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«Così mi fucilarono gli americani»


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Il carabiniere Cianci racconta una strage sconosciuta nella Sicilia del ' 43

Nel corso di Husky, nome in codice dello sbarco alleato in Sicilia del luglio 1943, le truppe statunitensi, comandate dal generale George Patton, trucidarono numerosi civili e molti militari che si erano arresi. Le stragi dei prigionieri italiani a Biscari, a sud di Caltagirone, rivelate dallo storico statunitense Carlo D' Este, non furono dunque una disgraziata eccezione. Una tragedia simile, di cui mai si è scritto o parlato, si consumò a 8 chilometri da Gela, sulla strada per Vittoria, verso le 7 di mattina del 10 luglio, giorno dello sbarco; in questa località, detta Passo di Piazza, i carabinieri reali avevano costituito un posto fisso in un casale rurale. Era in posizione strategica perché i militari potessero vigilare la linea ferroviaria che correva parallela al mare. Erano una quindicina e al momento dello sbarco due erano in pattuglia. Gli altri furono svegliati dal fuoco martellante dell' artiglieria; tutto intorno scendevano centinaia di paracadutisti americani. I carabinieri, al sorgere del sole, si accorsero che la palazzina in cui si erano asserragliati era circondata dai nemici che intimavano la resa.

Uno dei militari italiani, Antonio Cianci di Stornara (Foggia), 21 anni, si era arrampicato sul tetto della costruzione per vedere cosa stesse accadendo. Ha accettato di parlarne soltanto adesso, per la prima volta dopo tantissimi anni: «Ho avuto la sensazione che l' elmetto di un gruppo di soldati che si stavano avvicinando all' edificio dove eravamo alloggiati fosse tedesco; erano sei o sette e camminavano nella campagna piuttosto indifferenti. Avevamo ordini, nel dubbio, di sparare e mirai a uno del gruppo; lo colpii perché cadde subito. Gli altri si buttarono a terra subito dopo e cominciarono a rispondere al fuoco. Io sparavo con il moschetto e loro rispondevano con i mitra e avevano i binocoli per osservarci; noi eravamo in tre con il vicebrigadiere e un carabiniere, giovane come me, di Salerno. Dopo un po' , gli americani dovettero dare ordine alle loro navi di spararci con i cannoni e noi scendemmo subito nelle stanze di sotto; i nemici, vedendo che avevamo smesso di sparare, dovettero avvisare le navi che sospesero il bombardamento». Poi gli americani si avvicinarono al presidio: «A quel punto - prosegue Cianci - andai al muro perimetrale: in realtà avevo bisogno di orinare. Ma non ebbi il tempo, perché vidi un gruppo di una decina di soldati nemici. Impressionato (in quel momento ero disarmato), girai su me stesso e risalii la rampa di scale di corsa per avvisare il vicebrigadiere Pancucci che di sotto c' erano i nemici. Il nostro sottufficiale ci disse di appostarci dietro le finestre e rispondere al fuoco; subito, però, le navi ricominciarono il bombardamento. Quando Pancucci si rese conto che stavano scoppiando i vetri delle finestre, che le porte venivano scardinate e i calcinacci cadevano da tutte le parti, che la palazzina, centrata, ci sarebbe crollata addosso, mi ordinò di esporre alla finestra un lenzuolo; un altro di noi fece lo stesso con la tovaglia bianca del tavolo dove consumavamo il rancio». Bandiera bianca, la resa dei carabinieri era inevitabile: «Abbandonammo tutte le armi nelle stanze e ci avviammo verso le scale dove due paracadutisti ci aspettavano con le armi puntate; urlavano e ci facevano capire a gesti di scendere in fila indiana e con le mani alte e bene in vista. Nel cortile fummo allineati tutti quanti - nel conflitto a fuoco nessuno era stato colpito - e ci fu chiesto se c' erano altri nelle stanze; alcuni degli americani salirono nei locali per controllare. In realtà non c' era nessun altro militare. A questo punto la situazione sembrava essersi rasserenata e i paracadutisti ci consentirono di appoggiare le mani sulla testa con le dita incrociate, per non stancarci».

Poi la situazione precipitò: «Altri militari americani arrivati in un secondo momento - ricorda Cianci - cominciarono a percuotere con i calci dei fucili le porte dei locali attigui a quelli della caserma, in cui erano alloggiati dei contadini. Questo, credo, fece pensare ai nostri guardiani che avessimo mentito e che alle loro spalle ci fossero altri nostri compagni asserragliati. Non stettero a pensarci due volte e cominciarono a sventagliarci con raffiche di mitra. Quando ci spararono, tre o quattro di noi morirono subito, parecchi furono feriti e io feci finta di essere stato colpito. Siccome mi lamentavo, terrorizzato, uno degli americani mi venne vicino e mi aprì la camicia perché io gli indicavo di essere stato ferito all' altezza del cuore. Quando vide che non avevo niente mi rassicurò: "Good, good". Vicino a me, alla mia destra, c' era un carabiniere morto; un altro commilitone di Salerno era gravemente ferito alla spalla sinistra e piangeva. C' erano altri carabinieri a terra, ma ero spaventatissimo e non mi accertai se fossero morti o feriti». La buona sorte aveva risparmiato Cianci, ma le disavventure non erano finite: «Dopo una mezz' ora, quando si erano calmate le acque, ci misero in colonna, compresi i feriti, e ci portarono in mezzo alla campagna. Rimanemmo tre giorni sulla spiaggia con un freddo notturno terribile; ci mettevamo uno sopra l' altro per riscaldarci. Quando ci imbarcarono per l' Algeria, sulla rampa delle navi ci perquisirono e rubarono tutto quello che avevamo (portafoglio, denaro, penne stilografiche, collanine d' oro, anelli, orologi). Quando arrivammo in Nord Africa, dovemmo fare una marcia di 60 chilometri e il vicebrigadiere, che aveva gli stivali, cominciò a perdere sangue e a rimanere indietro. Io gli detti la mia camicia per coprirsi le piaghe ai piedi e un altro carabiniere glieli avvolse con le sue fasce gambiere. Gli dissi di buttare gli stivali per alleggerirsi, ma lui li legò con i lacci e se li portò nel campo di concentramento assicurati al collo».

Di quell' episodio nessuno ha mai saputo nulla. Solo una testimonianza del carabiniere Francesco Caniglia di Oria (Brindisi), ormai deceduto da qualche anno, a me recapitata, ha consentito che l' anziana figlia di Michele Ambrosiano, carabiniere richiamato e padre di cinque figli, ammazzato con altri militari a Passo di Piazza, potesse avere una parvenza di giustizia. La signora mi ha detto che l' unico sogno rimasto, ora che è molto anziana, è che la stazione dei carabinieri di Sommatino (Caltanissetta), dove la sua famiglia ha le radici, sia intitolata al padre.

Fabrizio Carloni
Fonte: www.corriere.it
10.08.2010

L' autore di questo articolo, Fabrizio Carloni, ha dedicato diversi studi alle vicende della Seconda guerra mondiale in Italia. Negli anni scorsi ha scritto due libri: San Pietro Infine. 8-17 dicembre 1943: la battaglia prima di Cassino (Mursia, 2003) e Il corpo di spedizione francese in Italia, 1943-1944 (Mursia, 2006). Carloni ha individuato e intervistato il carabiniere Antonio Cianci nell' ambito di una ricerca sullo sbarco in Sicilia. Sull' argomento ha pubblicato due saggi sulla rivista «Nuova Storia Contemporanea», mentre un suo volume sulla battaglia di Gela, con diverse novità, uscirà nei prossimi mesi.


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dana74
Illustrious Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 14470
 

noooooo.......chi? gli americani?

I santi liberatori inviatici da messia per il bene nel mondo hanno fatto questo?
ed i testimoni di questo ridotti al silenzio fino ad oggi, mannaggia addio icona ed aureola per gli unti liberatori

Riprovevole che siano stati ridotti al silenzio cos' a lungo, i motivi li sappiamo.


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mendi
Reputable Member
Registrato: 3 anni fa
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Nessuna sorpresa. I crimini dei "liberatori" sono tali e tanti da eguagliare se non superare quelli dei tedeschi e dei russi. Sono cose che si sanno, ma vengono tenute coperte dall'ipocrisia dei servi stupidi dell'americanismo, in Italia, in Francia, ma soprattutto in Germania, che ben si potrebbe definire un'altra stella della bandierona statunitense.


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