Notifiche
Cancella tutti

Il mondo in mano a multinazionali sempre più grandi


Tao
 Tao
Illustrious Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 33516
Topic starter  

Aumentano le dimensioni, cresce la globalizzazione delle attività e si allarga il «gap fra la produttività (valore aggiunto pro-capite) e il costo del lavoro che rimane su livelli minimi, in particolare in Italia, ma soprattutto nell'area russo-asiatica. Queste le principali tendenze di lungo periodo emerse dall'indagine di R&S, il Centro Studi di Mediobanca, sulle multinazionali del settore manifatturiero, energetico, telecomunicazioni e utility. Per quanto riguarda l'Italia, R&S sottolinea che sono poche, in generale piccole, con una scarsa spesa per la ricerca e la tecnologia e crescono relativamente meno rispetto a quelle europee, nordamericane e giapponesi.

Quelle veramente importanti sono solo Eni, Enel e Fiat, di cui le prime due sono a controllo statale, mentre solo Fiat fa capo ad azionisti privati. Tra le multinazionali italiane è comprese Telecom che entra a far parte dell'indagine avendo superato il 10% delle esportazioni all'estero (uno dei criteri di selezione della campionatura dell'indagine). A proposito di Enel, il Centro Studi di Piazzetta Cuccia, rileva come il gruppo energetico italiano nel nel 2007 si è collocato al terzo posto fra le utility più grandi del mondo con un attivo totale di 95,6 miliardi di euro. L'Enel ha recuperato due posizioni rispetto al 2006 in seguito all'acquisizione (conclusa nell'ottobre 2007) del 45,62% del capitale di Endesa. Al top delle atility rimane la francese Edf con un attivo totale di 176,5 miliardi.
Il contributo al fatturato aggregato europeo delle grandi imprese italiane è del 7% contro il 23% di Germania e Gran Bretagna e il 17% della Francia. La produttività (il valore aggiunto pro-capite) è la più bassa in Europa, così come lo è anche il livello del costo unitario del lavoro. Si registrano altresì bassi margini in tutti i settori manifatturieri, ad eccezione del comparto energetico che macina invece profitti notevoli. Al contrario, italiane evidenziano una sempre maggiore componente di debito bancario che supera i livelli europei.

Ai vertici delle maggiori multinazionali si collocano quelle giapponesi. La Toyota primeggia nel 2007 fra le imprese industriali più grandi al mondo, con un totale dell'attivo di 209,2 miliardi di euro, seguita dalla britannica Royal Dutch Shell (179,4) e dalla russa Gazprom (177,7). Se invece si tiene conto della capitalizzazione di Borsa, a primeggiare è la compagnia petrolifera americana Exxon-Mobil (347,7 miliardi di euro) che quest'anno, però, cederà il primo posto alla cinese Petrochina (Cnpc) che capitalizza alla Borsa di Shangai 466 miliardi.

Lo studio di R&S offre anche una analisi di quanto accaduto nell'ultimo decennio che vede presenti sul globo 342 multinazionali (17 in Italia). Tra il 1997 e il 2006, le utility hanno visto un aumento del totale dell'attività del 103%, le tlc sono cresciute mediamente del 78%, mentre le imprese industriali hanno piazzato un aumento del 59%. «Globalizzazione» è la parola d'ordine delle multinazionali: hanno continuato nel periodo la delocalizzazione produttiva e diversificato i mercati di sbocco.

Galapagos
Fonte: www.ilmanifesto.it
Link: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/06-Giugno-2008/art37.html
6.06.08


Citazione
WONGA
Eminent Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 35
 

Le multinazionali sono solo occidentali? Posto questa roba così vi fate un aggiornamento.
Shock in Borsa, Cina batte Usa

FEDERICO RAMPINI, la repubblica
PECHINO — Nella classifica delle top ten del capitalismo mondiale, le aziende dal più alto valore di Borsa, da ieri ci sono più società cinesi che americane. E’ un sorpasso clamoroso, impensabile fino a pochi anni fa. La Repubblica popolare dove sventola la bandiera rossa della rivoluzione e che ha appena celebrato il 17esimo congresso del partito comunista, iniziò
a convertirsi all’economia di mercato meno di trent’anni fa.
Ancora all’inizio di questo decennio nessuna azienda cinese poteva aspirare ad avvicinare la capitalizzazione di Borsa di giganti americani come la General Electric e la Microsoft. Ora la compagnia petrolifera PetroChina vale più di General Electric ed è lanciata all’inseguimento della Exxon (525 miliardi di dollari). Sia il gruppo telefonico China Mobile che l’istituto di credito Industrial & Commercial Bank of China (Icbc) superano il valore azionario di Microsoft, di Citigroup e della Bank of America. La compagnia assicurativa China Life (260 miliardi di dollari) pesa più della AT&T, di Procter & Gamble e di Electricité de France.
Con un indice azionario di Shanghai che è quasi triplicato
dall’inizio di quest’anno, la Borsa della Repubblica popolare attrae una quota crescente dei risparmi privati, dall’immenso giacimento di ricchezza accumulato nelle famiglie cinesi: oltre 2.300 miliardi di dollari. Stufi dei magri rendimenti offerti dai libretti di risparmio, ben 50 milioni di risparmiatori hanno aperto dei conti-titoli per operare in Borsa. Sono loro il vero motore del boom delle quotazioni.
In massima parte il denaro che affluisce sulle aziende quotate
a Shanghai viene dal “parco buoi” degli investitori individuali,
mentre per gli operatori stranieri resta molto più semplice acquistare azioni quotate a Hong Kong.
Il mercato finanziario cinese non è totalmente liberalizzato, la moneta nazionale (renminbi o yuan) non gode della piena convertibilità.
Questo rende ancora marginale il ruolo dei capitali stranieri.
Ma la ricchezza delle famiglie è bastata a sospingere il capitalismo cinese verso il primato assoluto delle Borse. Nella top ten si sono piazzati cinque gruppi cinesi e solo tre americani. Se si allarga lo sguardo alle venti società con la
massima capitalizzazione, vince sempre la Cina (otto aziende) seguita da Stati Uniti (sette), Unione europea (quattro) e Russia (una).
Le multinazionali cinesi pesano per il 41% del valore delle Top
20, le americane il 38%, tutto il resto del mondo deve accontentarsi del 21%. Vecchie potenze del capitalismo occidentale come Gran Bretagna e Francia fanno fatica a piazzare una o due società nel vertice dominato dagli asiatici.
E la tendenza sembra destinata ad accentuarsi vista l’alluvione
di nuovi collocamenti in Borsa che avvengono a Shanghai. Le
azioni di PetroChina hanno moltiplicato il loro valore per 16 da
quando furono quotate per la prima volta (a Hong Kong nel 2000) e il 5 novembre per la prima volta saranno offerte a Shanghai dove milioni di risparmiatori cinesi attendono con trepidazione il collocamento e si sono già “prenotati” per 330 miliardi di dollari. Un’analoga febbre delle sottoscrizioni si è verificata per il collocamento in Borsa di Alibaba. com, popolare sito per il commercio online fondato dall’imprenditore di
Hangzhou Jack Ma.
La travolgente avanzata del capitalismo cinese trasforma i rapporti di forze sia all’intero che all’esterno
del paese. A Pechino l’ultimo congresso del partito comunista
ha visto l’aumento degli imprenditori miliardari eletti nel comitato
centrale: sono ormai venti.
Nel mondo un ennesimo segnale dei tempi che cambiano si è avuto con la storica decisione di Bear Stearns di aprire il proprio capitale alla banca cinese Citic: «l’equilibrio del potere si sposta» ha commentato il New York Times, di fronte al matrimonio cinese celebrato da una delle più antiche
istituzioni dell’establishment finanziario di Wall Street. Per la Citic l’investimento è quasi modesto — un miliardo di dollari — in confronto al colpo messo a segno dalla sua concorrente Icbc che ha appena comprato il 20% della Standard Bank of South Africa per 5,6 miliardi di dollari in cash.
L’ascesa della potenza finanziaria cinese non è priva di rischi.
Nel 1989 il Giappone si era conquistato una supremazia perfino
più schiacciante — le sue società rappresentavano il 73% della capitalizzazione di tutte le Borse mondiali — poi la “bolla speculativa” di Tokyo si sgonfiò ed ebbe inizio una lunga depressione. Sulle prospettive della piazza di Shanghai gli operatori stranieri sono divisi. Jim Rogers, presidente della società d’investimenti Beeland Interests ed ex partner di George Soros, ha deciso di disinvestire dal dollaro per comprare yuan in vista di una rivalutazione — inevitabile secondo lui — della moneta cinese. Invece l’investitore Warren Buffett — che contende a Bill Gates la palma dell’uomo più ricco del mondo — ha appena venduto la sua quota di PetroChina e ha deciso di stare alla larga dal mercato asiatico: «Non compro quando vedo questo tipo di impennate dei prezzi».


RispondiCitazione
Condividi: