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Martyrs, gli abissi del fanatismo


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Non è facile raccontare un film come Martyrs , introdurre un'opera durissima che merita di non essere svelata, in modo che possa entrarti dentro con tutta la spudorata violenza di cui è capace. Possiamo dare qualche informazione illuminante, però: da 20 anni a questa parte è il primo film nella laica e libera Francia ad aver subito una censura pesantissima, un divieto di visione ai minori di anni 18, che poi, dopo molte proteste, è sceso a 16. La sceneggiatura ha sconvolto persino il produttore Gaspar Noè, uno che ebbe il coraggio e lo stomaco di finanziare Irreversible (celebre per la scena di stupro durissima ai danni di Monica Bellucci). Infine la protagonista, l'eccellente Morjana Alaoui, bellezza sofferta e grinta da vendere, si è rotta ben tre ossa sul set.

Forse questi indizi non fanno una prova e non costruiscono una leggenda, ma di certo ce n'è in abbondanza per fare di Martyrs un cult. Accontenta i lussuriosi dello splatter, coloro che vogliono la violenza esposta, parossistica, sadica, così come allieta il gusto di chi cerca nell'horror gli abissi psicotici della mente umana. Ma è anche qualcosa di più, una pellicola selvaggia e visionaria che con inquietante lucidità ritrova l'ispirazione e la rabbia, anche politica, dell'età dell'oro di questo genere cinematografico. Pascal Laugier utilizza una coppia d'attrici di grande intensità (l'altra è Mylene Jamapanoï) e le immette in un meccanismo perfetto, in una tragedia in tre atti in cui non ci sono limiti, se non la rimozione delle immagini dello spettatore, messo alla prova continuamente (un po' alla Haneke, ma senza la provocazione della sospensione della credulità).

Il film inizia con l'effetto di un abuso, una bimba massacrata che cammina allucinata, in fuga da un orrore verso l'amicizia - amore - sorellanza di una coetanea con cui condivide un'infanzia difficile. Il secondo è una sanguinosa e implacabile vendetta verso una famiglia affidataria che dietro la facciata ipocrita e borghese nasconde un male troppo difficile da credere, raccontare, rivivere. Eppure, questo è solo l'inizio, solo il prologo sopportabile (si fa per dire) del vero inferno che si apre sotto i piedi della sfortunata superstite. La spiegazione di tutti i mali finora visti. Semplicemente inspiegabile.

Scopriamo un'organizzazione ramificata (e come al solito, Hostel insegna, costituita da potentissimi vecchi, metafora di un mondo decadente e gerontofilo) che cerca di avvicinarsi a dio, di conoscerlo, vederlo, trovarlo. E lo fa con l'ascesi e il martirio, ma altrui. Come i dottori dell'orrore e i serial killer della letteratura cercano l'anima o l'immagine della morte nella pupilla della vittima, loro hanno messo su un'industria dell'Avvento, perché attraverso il dolore - «chi non soffre non offre» è l'assurda consolazione di molte suore negli ospedali - possa avvenire la santificazione, la rivelazione del divino nell'umano (e forse viceversa).

Questo cineasta, però, non si limita a questa bella e provocatoria idea, non cerca solo la trovata ad effetto, l'attacco intellettuale e illuminista all'oscurantismo religioso che pervade la nostra epoca e che droga ogni relazione politica, sociale e personale. Ci mostra l'orrore, la conseguenza estrema del fondamentalismo militante (e millantante) che i monoteismi portano ottusamente avanti nell'attuale conflitto di culture e civiltà. Piazza la macchina da presa dentro la cella asettica in cui Anna è rinchiusa, e mette lo spettatore nella parte terribile di un passivo carnefice. Anna viene picchiata, affamata, devastata e scarnificata nell'animo e nel fisico. Si va ben oltre la riduzione della dignità, il percorso verso l'ascesi è l'annullamento totale e atroce di ogni residua umanità, con un approccio scientifico e ripetitivo di cui nulla ci viene risparmiato. Dal dolore infinito della protagonista, che finisce per astrarsi da sé (cosa che chi guarda non può ne riesce a fare) all'entusiasmo spaventoso di alti papaveri che devono soddisfare il loro capriccio religioso.

Laugier ci regala un piccolo capolavoro dell'horror moderno, staccandosi dagli stereotipi della tradizione moderna e confermando la marcia in più che hanno i cineasti francesi (a partire da Aja), che riescono ancora a scrivere e parlare tra le righe di un genere ancora terribilmente vivo. Un horror destabilizzante e psicotico, una denuncia terribile, un folle viaggio nel fanatismo che trova sempre un punto più basso su cui atterrare, un inferno peggiore in cui precipitare. Un gran bel film che non lascia alibi, catarsi, vie d'uscita. Come solo il grande cinema sa fare.

Boris Sollazzo
Fonte: www.liberazione.it
18/06/2009


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