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GioCo
Noble Member
Registrato: 2 anni fa
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Topic starter  

Ci liberemo,
saremo liberi
perché non lo siamo,
viviamo nel tormento
del pensiero.

Cos'è la libertà? E' forse seguire le regole o infrangerle? Oppure centra poco con la storia delle regole?

Dirò un arcano, qui e ora, quello che nessuno vuole sentire, perché se il tormento ci spaventa, non c'è null'altro a cui attaccarsi nell'esistenza terrena. Per ciò rimaniamo attaccati al tormento come il vischio e siamo disposti a fare qualsiasi cosa pur di rimanere così, nel tormento. Solo che ci raccontiamo tutt'altro.

L'ho detto è la posizione del pitone: nelle sue spire il contorcimento della perversione è ciò che vediamo di riflesso nel Mondo. Ciò che siamo spinti con ogni mezzo ad attribuire al Mondo, non alla nostra personalissima miserabile condizione di attaccati ossessivamente alla cosa terrena.

Eppure, eppure prima di svelare l'arcano un altro sassolino me lo devo levare. Il mio demone in questo caso tace, non lo impedisce. Quindi... Il piacere, quella piccola cosa terrena che poi di fatto è per tutti il motivo per cui si rimane attaccati, non è in se negativa. Non lo è mai stata come non può in nessun modo fare la differenza la sua negazione. Così la privazione del piacere per giungere a un elevazione è l'equivalente dell'oppio, siccome il resto della Mente Collettiva è immersa nell'idea che il piacere sia tutto e non si riesce a schiodare da lì manco pel c... Ecco allora che emerge il suo riflesso, è cioè che la negazione sia in qualche modo una spinta all'elevazione. Non un orrore nell'orrore, no, una spinta all'elevazione spirituale. Può funzionare, perché "purtroppo" poi tutto funziona, dato che non siamo noi ma "il nostro tempo", l'orologio cosmico interiore a dare alle cose un senso e finché non è il nostro tempo, quell'elevazione non la vedremo nemmeno col binocolo. Anche se non si farà altro che stargli accanto, anzi a tenerla nel centro di noi, dentro.

Diciamo che è qualcosa che rimane sempre a portata di mano, lì lì a meno di un passo. Siamo noi che rigidi come stocafissi, siccome ci costa qualsiasi movimento, pensiamo di ballare come nella taranta, assatanati, invasati e posseduti e quindi a casaccio ma senza mai giungere al dunque. Perché sarà a portata di mano ma l'elevazione (e dentro nel profondo lo sappiamo molto bene) è l'ultima cosa in cui speriamo, che vogliamo e cerchiamo veramente.

Quindi? Quindi come si coniuga un piacere che non ha nulla a che fare con il cuore del problema, con l'elevazione spirituale? Banale, perché rispetto al piacere elevato è meno di nulla e se potessimo scegliere, se fossimo veramente nel libero arbitrio e in grado di vedere, allora non c'è partita e non esisterebbe esito di sorta. Il piacere spirituale è INFINITAMENTE superiore a quello terreno, senza se e senza ma e non è solo quello. Non gli occorre "terminare" (essere caduco) ne confrontarsi con altro per rimanere intenso sempre e comunque. Il suo unico difetto? Non genera attaccamento. Non ne ha bisogno.

Un po' come uno che possiede una super-forza. Non ha bisogno di ostentarla ogni 3x2 come al supermercato. Se lo fa palesa un altro tipo di debolezza ed è semplicemente ovvio. Per chi vuol vedere.

Bene, passiamo all'arcano. Che poi è l'evidenza che non c'è verso di accettare, piuttosto che comprendere e per ciò appare contorto, perché vogliamo capire ossessivamente, mettiamo sempre la ragione dove dovrebbe andare il cuore e viceversa. Siamo nel contorcimento del tormento... Al punto che lo dirò, adesso, ma o non vi sembrerà tale o lo dimenticherete il tempo di finire quello che c'è qui scritto. Perché tutto ciò che conta in noi è tormento e l'attaccamento all'identificazione è solo tormento, fatica, dolore. Con qualche punteggiatura di piaceri (terreni) qua e là. Che solo un pazzo scatenato può pensare o immaginare sia "obbligatorio" doversene privare. Come le fragoline selvatiche di stagione, se ti capita meglio coglierle subito e per quel miserabile piacere che ne ricaverai, data la scarsità. Tuttavia le "cose" da cui dipendiamo che non sono altro che mangiafuoco che tirano i fili delle nostre identificazioni ben nascosti dal proscenio dietro le quinte di sto pupazzaro sbiellato, ce le concedono come la biada rarefacendo il più possibile, per profitto.

Vogliono pupazzi ben nutriti che hanno bisogno di poca biada, meglio se niente e però corrono sempre e dietro il mito della carotina, una "eternità" di piaceri ovviamente.

L'arcano è questo: il centro è l'emotus, il movimento che è dell'animo. Noi siamo ossessivamente attaccati all'idea di dover identificare l'anima in via oggettiva e così non stiamo mai attenti al suo movimento. Ed è un movimento proprio del pensiero che genera emotus, questo è evidente. Non serve un "fare" corporeo (anche se aiuta per altri motivi) e oggi è quantomai evidente: basta andare al cinema e pur nella quasi totale assenza di movimento fisico, se si esclude lo sgranocchiare mandibolare dei famigerati pop-corn naturalmente, proviamo una ridda infinita di emozioni, da quelle più negative alle altre considerate più positive. A noi non importa quale sia l'emozione, ci piace raccontare a noi stessi d'essere attratti da quelle positive, anche per rassicurare noi stessi sulla nostra migliore bontà d'animo e poi rassicurare anche il prossimo che "siamo gente perbene". Ma la sostanza che si osserva è un altra: a noi importa solo l'intensità guidata dell'emotus. Vogliamo provare le emozioni più intense possibili a costo di scassare l'intera infrastruttura nervosa del corpo, ma vogliamo farlo guidati. Come i bimbi nel passeggino. Cioé ci teniamo ad essere "posseduti".

Ed allora si declinano due realtà parallele, come le rette dei binari di un treno. Una realtà "e-motivata" (cioè motivata dalla ricerca del vissuto emotivo intenso e non importa quale, basta sperimentarne uno) e una realtà "a-motivata", cioè priva di emozione, dove la motivazione dell'emozione non c'è, c'è una motivazione razionale, un obbiettivo e un fine che sfrutta l'emozione come il treno sfrutta la corrente elettrica per muoversi. Entrambe senza equilibrio perché l'equilibrio è solo nel centro e nel centro non c'è niente. Nel centro della nostra attenzione non c'è mai il cuore. Dovrebbe trovarsi saggezza (nel cuore) e invece si fa di tutto per tenere "vuoto" quello spazio, per riuscire a renderlo il più possibile squilibrato.

L'intelligenza a mio avviso, come la coscienza, dipendono dall'equilibrio e non hanno una misura in sé ma ce l'hanno se rimesse nel contesto. Rimangono due paroline che subiscono oggi lo stesso rituale inquisitorio che già ha conosciuto l'Amore prima e per produrre la cristianodonzia (in quel caso) e cioè quel modo sauro di intendere il Mondo e l'Amore, predatorio, infame, miserabile e competitivo. In una parola "mercantilizio", dove la mercanzia è comunque sempre e solo l'emotus, perché rimane il centro, la pila di Volta su cui tutto sto carrozzone di minchiate cosmiche si regge. Lo sfruttamento del nostro "latte" a fini di potere.

Non posso dire: "l'emozione è al centro di tutto". Perché nessuno capirebbe in un modo dove domina il pensiero saurocrate e mercantilizio; è impossibile. Devo allora declinare la questione insistendo che "l'emozione domina sempre". Perché nell'ideale competitivo la sensibilità verte sul potere, il dominio e il pensierio del possesso. Possedere è necessario per Vivere (emozione) e per ciò chi domina è la forza che diviene ossessione: la forza forte del forte che domina e con ciò fa giustizia. Per tutti. Dormendo profondamente, ipnoticamente. Cioè mi gestisce la mia emozione e con ciò mi evito l'imbarazzo di farmene carico, di esserne responsabile.

Ma chi la gestisce in modo evidentemente così pacchiano la nostra emozione? Chi è mangiafuoco in un ordine socio-economico di questo genere? Chi nella collettività può prendersi la briga di gestire per noi le emozioni e farsi con ciò "mangiafuoco"? Chi concede a noi il piacere con magnanimità e per farsi sempre "bello" ai nostri occhi anche se... Già, anche se non gli conviene? Ovvio, l'a-motivo, cioè colui che vive entro una dimensione emotiva ristretta, saura e che non ha la necessità di "mettere in equilibrio" se stesso per qualcosa che non possiede e che cerca di capire ossessivamente in via razionale (senza riuscire, se no non vivremmo entro "la logica" che l'emozione è irrazionale) al fine di controllarla, di gestirla a motivo della sua esclusiva convenienza. Per vivere un emozione poco poco più elevata ci vuole per forza empatia, ma potremmo dire allo stesso modo che per avere intelligenza o coscienza più elevata ci vuole per forza empatia. Cioè compassione perché le emozioni sono "semplici" nella loro meccanica: se sei felice, divento felice e se sei triste divento triste. Ma non sono comprensibili per chi non le vive. Cioè risuono alla stessa vibrazione emotiva e con ciò "capisco" il tuo stato d'animo e nella misura in cui ho capito in me quella emozione ed è chiaro che la ragione sussiste solo se si sperimenta quella emozione. Ma non basta, è obbligatoria ma non basta. Ci vuole una profonda analisi interiore e quella può essere fatta solo con la ragione.

La nostra non del pensiero dei sauri che senza quell'emotus rimangono ciechi e sbiellano (facendoci del Male) facilmente.

Noi viviamo immersi nella cultura saurina. Ne siamo pregni fino al midollo, la consideriamo il Top e per ciò la consideriamo desiderabile. La posizione del pitone (l'unica che possiamo raggiungere in questo stato di cose) è però tutto fuorché normale a meno che un contorcimento atto esclusivamente a spremere emozioni, non sia per voi "normale".

Chi vive entro una dimensione emotiva superiore ha esigenze di natura superiore. Ovvio. Accede a dimensioni dove le energie permangono infinite, più o meno consapevolmente. Ma ciò non accade più sotto, dove la rarefazione emotiva è il sale stesso dell'esistenza Vitale. Senza scarsità d'acqua le pozze non sono contate e i predatori dovrebbero cacciare per sterminati territori lo loro prede che quindi diverrebbero più difficili da acchiappare. I pretatori non vogliono fare la fame o fare troppa fatica per procurarsi il cibo. Amano l'agiatezza e per ciò la ciaccia facile. Riconoscono la fatica e gli stenti.

Il pensiero quindi saurino è basato sulla rarefazione del bene concesso che deve essere forzatamente per questo "sotto controllo". Senza non esiste competizione.

Però però, dove finisce la storia saurina inizia quella umana. Perché la compassione è lo spartiacque e gli animali, quelli che noi intendiamo "bestie" non sono quelli che osserviamo nei nostri ambienti naturali, dove dominano senza se e senza ma i mammiferi, nostri cugini. Come mai non dominano i rettili se tanto superiori? Perché per quanto la bestia mammifera sia "ferina", come una tigre ad esempio, rappresenta comunque un ordine superiore dell'emotus e con ciò non è affatto priva di compassione verso le sue prede. La pietra d'angolo è che la fiera non si nutre a prescindere delle sue prede, non fa strame senza indugio non appena è nelle condizioni, ma attende finché la fame non la costringe a cacciare. C'è in lei quindi una costante lotta che in queste regioni così basse del piano astrale (dell'emotus, cioè delle privazioni emotive) è tipica ed è evidentissima. Se siamo in grado di vedere ovviamente.

Non accade solo nei mammiferi. Ma nei mammiferi è indubbiamente un comportamento dominante e non c'è nessuno altro essere vivente come l'Uomo dove questo "combattimento interiore" è evidenza solare. Tutte le nostre manifestazioni, individuali e sociali, non fanno che mettere il luce questo nostro tormento.

Un tormento evidentissimamente emotivo prima che fisico.

Ma che noi intendiamo nel contorcimento razionale. Perché dentro di noi, al centro di noi, domina il cuore e fuori il pensiero saurino "disallineato" che non c'azzecca un tubazzo. Pensiero saurino che è molto razionale ma pochissimo e-motivato. Quei miserrimi punti di aggancio che ha con la nostra dimensione emotiva noi li intendiamo come "negativi". Non perché lo siano, ogni emozione è semplicemente uno stato dell'animo, ma perché li percepiamo come una specie di risucchio energetico. Se provi rabbia, non è come nella belva della savana. Crediamo, pensiamo sia come la belva della savana, perché siamo abitati da un pensiero che non è il nostro e per un emotus sbiellato, "fuori linea" rispetto il nostro equilibrio interiore. Che poi ci lascia stremati anche se non succede niente. Contrariamente la belva ciaccia e pare nel suo furore ferino che abbia riserve quasi illimitate di energie e ci sorprende, ci ammalia il suo apparente agire indifferente alla fatica e alla privazione. Quindi la rabbia, per esempio nel cacciare dal territorio un rivale, è in lei vissuta con più equilibrio.

Per esempio non appena il rivale si allontana e il pericolo con esso, la belva è felice di poter tornare alle sue migliori faccende affaccendate e dimenticare come fanno i bambini l'accaduto come non fosse mai successo. Per noi invece ogni "maltrattamento" subito è un pensiero che ci tormenta a volte per anni. A volte diventa addirittura un trauma e si sedimenta. Ciò ha senso solo in una dimensione emotiva sbiellata costantemente ricercata.

Non che non vi sia qualche "sbiellatura" anche in situazione selvatica, per carità, ma per capire la differenza di quantità (oltre che di qualità) basta vede la "tranquillità" invidiabile in cui è immersa una qualsiasi popolazione umana che dipenda ancora dalla selva. L'equilibrio interiore che manifestano è talmente evidente che ci colpisce come un martello nella testa e questo ci porta poi a cercare in ambienti il più possibile selvatici e "naturali" quell'equilibrio perduto che non riusciamo più ad ottenere in altro modo.


Citazione
mystes
Noble Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 1448
 

Grazie per l'invito. Tema interessantissimo di primo piano. Senza dubbio parteciperò. Occorre fermare, prima che sia troppo tardi, gli imbavagliatori e i censori che imperversano nel mondo: nostra divisa saranno i celebri versi del grande Tommaso:

"...Stavamo tutti al buio. Altri sopiti      

d’ignoranza nel sonno; e i sonatori    

pagati raddolcito il sonno infame.

Altri vegghianti rapivan gli onori,    

la robba, il sangue, o si facean mariti

d’ogni sesso, e schernian le genti grame.

Io accesi un lume; ..." 


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