzioni più prestigiose, se si cerca di sfuggire al loro uso. Troppo complesso dilungarsi sul fondamento epistemologico del ragionamento categoriale e sulla sua validità ma, a mio modestissimo avviso, uno dei limiti è proprio rappresentato dalle categorie stesse che sono rimaste abbastanza immutate dal momento in cui si è concepito il metodo scientifico stesso. Individuare una nuova specie o descrivere su un rivista prestigiosa un tipo di fulmine rilevato in alta atmosfera non significa né modificare, né innovare le categorie poiché esse sono sempre generate da uno schema preesistente. Ecco perché, quando si arriva ad indagare l'infinitamente piccolo ( Heisenberg ) o altri campi complessi si finisce per dover parlare di "indeterminazione" o "singolarità" per dare un nome a ciò che un nome non ha, forzato com'è all'interno delle categorie intoccabili. Nel mio piccolo a volte mi domando se il precedente metodo "filosofico" non sia stato stracciato troppo in fretta, se non ci sia stato anche solo un suo elemento che magari avrebbe fornito strumenti e chiavi di lettura ormai impossibili, se non "eretiche".

Questo vale anche per gli aspetti psicologici di cui abbiamo parlato: io ho citato i pedanti Piaget e Vygostkij per dare un primo inquadramento al problema ma infatti è proprio da queste premesse che, anche nel campo della psicologia, saltano fuori diversi "principi di indeterminazione". Quando lei dice che non è l'aspetto senso-motorio ma molto di più quello emotivo che guida lo sviluppo psichico del soggetto dice una cosa assolutamente vera. L'aspetto senso-motorio non è certo privo di importanza ma quello può bastare anche per programmare una macchina ( come i famosi robot con tanto di AI che ti stupiscono con le loro doti di automi ). E così, non potendo negare l'importanza delle emozioni ma non sapendo bene dove collocarle nelle eleganti teorie, ci si limita ad affermare "l'enorme importanza dell'aspetto emotivo nello sviluppo e nell'apprendimento". Ma così si è detto ben poco. Ma perché, ad esempio, lo sviluppo deve avere per forza delle "fasi" con dei confini ferrei e perché deve essere per forza un "processo" del tutto simile all'algoritmo di una macchina? Questo è utile per la descrizione ma credo che tolga indebitamente una parte rilevante di complessità al fenomeno. Forse noi ( occidentali in primis ) abbiamo inventato un metodo d'uso dell'intelletto che limita il pensiero stesso? Oppure esso è limitato per sua natura? Non conosco se non molto superficialmente le filosofie orientali che forse, a tal proposito, avrebbero da offrire qualche spunto di riflessione. 

Pensiamo con tutto il corpo? Io dico di sì, l'identità fisica e la percezione del corpo stesso si integrano con il pensiero e gli danno forma, carattere. I ricordi stessi sono il risultato di esperienze vissute con il proprio corpo e i propri sensi, io sono abbastanza convinta che tutto il nostro insieme concorra a formare il pensiero. Anche questa conversazione a distanza che stiamo tenendo ne è un po' un esempio: ci limitiamo a leggere messaggi scritti senza poterci vedere in faccia, percepire le nostre espressioni, cogliere il tono della nostra voce, la nostra età, l'eventuale accento regionale ( se lei dice di aver studiato nell'alta Brianza non siamo poi così lontani ) eppure anche tutto quello che abbiamo prodotto qui viene prima essenzialmente dal nostro corpo. Qualcosa di noi traspare dalle nostre parole che non pronunciamo a voce alta ma sono il frutto del nostro pensiero. E non credo sia vero, come alcuni affermano, che la coscienza o il vissuto di una persona sia tutta contenuta nel cervello e potrebbe addirittura essere "trasferita" su un supporto di altra natura purché dotato di sufficiente potenza di calcolo. Chi è credente ma anche chi non lo è può rammentare il punto di vista religioso come esempio che a tal proposito afferma che la vera risurrezione è rappresentata dal ricongiungimento finale dell'anima con il corpo affinché l'essere ritorni ad una sua piena dimensione di compimento. Sono stata lunga ma la conversazione e l'argomento sono piacevoli.

 


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GioCo
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Mi scuso per il ritardo nel rispondere ma in questi giorni non era proprio per me possibile dedicarci tempo. Provo a dare qualche risposta adesso.

Ma perché, ad esempio, lo sviluppo deve avere per forza delle "fasi" con dei confini ferrei e perché deve essere per forza un "processo" del tutto simile all'algoritmo di una macchina?

Perché il corpo è (fondamentalmente) una macchina programmata per agire in quel modo. Straordinariamente più complessa di qualsiasi altra cosa possiamo immaginare oggi ma una macchina e come tale si comporta. Diverso è ciò che la "fa funzionare". Come la radio, una cosa è l'apparecchio ricetrasmittente e un altra sono le comunicazioni che vi passano attraverso.

Noi attribuiamo allora forse al pensiero un ruolo che non ha e che non può avere, facendolo assurgere ad una dimensione "mistica"? Se esso finisce per partorire cose come il Principio di Indeterminazione di Heisenberg in cui descrizione del fenomeno e precisione non possono coesistere, cosa è successo?

Un "errore" secondo me abbastanza classico (ma voluto dall'educazione odierna) è concentrare l'attenzione sulle meccaniche e sul loro funzionamento, perdendo di vista tutto il resto. Poi specifico "il resto" che detta così confonde...
 
Voluto perché?
 
A mio avviso è un problema sottile, molto sottile e una traccia la possiamo ritrovare nella storia. Quando i padri della chiesa si confrontavano con il pensiero classico quest'ultimo non aveva un accezione della vittoria in senso selettivo. Mi spiego meglio: è corretto dire che il vincitore fosse l'evidente favorito dagli dei e dal destino, ma non che questo lo mettesse "al di sopra" dell'errore stesso. La volta successiva anche con lo stesso nemico era perfettamente accettato dalla cultura antica che potesse andare diversamente e in genere si incolpava il rito precedente la battaglia, che non era andato bene e non aveva soddisfatto quindi le divinità.
 
Il pensiero cattolico (anti-cristiano) introduce l'infallibilità divina che era un concetto assente nella cultura classica (Cristo parla per parabole e in proposito cita solo un "padre" ma non ci spiega chi è o cos'è). Il divino con cui l'uomo aveva a che fare per quelle religioni antiche era certamente fallibile e lo dimostrava di continuo, perché era migliore dell'Uomo ma tutt'altro che perfetto e con ciò era difficile conquistare il suo favore e spesso non bastava nemmeno quello nel confronto con le altre forze divine. Su questa questione della perfezione poi ci torno, perché qui per me c'è un altro punto di discordanza ma questa volta con le religioni antiche; per ora soprassediamo che se no metto troppa "carne al fuoco" tutta insieme.
 
Siccome il Dio cristiano non ammetteva altre divinità, questo semplice fatto lo rendeva "invincibile" (verso i suoi nemici) in quanto "perfetto". Ma tali attributi erano per lui non per noi comuni mortali. Lascio perdere tutte le disquisizioni teologiche in merito perché ci interessa il concetto che ha prevalso, la sua applicazione pratica nella società e le conseguenze nella quotidianità nostra di oggi. Ciò che mi interessa è sottolineare l'importanza del principio nella conquista militare (storicamente basilare) perché rende possibile introdurre l'altro concetto, quello di concorrenza: siccome non posso stabilire la "volontà di Dio" (perfetto a prescindere) in quanto mero suo seguace umano, è la battaglia che decide e il vincitore è per forza il favorito e colui che per ciò "ha divinamente ragione", dal momento che non ci sono "altre volontà divine" che possano operare. Questo ha trasformato profondamente il significato del confronto tra uomo e uomo e in specie quello in battaglia aprendo strade via via sempre più oscure verso derive veramente molto "pesanti".
 
Ora torno "al resto" che ho lasciato in sospeso. Si da per scontato, grazie alla culla della modernità ormai ossessivamente competitiva, che sia il corpo la sorgente del pensiero e in particolare il cervello. Ma se così non fosse? In effetti esiste la possibilità infinitamente più coerente che il cervello sia solo una sorta di "ricetrasmittente" sintonizzata su certi canali piuttosto che altri. Bisognerebbe comunque capire la natura del pensiero, ma come ho specificato più volte, non ne sappiamo nulla. Come della natura di tante altre cose altrettanto importanti, tipo la gravità ("solo" il primo e più importante fenomeno studiato dalla fisica moderna e che ne ha decretato con ciò di fatto la nascita) o l'energia. Le descriviamo, come noi potremmo descrivere i programmi di una emittente radio e credendo che la sorgente sia la radio stessa. Siamo al punto di escludere pedissequamente qualsiasi fenomenologia che mette in discussione il postulato che è il cervello a generare il pensiero, defenestrandola come "atto pagano" perché si. Uno tra i tanti che potremmo citare, nemmeno il più esotico, è l'OOBE, in cui gente descrive fenomeni che la circondano in momenti in cui "tecnicamente" vengono registrati come morti dalle apparecchiature mediche. La "scienza" si arrampica allora sui vetri, non per cercare di spiegare l'accaduto, ma per confutare l'esperienza. Per esempio dicendo che è una forma allucinatoria dovuta all'attività residua del cerebro (quasi morto, cioè che sembra morto ma che ha ancora deboli attività residue) che ricostruisce l'intera realtà 3D come in sogno. Che se fosse vero intelligenza artificiale spostati che non sei un c... O no?
 
Sarebbe tutto più semplice se ammettessimo che il pensiero è indipendente dal corpo. Esiste anche senza il corpo. Come il segnale radio che per esistere non ha bisogno della radio ma di un emittente. Quindi la domanda potrebbe cambiare e al posto di "come fa il cervello a generare pensiero" girando a vuoto nell'impossibilità di dimostrare qualsivoglia cosa in merito, potrebbe essere "qual'è la fonte del pensiero" e forse così potremmo scoprire anche qualcosa circa la sua natura.
 
D'altronde sostengo che le cose funzionano entro ciclicità e la consapevolezza sulle meccaniche di "come funzioniamo" e "come siamo fatti" non fanno eccezione. Quest'era dominata da un certo pensiero cattolico, quello della redenzione, del peccato e della colpa, della elezione della sofferenza come mezzo per arrivare a Dio e del castigo come risultato delle nostre cattive azioni per non aver accettato tale "invito", nato dalla necessità di attribuire al corpo la colpa e quindi la sua fustigazione continua per "educare la carne debole" a stare al suo posto, cosa che lo stesso Cristo mai s'è sognato di insegnare secondo gli stessi vangeli (tutt'altro!) secondo me è invece l'evidenza plastica di un certo degrado spirituale che ha preso a mezzo di scambio un certo messaggio perfettamente coerente e poi ne ha fatto tutt'altro, ottenendo il punto più basso mai raggiunto di consapevolezza generale su di noi e sui fenomeni che ci cirondano, mantenendo tale oscurità nel tempo con presa "ferrea". Presa che adesso sta un poco cedendo...
 
Siamo in una gabbia dalle pareti molto strette, tipo quelle degli allevamenti intensivi. Entro questa gabbia sprofondiamo (crescendo in età) verso la follia e non c'è scampo. Per nessuno. Il corpo non è progettato per stare in spazi così angusti e ciò che si esprime per tramite suo anche meno. Per ciò abbiamo profondissimi squilibri che non si manifestano tanto a livello razionale, ma emotivo. Per questo è essenziale "stare lontani" dalle emozioni (secondo me) e descriverle come fossero "oggetti strani" e confusi, da una prospettiva lontana, il più possibilie lontana. Per questo invito così insistentemente a osservare il funzionamento emotivo da vicino e dal punto di vista meccanico, perché se siamo in un mondo che vede tutto tramite la lente della meccanicità, non si capisce perché l'emozione debba rimanere estranea a questo approccio. Giusto o sbagliato, poco importa. Secondo me è già sufficiente ed è per questo che alla fine non si tratta mai l'emozione se non come "patologia" o come un "fenomeno esotico e mistico".
 
Una delle grandi "battaglie" ideologiche cardinali a proposito, del nostro recente passato, era tra Kardec e Freud. Uno sosteneva la vita oltre la vita cercando di applicare le conoscenze moderne per provarne l'esistenza e l'altro i "fenomeni della Mente" da lui scoperti che in sostanza riducevano tutto a un illusione o poco più, dovuto in pratica a traumi (=botte in testa). Un filosofo "contro" un medico specializzato in traumatologia neurologica. Chi ha "vinto" è storia e per noi Kardec oggi è un curioso personaggio da trattare alla stregua di tanti altri fenomeni da baraccone, tipo la strega dentro un carrozzone gitano. Anche se a ben vedere avremmo avuto ben più ragione raziocinante di trattare in quel modo Freud, dal momento che se da una parte abbiamo una montagna inesaurita di esperimenti tentati con più o meno successo ma comunque condotti entro il metodo scientifico, lo stesso Freud decide di "uscire" dal metodo dichiarandolo inadeguato per il suo approccio e ne riformula un altro "dedicato" che ne auto-conferma i risultati. Come dire "me le canto e me le suono da solo".
 
Con ciò non dico che Freud non abbia meriti. Qualsiasi orologio rotto segna l'ora esatta almeno due volte al giorno. Dico solo che tra i due è oltre ogni ragionevole dubbio quello più "fuori di testa"... Letteralmente!
Ma noi (mediamente) non la vediamo così...
 
Concludo riprendendo il concetto di perfezione. Ho già scritto più e più volte che ritengo l'Uomo un progetto in sé e per sé perfetto. Non nel senso cattolico e divino ma biologico e innato: è perfetto in quanto esiste. Ciò che esiste è in sé perfetto (per me). Non c'è quindi il postulato secondo cui c'è una imperfezione e questa va individuata e corretta, ma una perfezione innata che viene ogni volta pervertita fino a riempirla di "squilibri". Come? I modi sono davvero troppi ma ne possiamo vedere uno come esempio a noi consono: alterare l'ambiente di crescita per ridurne le qualità, più o meno come si fa con il terreno per una pianta, terreno che restituisce (o meno) alla pianta quanto occorre per sviluppare tutte le sue caratteristiche come da programma... Oppure no. Anticipo che questo non è indicativo del DNA e degli errori del codice genetico di cui (ma va?) non sappiamo bene la natura, ma solo le meccaniche. Non sappiamo ad esempio "perché esiste un DNA" e quindi non capiamo bene perché debba o meno "essere sbagliato". Faccio un esempio che al solito se no non si capisce, dato che mi riferisco al significato e non alle meccaniche. Quando trovo "errori" che generano deformità, questi sono dovuti al DNA in sé o ad agenti meccanici/chimici/fisici dell'ambiente in cui quel DNA è immerso? Sono errori o tentativi maldestri di adattarsi ai mutamenti troppo repentini? In tutto ciò, che ruolo ha il pensiero? Di nuovo semplicemente basterebbe ammettere senza remore di non saperlo stando però entro la scomoda constatazione che viviamo di crassa ignoranza.

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sarah
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No, non mi chieda scusa, gli scambi di opinione autentici richiedono i loro tempi. Mi soffermo su due aspetti della sua risposta, anzi tre e li considero separatamente per facilità di discorso:

Il corpo è una macchina straordinariamente complessa?

Quando studiavo per la mia ultima dannatissima abilitazione all'insegnamento, ebbi un vivace scambio di vedute con una collega di Reggio Emilia che si stava lamentando per la "pochezza" del corso: pensando si trattasse della solita rimostranza sull'inutilità di seguire certa formazione preordinata, mi approcciai alla discussione con superficialità salvo poi essere sorpresa da una sua affermazione fatta a bruciapelo. Lei mi disse: " io mi rifiuto di associare il concetto di funzionamento ad un essere umano. Il funzionamento è proprio di una macchina, non di un vivente! ". L'argomento era l'ICF, il mastodontico elenco dell'OMS che si propone di descrivere e classificare ( appunto, ridurre all'interno di categorie ) tutte le possibili condizioni fisiche e psichiche dell'uomo rifuggendo ( per la prima volta dal 2001 ) dal termine "malattia" o "deviazione". Lei aggiunse: " per evitare il politicamente scorretto di definire una persona malata, si incorre in un errore ancor più grossolano, quello di considerarlo come una macchina". Sentendomi in qualche modo sfidata da quell'affermazione così netta, sentii il bisogno di prendere posizione e, non potendole dare torto, iniziai ad approfondire la questione cercando di trarre una conclusione sensata che fu grosso modo questa: in fondo l'uomo è un mistero per se stesso, non sa perché è fatto in un certo modo ma si limita ad osservarsi e descriversi nei suoi aspetti che possono essere ricondotti ad uno schema di ragionamento razionale. Questo ha costituito le basi della scienza medica ma nella psichiatria e/o psicologia l'approccio ha mostrato tutti i suoi limiti ( come ben sottolinea lei con gli esempi che ha portato). Dunque se vi è questo limite di comprensione ( che nel pensiero occidentale si è fermato allo "scontro" tra pensiero spirituale - religioso e pensiero scientifico ) ecco che l'uomo, frustrato dall'ignoranza in merito, ha posto rimedio applicando a se stesso il medesimo principio dunque descrivendosi come una macchina. Ma se le macchine, fino ad un certo grado di complessità, sono un'invenzione dell'uomo stesso, è corretto affermare di essere "macchine" noi stessi, macchine dotate solo di un alto grado di complessità che sfugge alla nostra stessa comprensione? Oppure siamo tutt'altro? In quel freddo pomeriggio di gennaio, la nostra conclusione fu che noi siamo tutt'altro. 

Battaglie e volontà divina

Spinoso argomento che però, come nel caso precedente, mi sfida a formulare un ragionamento coerente nel limite delle mie possibilità. Come si è passati dal pensiero classico che contemplava solo il "favore degli dei" all'infallibilità del progetto divino che ha preso forma nei secoli ed oggi, nella chiesa cattolica, sembra aver paralizzato la possibilità di auto conoscenza e di conoscenza dei fenomeni che ci circondano? Nella cultura classica la divinità ( o meglio le diverse divinità ) riunivano in sé una duplice natura, sia benigna che maligna; l'idea degli antichi era che un dio rispecchiasse la stessa natura umana che, appunto, può tendere sia al bene che al male. Dunque non mancava il riconoscimento di questo dualismo ma esso era presente nella stessa essenza divina. I sacrifici e i rituali servivano per "ingraziarsi" la divinità e far prevalere l'aspetto benevolo sull'altro. Ci sono studi ( laici ) sull'evoluzione dal politeismo al monoteismo in area mediterranea e del vicino oriente che sottolineano il passaggio epocale e fondamentale attraverso il quale si è passati a "concentrare" nell'essenza di un unico dio solo ed esclusivamente il bene. Il bene è rappresentato da dio stesso e non coesiste in alcun modo con il male poiché questo assimilerebbe dio all'essere umano. E' chiaro ( ma non scontato ) che non potrebbe esistere un bene assoluto, rappresentato dal dio unico, senza il suo contraltare. Non avrebbe senso, cosicché da qualche parte deve esistere il male e chi lo rappresenta. Una logica conseguenza che pone non pochi problemi e che oggi viene affrontata con la quasi totale negazione della sua esistenza, non solo a livello assoluto ( e teologico - vedi le maldestre arrampicate sugli specchi dell'attuale papa ) ma anche a livello umano. Si tende cioè a credere che nemmeno l'uomo possa avere questa duplice natura e quindi tutto sia fondamentalmente giusto, legittimo o giustificabile ( relativismo ). Va da sé che, tornando per un attimo indietro, se la natura divina viene assunta come essenza del bene assoluto ed onnipotente, nessuna delle sue manifestazioni può lasciare dubbi, al limite può non essere compresa, ma deve essere per forza coerente con la sua stessa natura e dunque "infallibile". Un grattacapo non da poco. Credo, modestissimamente, che se oggi come dice lei si assiste ad un allentamento dello schema rigido che passa attraverso la punizione del corpo come fonte dei peccati, tutto ciò non sia solo una concessione al relativismo imperante ma sia anche un'occasione, ancora un po' celata, di riconoscere che l'uomo è ancora posto di fronte alla sua natura duplice e che forse può svegliarsi dal suo sonno ed imparare nuovamente a scegliere da che lato orientarsi.

Kardec

Kardec è un personaggio che mi ha incuriosita. Nel suo confronto con la figura di Freud - vincente su tutta la linea poiché coerente con un'idea razionalista di scienza - mi aiuta ricordare la sua formazione e la sua esperienza. Cattolico, fu anche pedagogista ed allievo, in Svizzera, di Pestalozzi ( autore, quest'ultimo, di Leonardo e Gertrude, opera in cui le doti morali della protagonista vengono elogiate e prese ad esempio per una riforma di successo del sistema educativo ). Nelle sue opere di stampo pedagogico, egli utilizzava ancora il vero nome Rivail e lo pseudonimo Allan Kardec servì per mantenere separate le prime produzioni dalle opere successive ( peraltro le stesse per cui oggi è conosciuto ) sullo spiritismo. Egli temeva dunque che la direzione presa dalle sue indagini potesse in qualche modo "infangare" il precedente impegno poiché, in pieno XIX secolo, il pensiero razionalista non lasciava già più spazio ad altre interpretazioni. Eppure, sono abbastanza convinta che le sue iniziali convinzioni e i suoi studi abbiano influenzato i suoi successivi interessi che si sono spinti in un campo scivolosissimo. Da credente, egli partiva dal presupposto di una vita dopo la morte ed intendeva dimostrarlo scientificamente finendo per accostarsi a pratiche che sono rifiutate nettamente dalla chiesa. Forse proprio perché il cosiddetto "metodo scientifico" non è adatto ad indagare certi campi? Non sto affermando che credo nella bontà di certe pratiche ma in fondo Kardec stava proprio indagando quelle possibilità della mente umana di percepire "al di là" dei sensi conosciuti e descritti dalla scienza medica; probabilmente non era sulla strada giusta in quanto a metodi ma si interrogava legittimamente su queste potenzialità. Potenzialità che comprenderebbero quella del cervello di essere, come dice lei, una "ricetrasmittente" sensibile anche ad altri canali. Interessante è il campo dell'empatia e dell'influenza emotiva, così come altri fenomeni abbastanza sorprendenti osservati negli animali che sembrano derivare da qualcosa in più di semplice attività elettrica e chimica. Sta di fatto che l'approccio illuminista l'ha fatta da padrone e gli studiosi con un curriculum simile a quello di Kardec sono usciti di scena. Persino la lunga storia dei Nobel ha visto la costante esclusione di studi interessanti ma condotti da autori di formazione non gradita o non allineata. Ancora ieri, leggevo una breve nota sulla scomparsa di Piero Angela che lo elogiava come divulgatore scientifico ( al massimo per ragazzi, direi io ) ma sottolineava anche la sua appartenenza a quell'area di pensiero, razionalista appunto, che esclude caparbiamente la possibilità che al sapere possano aggiungersi contributi di studiosi che provengono da esperienze diverse, che comprendono l'aspetto spirituale.


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GioCo
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Principalmente chiedo scusa per la pochezza dei miei strumenti. Avrei voluto fare studi classici, avere ben altri mezzi con cui ragionare. Ma il destino ha sempre un suo specifico piano che raramente coincide con "l'ego" (=le identificazioni) di questa vita e tra l'altro se si ha abbastanza pazienza si finisce sempre per scoprire che il torto ce l'aveva l'ego e a farci (pure) l'abitudine.

Ciò nonostante mi sento sempre inadeguato per il compito, come un troglodita che debba obbligatoriamente ricavare un diamante dalla pietra con una clava per una volontà a lui superiore.

Vede la mia è una specie di "battaglia disperata". Perché devo usare il linguaggio per esprimere concetti che non è possibile esprimere e questa (se vogliamo) è solo una parte del problema, nemmeno la peggiore. Più o meno lo stesso dilemma che potrebbe avere un artista (se vogliamo) o un esoterista. Un modo, tra i tanti, per affrontare questa condizione (Gesù usò le parabole ad esempio) è provare a "ri-educare" (mi passi il termine) l'attenzione. Non aumentando la conoscenza (come sembra sempre che stia facendo e come mi costringe a fare il mediatore, la parola) ma rendendo consapevoli le persone di come il linguaggio operi in modo "selettivo". In altre parole si impara per "conoscere sempre meno". Funziona così, è meccanico, non ci si può fare nulla. Perché è la stessa conoscenza ad essere selettiva, prende alcune cose e lascia tutto il resto, funziona così, come il negativo di una foto. La vittima di tale processo è l'attenzione. Noi quindi impariamo a vedere il Mondo con il paraocchi e ne vediamo tanto poco quanto più abbiamo studiato. Questo è controintuivo e verrebbe subito da dire "ma no, è una sensazione" o cose del genere. Tipo: più impari, più cose sai, più ti rendi conto di quanto sei ignorante. Ma non è ciò che indico. Non sto indicando il procedimento educativo "esterno" che cerca di veicolare conoscenza, per esempio matematica, ma quello nervoso e interno che la elabora. Quel meccanismo funziona "al rovescio" rispetto al processo presunto e implicito attribuito. Noi non apprendiamo qualcosa di specifico ma disimpariamo tutto il resto "per" poter giungere a quel singolo apprendimento. E' come guardare un dipinto artisticamente di pregio. Se non ne so nulla vedo un paesaggio, per esempio. Posso apprezzare la sensazione che mi provoca e dire se mi piace o meno. Se ho conoscenze tecniche inizio a guardare aspetti più "precisi", come l'uso dei colori, delle luci e i rapporti di forma e volume o il tema trattato e i piani di lettura cercati e impressi nella tela, riusciti o meno. Poi aggiungo la storia, sia dell'autore che dell'ambiente in cui ha realizzato l'opera e "carico" di informazioni il dipinto. Questo da una parte mi da la sensazione di "saperne sempre di più" ma dall'altra allontana la mia attenzione dalla sensazione originale ed emotiva che viene sempre più "parcheggiata" a lato del rapporto con l'opera e rinchiusa entro un recinto di una non meglio precisata "mia opinione personale". Peccato che noi non sappiamo nulla di come si generi quella sensazione, da dove provenga e quali "informazioni" contenga, non ne conosciamo la natura. Fisicamente intendo! A meno che non ricorriamo a gente come Freud che tante volte ho descritto come un "pasticcione" dal punto di vista della coerenza e della logica rispetto il tema. Eludere quella parte emotiva, è come non vedere l'oceano in una foto che ne immortala la presenza.

Noi non abbiamo nessun "sistema d'allarme" che ci avvisi di ciò che abbiamo escluso, della sua natura, delle proporzioni e importanza che riveste. In un certo senso (l'ho detto tante volte) è un bene, se no la classica "casalinga di Voghera" entrerebbe istantaneamente in stato di shock vegetativo e probabilmente non ne uscirebbe più.

La lunga premessa era solo per poter rispondere (spero) minimamente in via adeguata... Ora riprendo il filo.

Il corpo è una macchina straordinariamente complessa?

Quando studiavo per la mia ultima dannatissima abilitazione [...]

Questa sua esperienza è quantomeno illuminante circa il problema dell'attribuzione del significato. Ho specificato che per me è il corpo ad essere il meccanismo ma l'Uomo non è il suo corpo (per me) esattamente come tecnica, tela e colori non sono il dipinto. Quando parliamo di "Uomo" di chi parliamo? Dovremmo metterci d'accordo, perché se si usa l'implicito di sovrapporlo al corpo (cioè la mera informazione sensoriale, plastica evidenza di come limitiamo l'uso delle nostre qualità elaborative) è poi impossibile procedere nel dire (per logica) che "quel" corpo sia più di un meccanismo, tant'è che ci tocca ribadirlo, ma di nuovo processando "sensazioni non meglio identificate" che poi sono sempre le stesse, quelle che nel caso del dipinto che descrivevo qui sopra abbiamo messo nel recinto delle "opinioni personalissime" e che infatti poi non hanno la forza di imporsi come logica conseguenza evidente di un fatto, che l'Uomo non è un semplice "corpo" ma la somma tra un meccanismo e "altro". Non mi avventuro nel definire questo altro, chiedo al mio lettore di stare inchiodato (se ci riesce) sulla constatazione che non lo sa, non può saperlo e non c'è alcuno che può dirglielo e con ciò realizzare che questo non è però sufficiente a escludere ciò che non sa.

Perché un modo in cui la "mutua esclusione" opera (mutua nel senso di implicita, silente, sottostante il processo elaborativo) anche adesso mentre queste parole vengono scritte/lette, è proprio quella di "eliminare" ciò che non si riesce a sapere, riducendolo di importanza. Semplicemente considerare l'ignoto costa al sistema corpo, perché non è progettato per considerarlo. Banalmente. Il suo compito è "lavorare" come un trasformatore. Prende da una parte trasforma e rilascia dall'altra. Meccanicamente. Questo ci suggerisce quindi che la meccanica del corpo non è quella che di solito intendiamo. Come sempre il problema è nell'attribuzione di significati. Di solito per meccanica intendiamo quella di un robot o di un bottone per accendere la luce in camera. Ma la meccanica è anche nel motore che trasforma la benzina in trazione e ci permette di andare in giro con l'automobile. Poi ci sono i comandi, ma il motore funziona a prescindere dagli stessi come "avesse vita propria". Il motore è fatto certamente di meccanismi, ma ciò che elabora? La natura di ciò che elabora è pedissequamente "dimenticata", defenestrata come secondaria.

Se dicessi per esempio che il motore esiste per volontà del carburante che lo alimenta, verrei preso per matto. Eppure, non sapendo quale sia la natura di tale carburante se non per indizi molto vacui (tipo l'esperimento delle due fessure della fisica quantistica?) tutti stranamente coerenti con tale affermazione, dire che invece è il cervello l'autore e altrettanto se non ancora più azzardato.

Battaglie e volontà divina

Spinoso argomento che però, come nel caso precedente, mi sfida a formulare un ragionamento coerente nel limite delle mie possibilità [...]

Benvenuta nel club dei "disperati" allora, quelli che vivono praticamente nella costante constatazione di star per valicare i propri limiti. Come stare sul ciglio del burrone e dovercisi abituare. Quella che cita (sempre sencondo me) è il punto di vista cattolico. I cattolici sono così, cambiano le prospettive costringendoti a ragionare secondo il punto di vista che loro veicolano e che ti spinge alla follia. Come tentare di ragionare con degli ubriachi, non caschi bene.

Bene e Male sono certamente una prospettiva interessante ma del tutto fuorviante entro i termini dati dal cattolicesimo. In effetti la stessa religione se ci fa caso non parla MAI di contrapposizione tra bene e male (al massimo parla di "scimmia di Dio" in riferimento al Male) prendendo come termine  di confronto il Bene (unico!) assoluto di cui parla, se non quando vuole spaventare e allora parla solo del Male (assoluto); invece parla quasi sempre di trinità e in un senso rigidissimo, tanto che ci ha consumato su stragi millenarie per affermarla. Ma cos'è la trinità? Un mantra, una formula "magica" da ripetere allo stremo perché "sia compresa". Perché di fatto è indigeribile, fisicamente non siamo stati strutturati per macinarla. Il corpo la rifiuta e per ciò diventa il nemico. Si da quindi per scontato (stia attenta allo scontato che è dove va posta l'attenzione, se no "scivola via" come la saponetta sotto la doccia) che l'Uomo sia ignorante di suo e che quindi vada riempito in qualche modo di conoscenza, non che il vuoto sia appositamente provocato prima di indicare quell'ignoranza. Noi procediamo esattamente con questo sottostante che sto rovesciando come un calzino.

Spesso ci viene detto "uno e trino". Di nuovo, non mi interessa scendere nella questione teologica che considero alla stregua di un contorsionismo da bravi arrampicatori di vetri, mi limito solo a constatare meccanicamente che questo ci costringe a concentrare l'attenzione su uno (per esempio solo bene o solo male) nel duale implicito, mentre ciò che si considera è detto "solo" trino, saltando a pié pari la dualità. Questo modello porta estrema confusione e "sbiella". Letteralmente! Nel senso che ti trovi a confrontare tra loro concetti inconciliabili e non ne esci, come guardare il baratro, l'orrido, "vedi" (interioremente) il buco, il vuoto (perché lo crei) al punto che ti pare meglio il pensiero antico, più sensato e lineare ma putroppo solo un poco meno orrido. Ma poco... Infatti poi la chiesa ha @GioCo facile nel dire che però "la religione dell'Amore" è meglio di quella della prevaricazione e della violenza antica, o no? Poco vale ribattere che la violenza c'è pure nella "religione dell'Amore", la chiesa risponde altrettanto facilmente che quello è dovuto alla pochezza della carne che va educata. Infatti nel progetto originale dell'autore perfetto c'è poi l'atto sacrilego di Eva e Adamo che in qualche modo "magico" introducono l'imperfezione. Sono pezze giustificative come giustamente fa notare lei, ma se l'attenzione rimane nel labirinto degli specchi concepito apposta per farti perdere la strada, non ne esci.

Kardec

Kardec è un personaggio che mi ha incuriosita [...]

Kardec rappresenta per me una battaglia perduta sul percorso della conoscienza esoterica (cioé interiore). Purtoppo non una battaglia secondaria, ma campale e primaria che avrà effetti nefasti per secoli.


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