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«Bossi, il dottor “Ce l’ho duro”»


Tao
 Tao
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«Voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di mettere in dubbio il buon diritto di Umberto Bossi, che è parte della storia di questo paese, a ricevere una laurea honoris causa». Parole del ministro della Pubblica istruzione e dell’università Mariastella Gelmini.

Che un ministro caldeggi la laurea di un altro collega ministro presso un ateneo è già un fatto «irrituale», diciamo. Che questo ministro sia il ministro dell’istruzione e dell’università rende la proposta ancora più sconveniente. Se poi il ministro per il quale si propone la laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione si chiama Umberto Bossi con tutto quel che evocano proprio i modi e il linguaggio stesso di Umberto Bossi: dal disprezzo ostentato di ogni valore addirittura intellettuale al turpiloquio più greve, dal più spregiudicato elogio dell’egoismo particolaristico al più cinico ricorso a linguaggi violentemente discriminatori (perché la «comunicazione» veicola anche significati, messaggi, idee)… allora la questione, apparentemente marginale nella drammaticità del momento, assume tratti che sarebbe errato liquidare come una delle bizzarrie più o meno grottesche cui siamo ormai avvezzi in questo paese. Perché, in realtà, non c’è cosa peggiore che abituarsi a «piccoli» sistematici e apparentemente innocui abusi del genere, che spostano sempre più in là i limiti della decenza e la deriva dell’idea stessa di cultura.

Che la proposta suoni come una contraddizione in termini per chi abbia una qualche cognizione del significato che ancora oggi, nonostante tutto, si tende ad attribuire a una laurea honoris causa, che insomma ci sia un che di paradossale in una laurea in Scienze della Comunicazione, in una laurea tout-court, assegnata a una figura come Umberto Bossi rende l’interferenza del ministro Gelmini non solo inopportuna, ma ne fa la manifestazione di una dissimulata prova di forza da parte di un potere dal volto mite che, dopo aver messo pesantemente le mani nei bilanci della scuola e dell’università, spacciando una questione di cieca contabilità per una riforma, rivendica il diritto di mettere becco (e beccare chiunque si azzardi a dissentire) in scelte prettamente accademiche come l’attribuzione di una laurea, e lo fa, non a caso, sul filo del paradosso. Se si accetta un paradosso, d’altro canto, cosa si potrà non accettare, dopo?

È proprio su questa logica perseguita in modo più o meno scoperto in ambiti diversi della cultura istituzionale, che vorrei riflettere. E il fatto che, in questo caso, una tale logica di potere sia dissimulata nella innocenza di un omaggio al senatore Bossi chiesto dal ministro dalla faccia mite (Mariastella Gelmini) al rettore dell’università dell’Insubria di Varese, dà solo la misura di come sia capillare il processo in atto.

Indispensabile riconoscimento

Sarà un caso, certo, ma mentre il presidente della provincia di Varese scrive la sua bella lettera alla «Prealpina», chiedendo anche lui all’università dell’Insubria di conferire l’«indispensabile riconoscimento accademico all’uomo politico… più significativo degli ultimi 30 anni» che, con la sua «incredibile capacità di comunicazione di massa» ha reso possibile il «miracolo leghista», presentando il gesto insomma come un atto dovuto a un figlio illustre della Padania, in Sicilia, il presidente della regione Raffaele Lombardo (che tra «lombardi» del nord e del sud, oggi in Italia, ci si capisce più di quanto non sembri) istituisce, con tanto di decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, tre onorificenze per premiare «l’identità siciliana» riservando all’assessore ai Beni Culturali il compito di presiedere una commissione ad hoc e a se stesso la scelta finale dei «meritevoli».

Verrebbe da pensare che dopo «l’egemonia sottoculturale» – come la definisce Massimiliano Panarari – di veline tronisti grandi fratelli imposta per via televisiva, sia arrivato il tempo dell’assalto alla diligenza o della vera e propria occupazione, da parte del potere politico, dei piani alti della cultura, di quella che dovrebbe cioè dar lustro a un paese o comunque dar conto della sua vitalità culturale o artistica, passata e presente.

È forse un caso che uno dei primi atti del ministro ai Beni Culturali Sando Bondi sia stata l’istituzione di quella Direzione Generale che ha, di fatto, esautorato il potere delle soprintendenze (come sottolineato dal Consiglio Superiore dei Beni culturali) per passarlo nelle mani dell’ex amministratore delegato di McDonanld’s Mario Resca? È forse un caso che anche l’assessore ai Beni culturali e all’identità siciliana della regione Sicilia, Gaetano Armao, abbia avocato al proprio dipartimento la gestione di tutti i musei e i siti culturali della soprintendenza di Palermo? È forse un caso che oggi il sovrintendente di Fondazione Arena, a Verona, sia tal Francesco Girondini, perito agrario, fedelissimo del sindaco Tosi…?

E tutto questo mentre si moltiplicano i casi di censure dirette indirette: dai tagli indiscriminati, vessatori, ciechi a teatri stabili, enti lirici e istituti culturali in genere, alle sempre più frequenti «valutazioni» espresse dalle amministrazioni pubbliche riguardo all’opportunità di mettere in scena opere ora perché «non in sintonia con le linee culturali dell’assessorato» (come nel caso di due testi di Renato Sarti, del Teatro della Cooperativa di Milano) ora perché «toccano temi scabrosi come l’omosessualità» (come è accaduto per Orgia di Pasolini che l’assessore alla Cultura della Provincia di Milano ha chiesto di cancellare dal cartellone di «Invito a teatro»), valutazioni che non si preoccupano nemmeno di dissimulare la precisa volontà di allineare la cultura o addomesticarla in base a linee-guida dettate o meglio «consigliate» (il volto mite del potere) da chi sempre più spesso scambia l’amministrazione della cosa pubblica con l’esercizio di un potere appunto che non ammette disallineamenti sino al caso esemplare di Morgan cui il sindaco di Verona, Tosi, ha vietato di esibirsi all’interno della rassegna Cantautori doc… work in progress adducendo motivazioni siffatte: «Uno che si vanta di fare uso di cocaina non può venire ad intrattenere il pubblico veronese», in cui evidentemente la «valutazione» passa addirittura dall’opera all’uomo, anzi all’immagine dell’uomo esemplare.

Il culturame parassitario

Il tutto accompagnato da un accanimento che, nella sua indiscriminata aggressività, mostra l’insofferenza dell’odierna classe politica nei confronti degli artisti tout-court che, qualche tempo fa, il ministro Sandro Bondi ha definito con precisa cognizione di causa «accattoni genuflessi» (il «culturame parassitario» del ministro Brunetta fa ormai letteratura). E citare oggi il nostro ministro ai Beni culturali significa anche evocare l’unico poeta (non ancora laureato) in grado di vantare spazi televisivi (Porta a Porta) e addirittura una propria rubrica in un settimanale (Versi diversi, in «Vanity Fair») dove poter pienamente dar conto dei suoi nobili componimenti d’occasione «A Rosa Bossi in Berlusconi», «A Silvio», «A Pierrenato Bonaiuti», «A don Lorenzo Milani», «A Barack Obama», «A Luciana Littizzetto», «sbirulino dispettoso» persino (il volto mite, accogliente del potere).

Questo accade in un paese dove i poeti vivono vite clandestine, e in cui la maggioranza degli italiani probabilmente non ha mai sentito nemmeno nominare un tal Luciano Erba, un poeta appunto, capace di cogliere il nonsenso e l’assurdo di cui è intessuto il nostro quotidiano vivere in versi così: «Scale/che non portano/da nessuna parte/scale/che salgono soltanto per scendere/è difficile orientarsi/nei dintorni del nulla».

Speriamo che nessuno si ricordi che anche Bossi ha scritto poesie (in dialetto lombardo per di più).

Evelina Santangelo
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.
it/
10.08.2010


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