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«W.», quel ragazzaccio che diventò presidente


Tao
 Tao
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Il film, finito in tutta fretta per la distribuzione prima del 4 novembre, racconta gli anni giovanili e l'ascesa della «pecora nera» della famiglia, tra alcol, voti mediocri e risse. È più un ritratto da consegnare ai posteri che un affondo sulle nefandezze della peggiore amministrazione della storia americana. La prima europea sarà al festival di Londra

Citando una cosa che aveva già detto in occasione dell'uscita di World Trade Center («bisogna capire come siamo arrivati nella situazione in cui siamo oggi. Il film è solo il primo tentativo di farlo») e Socrate («una vita non esaminata non è degna di essere vissuta»), Oliver Stone ha presentato martedì sera al pubblico il suo W.
Per la prima mondiale del film, nell'enorme e fastosa platea dello Ziegfield (e dopo, alla festa, nelle ancora più fastose sale del Metropolitan Club - disegnato da Stanford White per il banchiere J.P. Morgan), erano riuniti cinema newyorkese e establishment giornalistico locale. A vederla - in discreto abito scuro, cibarsi di tacos tra stucchi e ori - quell' «élite della East Coast» tanto vituperata nel rally di McCain e Palin non sembrava, in effetti, molto terrorizzante. Con i ratings dei canali all news in salita, i siti politici sempre più frequentati e i programmi satirici che non sono mai andati così bene come prima di queste elezioni, l'attesa per W. era elevatissima. Il film arriva nelle sale americane venerdì, preceduto per ora solo da un paio di recensioni (Variety e Hollywood Reporter - il primo negativo, il secondo meno) perché finora anche l'accesso dato alla stampa è stato ridotto. Nel giro di qualche giorno il film sarà al festival di Londra.

Girato e montato in tempi rapidissimi (45 giorni circa di riprese, il budget relativamente basso, 25 milioni di dollari, tutti in capitali esteri), finito solo qualche giorno fa, per poter arrivare in sala prima del 4 novembre (quando di Bush Jr. nessuno vorrà più sentir parlare almeno per un po'), W. fa l'effetto di un film con la camicia di forza. Oppure di un'outline, una traccia su cui costruire - formalmente, di riflessioni, di texture, di contraddizioni, di cesello... Come Stone aveva fatto per gli altri suoi due lavori dedicati a presidenti americani, Nixon e JFK. Questo non per far diventare W. un film più «di sinistra», «di denuncia» o semplicemente più controverso, ma per renderlo più interessante.
In un'intervista televisiva di qualche giorno fa, con il direttore di Variety, Peter Bart, Oliver Stone ha (più volte) definito W. «un soufflé». Ma - specialmente dopo otto anni - l'immagine del soufflé (e il tono della commedia leggera adottato) non si addice proprio a un'amministrazione radicale - per scelte politiche, impatto sul mondo e inettitudine, che ha generato scandali, denouements, iperboli di surrealismo, satira e amore/odio altrettanto radicali.

Scritto (insieme al suo vecchio collaboratore di Wall Street, Stanley Weizer), W. è un film dosato con attenzione sulla base della cronaca e dei dettagli raccolti nei migliori libri usciti su Bush e company (tra gli altri, quelli di Ron Suskind, Richard Clarke, Bob Woodward, Paul O'Neil e Jane Mayer). In questo senso è uno dei film più equilibrati, dosati e «responsabili» di Oliver Stone. Ma, come diceva l'altra sera un amico del New York Times: «Vogliamo che Stone metta la testa a posto proprio adesso?». In altre parole, W. è un film stranamente dissociato dal suo presente. Alieno per i detrattori dell'asse Hollywood/Washington/New York e poco provocante per gli altri. Come se fosse già pensato per i posteri.
La storia padre/figlio, George Bush Senior e Junior (James Cromwell e Josh Brolin, tutti e due molto bravi, come tutti gli attori), costituisce l'ossatura psicologica principale della trama, che salta tra gli anni giovanili di George W. Bush e il suo primo mandato presidenziale fermandosi appena dopo l'invasione irachena. Stone, che viene da un'importane famiglia repubblicana (su Interview ha raccontato che sua madre lo ha pregato «nonostante tutto» di non diffamare troppo il presidente) e che era a Yale negli stessi anni di W., inscena un'atmosfera da Animal House, per il periodo dell'Ivy league dove Junior colleziona voti mediocri, sbronze colossali, risse e ragazze non approvabili.

Papà e mamma (Ellen Burstyn) sospirano e lo tolgono dai pasticci. «Ma cosa credi di essere, un Kennedy?» gli dice un giorno esasperato Bush senior in una delle battute più applaudite della serata. «Sei ammattito?» gli urla invece la madre Barbara, quando W. annuncia di volersi candidare come governatore del Texas.
Nonostante la conversione al cristianesimo evangelico, lo stop all'alcol e il successo politico, il rapporto difficile con genitori (che gli preferiscono il secondogenito Jeb) continua una volta che W. arriva alla Casa Bianca (anzi, suggerisce Stone, è il motore della sua carriera) dove la sua politica tutta di pancia e una certa intelligenza istintiva devono fare i conti con le arti nefaste di Cheney (Richard Dreyfuss, che affonda i denti nelle nefandezze del vice con gioia), il disegno iracheno di Rumsfeld e Wolfowitz (Scott Glenn e Dennis Boutsikaris) e gli istinti da burattinaio di Karl Rove (Tobey Jones).
Se la cava come può e sembra il più simpatico di tutti. Oliver Stone è troppo intelligente, colto e curioso per aver scelto deliberatamente di fare un film che giustifica la storia di George W. Bush (e l'eredità che ci sta per lasciare) con una psicologia e una trama così semplici, da self help. L'impressione è che abbia appena cominciato a pensarci.

Giulia D'Agnolo Vallan
Fonte: www.ilmanifesto.it
Link: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/16-Ottobre-2008/art55.html
16.10.08


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