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DIO, GLI EBREI E NOI

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Dio, gli ebrei e noi

Un contratto di civiltà ingannevole

Laurent Guyénot 

The Unz Review

29 giugno 2024

https://www.unz.com/article/god-the-jews-and-us-a-deceitful-civilizational-contract/

 

I rabbini dicono spesso che l'antisemitismo è la gelosia di coloro che non sono stati scelti da Dio - una sorta di complesso di Caino.

Il consigliere politico ebreo francese Jacques Attali propone una variante più sottile: l'antisemitismo è il risentimento verso coloro di cui siamo debitori [1]. Cosa devono i cristiani agli ebrei? Dio, ovviamente!

Senza gli ebrei non conosceremmo Dio ed è per questo abbiamo del risentimento verso di loro.

Non sono d'accordo. Se i Goyim sono ingrati, forse è perché, nei più profondi recessi della loro anima, sanno di essere stati ingannati. Hanno accettato dagli ebrei un Dio fasullo, una falsificazione grottesca e malevola. Ancora peggio, gli ebrei li hanno convinti molto tempo fa a gettare via la cosa vera che avevano da sempre.

Noi, cristiani, abbiamo firmato un contratto di civiltà che per duemila anni ci ha proibito di accedere all'idea di Dio attraverso la sola ragione, come ci avevano insegnato i greci e i romani, e che invece ci impone di aderire alla "rivelazione" degli ebrei secondo cui Dio è il dio di Israele. Gli ebrei ci hanno privato in questo modo della libertà più essenziale, ottenendo da noi il riconoscimento della loro originaria superiorità metafisica, un potere simbolico ineguagliabile e inarrestabile.

 

La civiltà dell'astuzia

Avremmo dovuto saperlo. Nelle Scritture ebraiche è abbastanza chiaro che la furbizia è l'essenza dell'ebraismo. È ingannando suo padre, suo fratello e suo zio che Giacobbe divenne il fondatore eponimo di Israele (Genesi 25-36). John E. Anderson ha cercato di giustificare questa "teologia dell'inganno" ebraica in un libro intitolato Jacob and the Divine Trickster (2011). Come può Dio essere "complice dell'inganno di Giacobbe"? La risposta di Anderson è che Dio doveva esserlo, per il fine superiore di "perpetuare la promessa ancestrale"[2]. Ma naturalmente la domanda in sé è stupida, a meno che, come Anderson, non si sia vittima del nucleo centrale dell'inganno biblico e non si prenda sul serio il Dio biblico. Se Yahweh è solo "il dio di Israele che finge di essere Dio", allora tutto è perfettamente logico: come dio, come popolo, e viceversa.

L'origine di questo trucco metafisico sembra risalire al V secolo a.C., nella Babilonia sotto la dominazione persiana, quando Esdra pubblicò la prima versione del Tanakh (poi rivista dagli Asmonei). Come ho mostrato in From Yahweh to Zion, il sotterfugio è quasi trasparente nei Libri di Esdra e Neemia, in cui la divinità chiamata "Yahweh, il dio di Israele" nel corpo principale del testo, è chiamata "Yahweh, il Dio del Cielo" nei falsi editti attribuiti ai re persiani che autorizzano la ricostruzione del tempio di Gerusalemme: l'implicazione è che i persiani zoroastriani sono stati ingannati nel credere che gli ebrei adorino il Dio universale.

Esdra viveva all'epoca del re dei re persiani Artaserse I, che aveva una politica religiosa notoriamente tollerante. È interessante notare che Erodoto, vissuto nello stesso periodo, scrisse queste parole sui Persiani: "Ritengono che la menzogna sia la cosa più vergognosa di tutte".

Non è chiaro fino a che punto i Persiani furono realmente ingannati dagli Ebrei (allora chiamati Giudei). Ma da quel giorno, il rapporto del regno di Giudea con l'Impero (e più in generale con i Gentili) si è basato su questo stesso doppio senso: Ai gentili viene detto che il Tempio di Gerusalemme è dedicato al Grande Dio universale, ma gli ebrei sanno che è la dimora del dio di Israele, dove sono ammessi solo gli israeliti. Questo doppio linguaggio diventa un doppio significato paradossale: Yahweh è contemporaneamente il Dio universale e il dio nazionale di Israele. Questo doppio senso paradossale viene interiorizzato dagli stessi ebrei, la cui mente viene distorta da questa bolla cognitiva di generazione in generazione.

Un'altra sfaccettatura di questo stratagemma è il doppio significato dell'ebraismo, che per gli ebrei significa separazione etnica, ma che ai gentili è presentato come fede nel Dio universale. Il primo significato è pratico, il secondo teorico; la pratica è per gli ebrei, la teoria è per i gentili. Ma il duplice significato è interiorizzato e gli ebrei ritengono che ciò che li unisce sia una religione (il giudaismo) e una comunità genetica (l'ebraismo).

Israele è quindi la civiltà dell'inganno, della furbizia, del doppio senso, della menzogna e di qualsiasi altro sinonimo si possa trovare. L'astuzia è stata inizialmente un modo per la sopravvivenza collettiva degli ebrei in tempi di esilio o dispersione, ma nel corso dei secoli è diventata uno stile di vita e una modalità di dominazione.

La civiltà romana si basava sulla cultura greca, incentrata sulla saggezza, sinonimo di verità. Sebbene Roma avesse anche una passione per la costruzione di imperi, questa si basava sulla passione per il diritto, che era un'applicazione pratica della ragione greca. Questo l'ho spiegato nel mio precedente articolo (“Israel vs. international law), dove ho contrapposto il diritto di Roma, basato sulla ragione umana e sull'universalismo, al diritto di Israele, basato sulla rivelazione divina e sullo sciovinismo etnico.

Qui ricorderò brevemente i tre episodi principali della lotta all'ultimo sangue tra la civiltà romana e quella ebraica, a partire dall'epoca ellenistica fino alla conversione di Roma al cristianesimo. Ma prima, risolviamo la questione di Dio: i Romani credevano in Dio? In altre parole: avevamo bisogno di essere introdotti a Dio dagli ebrei?

 

Il Dio dei romani

Normalmente pensiamo al conflitto tra Roma e Gerusalemme come a un conflitto tra politeismo e monoteismo. Questo non è falso. Nessun popolo era più politeista dei Romani. Erano così ospitali con le divinità che adottarono persino gli dei di popoli sconfitti. Mithra ne è un esempio.

Ma l'opposizione tra politeismo e monoteismo è superficiale. I Romani istruiti credevano nell'unità del divino, cioè in un unico Dio. Essi conciliavano questo monoteismo filosofico con il politeismo popolare e civile in due modi. In primo luogo, esisteva un Dio supremo, che chiamavano Giove, che significa semplicemente "Dio Padre" (da Diu e Pater). In secondo luogo, tutti gli dei potevano essere considerati come varie manifestazioni o rappresentazioni limitate del divino. Pertanto, "Dio" e "gli dèi" sono espressioni indifferenti nel Sulla natura degli dèi di Cicerone e in molti altri testi antichi. (E ricordiamo che in una delle fonti più antiche della Bibbia ebraica, il singolare El e il plurale Elohim sono usati in modo intercambiabile).

Vediamola così: perché Dio dovrebbe essere maschile piuttosto che femminile, e singolare piuttosto che plurale? I Greci, come gli Egizi, trovavano naturale immaginare il divino come una diversità e un'unità. Il politeismo era un monoteismo inclusivo.

La maggior parte dei Romani istruiti aveva opinioni filosofiche eclettiche, ma la scuola più influente era lo stoicismo. Aveva il favore di Cicerone alla fine della Repubblica e di Marco Aurelio allo zenit dell'Impero. Che gli stoici professassero una forma di monoteismo è fuori discussione. In un famoso Hymn to Zeus, il filosofo stoico Cleante (III secolo a.C.) chiamava Dio "il grande Sovrano della natura, che governa tutto per legge", al quale gli uomini devono rivolgere la loro mente per vivere "la vita nobile, l'unica vera ricchezza". Cleante pregava affinché le persone che fanno il male per ignoranza potessero essere illuminate: "Dissipa, o Padre, le tenebre dalle loro anime".

Si dice che gli stoici abbiano confuso Dio con il Cosmo o con la Natura, e per questo sono stati etichettati in epoca moderna come "panteisti". Ma dobbiamo fare attenzione alle parole greche e alle loro traduzioni: Kosmos significa "ordine", che implica un "disegno intelligente", e Natura (Phusis) ha un significato dinamico: è il principio animatore all'interno della Natura.

I greci e i romani, tuttavia, non pretendevano di conoscere Dio, tanto meno di sapere cosa Dio vuole, cosa Dio dice o cosa a Dio piace. Tale antropomorfismo era accettabile per gli dei, non per Dio. Dio è, per il filosofo, l'inconoscibile, o almeno l'indicibile, poiché dire qualcosa su Dio significava porre un limite all'infinito. Questa, possiamo chiamarla umiltà filosofica, che contrasta con l'arroganza teologica.

Ma se Dio è inconoscibile, le leggi con cui governa il Cosmo sono in parte accessibili alla scienza umana. Queste leggi costituiscono una sorta di principio intermedio, il pensiero creativo o la saggezza di Dio, chiamato Logos nella tradizione platonica, talvolta identificato con la Sophia femminile, la Sapienza di Dio. Il fatto che l'universo sia governato da leggi naturali è una prova dell'esistenza di Dio, secondo Cicerone (Della natura degli dei II.12.34):

Infatti, quando guardiamo verso il cielo e contempliamo i corpi celesti, che cosa può essere così ovvio e così manifesto come l'esistenza di un potere dotato di un'intelligenza trascendente con cui governa queste cose?

 

Il Dio degli ebrei

A differenza dei Romani, che ritenevano Dio inconoscibile direttamente, gli Ebrei, e solo loro, ritenevano di conoscere Dio personalmente. Solo loro conoscono il vero nome di Dio, che egli disse a Mosè in un colloquio personale. Conoscono anche l'indirizzo di Dio: Egli vive a Gerusalemme e in nessun altro luogo (lo hanno portato lì dal Sinai in un'arca). Solo gli ebrei hanno una familiarità tale con Dio da sapere cosa gli piace e cosa non gli piace (gli piace l'”odore gradevole” degli olocausti, per esempio, Genesi 8:21), o cosa vuole in un determinato momento, a seconda del suo umore. Il Dio ebraico è un individuo, e parla.

Soprattutto, ovviamente, gli ebrei sanno che Dio li ha scelti per governare il mondo. Dio disse loro in Deuteronomio 32:8-9 che dopo aver creato tutte le nazioni, delegò un piccolo "figlio di Dio" (angelo?) a ogni nazione, ma tenne Israele per sé. Le altre nazioni devono servire Israele o perire: "I re cadranno prostrati davanti a te, con la faccia a terra, e leccheranno la polvere ai tuoi piedi", mentre "farò mangiare ai tuoi oppressori la loro stessa carne" (Isaia 49,23-26). Così parlò Yahweh!

Secondo i greco-romani, Dio comunica con gli uomini attraverso la ragione. La ragione è la fonte della conoscenza e la conoscenza è la fonte della virtù, che è una vita in armonia con il cosmo (e con la propria natura o destino) e la fonte della vera felicità. Questo, in poche parole, è lo stoicismo.

A differenza del Dio greco-romano, il Dio ebraico non si lega al suo popolo con la ragione, ma con la legge. La "conoscenza del bene e del male", il punto centrale della filosofia greca, è il frutto proibito in Genesi 3, un racconto che è un evidente attacco polemico all'ellenismo (il che dimostra l'origine tardiva di questa storia). Il romano pagano Celso (intorno al 178 d.C.) commentò che il Dio ebraico è nemico della razza umana "poiché ha maledetto il serpente, dal quale i primi uomini hanno ricevuto la conoscenza del bene e del male" [3]. Nella tradizione ebraica non c'è altro standard morale che seguire le leggi e i comandi arbitrari di Yahweh (come l'uccisione di chiunque in questa o quella città).

Il Dio supremo è per i Romani, e per gli Stoici in particolare, un principio di unità e quindi di armonia tra gli uomini. Il Dio ebraico, al contrario, porta divisione: la sua Legge (Torah) mira soprattutto a separare il suo popolo eletto dal resto dell'umanità. Già prima della nascita di Abramo, il Dio ebraico odiava vedere gli uomini accordarsi tra loro per realizzare grandi cose, come una grande città con "una torre la cui cima raggiunge i cieli". Così disse a sé stesso: "Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, così che uno non capisca quello che dice l'altro" (Genesi 11:6-7). Poiché la civiltà ellenistica era fondata sull'uso universale della lingua greca, possiamo individuare in questa storia della Torre di Babele, proprio come in quella del Giardino dell'Eden, una dichiarazione di guerra contro l'ellenismo.

Prima di opporsi a Roma, Gerusalemme si oppose alla civiltà ellenistica, che comprendeva i regni seleucide e lagide (o tolemaico). E come vedremo ora, c'era una dimensione religiosa inconfondibile in questo scontro di civiltà, poiché il separatismo ebraico era direttamente causato dall'incomprensibile pretesa degli ebrei che il loro dio etnico fosse il Dio universale, in altre parole, che il Dio universale amasse solo gli ebrei e volesse essere adorato solo dagli ebrei, a Gerusalemme.

 

Roma contro Gerusalemme: lo scontro di civiltà

Nel 167 a.C., il re Antioco IV Epifane, credendo agli ebrei che Yahweh fosse il Dio cosmico supremo, fece dedicare il loro tempio a Zeus Olympios. La maggior parte degli ebrei amava la cultura greca e non aveva obiezioni. Ma come sempre nella storia di Israele, un'élite fanatica scatenò una guerra civile e prese in mano il destino di Israele (come raccontano i libri dei Maccabei). Questo episodio è interessante perché illustra la natura fondamentalmente ingannevole del monoteismo ebraico. Non solo gli ebrei si rifiutavano di mostrare rispetto agli dei degli altri popoli, distruggendo i loro santuari ovunque potessero, ma negavano ai gentili il diritto di partecipare al culto del loro dio, sebbene sostenessero che fosse il Dio supremo di tutta l'umanità. Questo era assolutamente incomprensibile per i Greci. In questo periodo apparvero le prime espressioni scritte di giudeofobia, che includono varie versioni della storia secondo cui gli ebrei non erano fuggiti dall'Egitto come sostenevano, ma erano stati espulsi da lì come lebbrosi nel corpo o nello spirito.

Troviamo questa storia ad esempio in Diodoro Siculo, che racconta anche che, quando il re Antioco VII Euergete assediò Gerusalemme nel 134 a.C., i suoi amici "gli consigliarono vivamente di sradicare l'intera nazione, o almeno di abolire le loro leggi, e di costringerli a cambiare il loro precedente modo di vivere. Ma il re, di animo generoso e di indole mite, ricevette degli ostaggi e perdonò i Giudei; poi demolì le mura di Gerusalemme e prese il tributo dovuto" (34,1). Così il regno asmoneo sopravvisse, finché il generale romano Pompeo non intervenne per porre fine a una guerra civile e all'indipendenza ebraica (62 a.C.).

Nel 66 d.C., l'imperatore Nerone inviò il suo generale Vespasiano e suo figlio Tito a sottomettere una Gerusalemme ribelle. La guerra durò quattro anni e si concluse con il saccheggio e la distruzione del tempio. I Romani normalmente accoglievano gli dei di popoli sconfitti, ma il dio degli Ebrei, Yahweh, era considerato inassimilabile, persino velenoso. Così i suoi oggetti sacri furono trattati come bottino di guerra e, come spiega Emily Schmidt, "il popolo ebraico fu trasformato nell'antiromano per eccellenza: ribelli sconfitti e senza Dio" [IV Inoltre, poiché gli ebrei di tutto il mondo erano soliti pagare due dracme (monete d'argento) all'anno per il loro tempio, Vespasiano li costrinse a pagare quella tassa al tempio di Giove sul Campidoglio [V]. Il messagggio non potrebbe essere più chiaro.

Nella dinastia successiva, l'imperatore Traiano dovette reprimere le insurrezioni ebraiche in tutta la Diaspora e soprattutto nell'Africa settentrionale (115-117). Il suo erede Adriano cercò di sradicare la nazionalità ebraica mettendo fuori legge la circoncisione, pena la morte. Tuttavia, dovette affrontare una grave rivolta messianica a Gerusalemme, guidata dall'autoproclamato messia Shimon Bar Kochba, che riuscì a stabilire uno Stato indipendente per alcuni anni (132-135). La campagna militare romana causò 580.000 morti secondo Cassio Dio, che aggiunge: "A Gerusalemme, Adriano fondò una città al posto di quella che era stata rasa al suolo, chiamandola Aelia Capitolina, e sul luogo del tempio del dio innalzò un nuovo tempio a Giove" [VI]. Gli ebrei furono banditi dalla città. Il nome di Israele fu cancellato e la nuova provincia fu ribattezzata Siria Palæstina (in ricordo degli ormai scomparsi Filistei, di origine greca). Come commenta Martin Goodman in Rome and Jerusalem: The Clash of Ancient Civilizations: "Agli occhi di Roma e per volere di Adriano, gli ebrei avevano cessato di esistere come nazione nella loro terra" [VII].

Dobbiamo quindi ricordare che la lotta tra Roma e Gerusalemme è una forza dialettica centrale nella storia antica. Questa realtà è stata ampiamente sottovalutata dalla storiografia occidentale, erede di una civiltà cristiana la cui vocazione era quella di riconciliare Roma e Gerusalemme.

 

Come Gerusalemme colonizzò Roma

Israele sopravvisse al tentativo di sradicamento di Adriano grazie alla cultura talmudica della diaspora. L'odio per Roma (identificata con Edom, cioè Esaù) divenne parte integrante di questo Israele senza terra. Questo odio era certamente diffuso tra i 97.000 prigionieri ebrei portati a Roma da Vespasiano e Tito (secondo Giuseppe Flavio), molti dei quali furono in seguito liberati, alcuni, come lo stesso Giuseppe, addirittura adottati nella famiglia imperiale. Nei primi due secoli della nostra era, questo odio per Roma fu espresso in modo criptico nella letteratura apocalittica ebraica, spesso in termini presi in prestito dal Libro di Daniele: Roma era la quarta bestia nella visione di Daniele, con dieci corna sulla testa, che "divorava e schiacciava con i suoi denti di ferro e i suoi artigli di bronzo, e calpestava con i suoi piedi ciò che restava" (7:19-20).

Il Libro dell'Apocalisse, che chiude il canone cristiano, appartiene a questo genere letterario. Roma è designata come "Babilonia la Grande, la madre di tutte le prostitute", "che cavalcava una bestia scarlatta con sette teste e dieci corna e su cui erano scritti titoli blasfemi" (17,3-5). "Babilonia è caduta, Babilonia la Grande è caduta", grida l'angelo; "in un solo giorno le piaghe cadranno su di lei: malattie, lutti e carestie. Sarà bruciata" (18,2-8). Segue la visione della rinascita di "Gerusalemme, la città santa, che scende da Dio dal cielo" (21,10).

Come possiamo spiegare questa demonizzazione di Roma in quella che sarebbe diventata la religione di Roma nel IV secolo? O invertiamo la domanda: come possiamo spiegare che Roma si sia convertita a una religione la cui profezia programmatica era la caduta di Roma e la rinascita di Gerusalemme?

La conversione di Roma al cristianesimo è uno dei più grandi enigmi della storia umana. Ho condiviso alcune riflessioni su questa questione in "How Yahweh Conquered Rome" e ne aggiungerò altre qui.

Dobbiamo partire dal fatto, difficilmente contestabile da chiunque, che il cristianesimo si è diffuso nella società romana dal basso, non dall'alto. Secondo l'autore pagano Celso, che scrive sotto Marco Aurelio (161-180 d.C.), i predicatori cristiani, "che nelle piazze del mercato compiono i trucchi più vergognosi e radunano folle intorno a sé, non si avvicinerebbero mai a un'assemblea di saggi, né oserebbero esibire le loro arti in mezzo a loro". Essi prendono di mira persone ignoranti e credulone, soprattutto schiavi e donne (Origen, Contra Celsum, III, 50).

Il cristianesimo fu denunciato dall'aristocrazia romana come sovversivo dei valori romani.

Ciò può contribuire a spiegare perché finì per essere promossa e applicata dagli imperatori romani. Nel III secolo, gli imperatori non erano più senatori romani, ma comandanti militari stranieri: la dinastia dei Severi (193-235) era di origine siriana e punica, con un forte legame con il culto siriano di Eliogabalo (dall'arabo Ilah Al-Gabal, "dio della montagna"). Dopo di loro venne Filippo l'Arabo (244-249). Le dinastie di Costantino e Valentiniano provenivano dai Balcani. Teodosio I (379-395) nacque nella Spagna cartaginese e potrebbe essere di origine punica. Tutti questi imperatori sembrano aver usato la superstizione popolare cristiana contro la classe senatoriale romana.

Un episodio rivelatore avvenne nel 357, quando Costanzo II ordinò la rimozione dell'Altare della Vittoria, con la statua della dea alata che reggeva un ramo di palma, dalla Casa del Senato di Roma. L'altare fu restaurato da Giuliano, ma poi rimosso nuovamente da Graziano. L'importante senatore Simmaco implorò Valentiniano II di ripristinarla e, con essa, le "cerimonie ancestrali" che portano la benedizione di Dio a Roma. "Chi è così amico dei barbari da non chiedere un altare della Vittoria?", chiese.

Ovviamente non si trattava solo di una lotta tra imperatori cristiani e senatori pagani. Eliminare la dea della Vittoria dal Senato romano! Poteva esserci un simbolo più minaccioso? Era una rappresaglia per l'incendio del tempio di Gerusalemme?

Gesù ha davvero ucciso Roma? I romani pagani lo pensavano. Dopo il sacco della città da parte di Alarico nel 410, i cristiani furono accusati di aver rovinato l'amore per la patria e il coraggio di difenderla (Machiavelli avrebbe fatto lo stesso ragionamento nei suoi Discorsi su Livio II.2). Agostino scrisse La città di Dio in risposta a questa accusa. Non negava che ai cristiani non potesse importare di meno di Roma, essendo interessati solo alla loro città celeste. Ma voleva che i romani sapessero che qualsiasi cosa avessero sofferto durante il sanguinoso sacco della loro città – perdita di beni o di persone care – era per il loro bene, perché li avvicinava a Dio. Quanto alle ragazze che erano state violentate, non dovevano preoccuparsi, perché le loro anime non erano state contaminate, a meno che non avessero provato un po' di piacere, ovviamente (I.10).

Sebbene Roma avesse schiacciato Gerusalemme militarmente più e più volte, la guerra si concluse con la resa spirituale di Roma. Mentre la città di Roma diventava una colonia di Gerusalemme, con un papa che sedeva nel palazzo imperiale del Laterano, un nuovo Impero Romano emergeva in Germania, e la lotta tra queste due romanità divenne la questione centrale del Medioevo europeo. Federico II Hohenstaufen, l'uomo che avrebbe affermato che "il mondo intero è stato ingannato da tre impostori: Gesù Cristo, Mosè e Maometto" (secondo l'accusa di Papa Gregorio IX), era una sorta di Adriano o Marco Aurelio, e un precursore del Rinascimento; i papi lo odiavano biblicamente, lo scomunicarono tre volte e si assicurarono che la sua discendenza fosse sterminata fino all’ultimo nipote.

Diciotto secoli dopo Adriano, l'Occidente cristiano restituì Gerusalemme e la Palestina agli ebrei. Per farla breve: la Roma pagana aborriva Israele e lo distruggeva, la Roma cristiana venerava questo stesso antico Israele e lo ricreava.

Nel frattempo, che ne è stato del Dio ebraico che abbiamo adottato con il cristianesimo? È morto. Gli europei hanno rifiutato questa blasfema presa in giro di Dio e ora si ritrovano senza Dio. Nel frattempo, il potere ebraico è vivo e vegeto.

Laurent Guyénot

Ingegnere (Scuola Nazionale di Tecnologia Avanzata, 1982) e medievalista (Dottorato in Studi Medievali alla Parigi IV-Sorbona, 2009). È autore di numerosi libri e articoli sull'argomento.

 

Note

  1. Jacques Attali, The Economic History of the Jewish People, ESKA Publishing, 2010,
  2. John E. Anderson, Jacob and the Divine Trickster: A Theology of Deception and Yhwh’s Fidelity to the Ancestral Promise in the Jacob Cycle, Eisenbrauns, 2011, p. 1. Grazie a questo commentatoreper la fonte.
  3. Origene, Contro Celso, VI, 28.
  4. Emily A. Schmidt, “The Flavian Triumph and the Arch of Titus: The Jewish God in Flavian Rome”, su org; vedi anche Jodi Magness, “The Arch of Titus and the Fate of the God of Israel,” Journal of Jewish Studies, 2008, vol. 59, n°2, pp. 201-217.
  5. Martin Goodman, Rome and Jerusalem: The Clash of Ancient Civilizations, Penguin, 2007, p. 454.
  6. Ibid., p. 484. Eusebio di Caesarea ha una cronologia diversa, ma è una fonte molto più tarda.
  7. Ibid., p. 494.

 

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