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Bilderberg, parliamone


Tao
 Tao
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Dio non ti vede ma il Bilderberg sì. Tu non sai niente del Bilderberg, ma il Bilderberg sa tutto di te. Non lo hai mai visto né conosciuto, ma lui fa di te ciò che vuole. Ristretto, segreto, internazionale: il Bilderberg non parla mai alla piazza, non si affaccia ai balconi e non fa comizi. Non ne ha bisogno. Semplice: nella divisione della società in «minoranze dominanti» e in «maggioranze dominate», così come appunto è ancora oggi, il Bilderberg rappresenta «la minoranza dominante», semplice. Potremmo dire, con un gergo oggi assai corrente, che lo fa a nostra insaputa.

Perché il Bilderberg, anzi il Club Bilderberg (dal nome dell’albergo in Olanda dove si riunì per la prima volta) rappresenta «i più importanti tra i membri del vertice della gerarchia sociale dei Paesi più avanzati». Si prega di porre particolare attenzione alle parole messe tra virgolette. Che non sono nostre. Bensì tratte testualmente dal recentissimo libro di Domenico Moro, il cui titolo – “Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo” (Aliberti editore, pp. 165, euro 14) – non dà certo adito a fraintendimenti. Né a interpretazioni arbitrarie. «Gli uomini che comandano il mondo», sic, senza giri di parole: di tale piccola questione trattasi. E di tale piccola questione il libro di Domenico Moro ha il pregio non secondario di narrare con un racconto intenso, coinvolgente, di taglio scientifico – la mano dello storico e del ricercatore non viene mai meno – e nello stesso tempo emozionante come un romanzo (non senza qualche sfumatura di noir…).

Dormite pure sonni tranquilli, il Bilderberg veglia. Dal 1954, anno di fondazione, il Club si è riunito cinquantanove volte, una all’anno; noti solo partecipanti e agenda, ma segreti, assolutamente off records, i contenuti. I partecipanti, solitamente circa 120, per due terzi vengono dall’Europa Occidentale, il resto dagli Usa. I leading citizens che si ritrovano al Club vengono da tutti i Paesi appartenenti alla Nato, tranne poche eccezioni; ma è lo Steering Committee, il comitato direttivo, che rende l’idea. 35 membri, egemonia Usa, nomi di altissimo calibro (tipo David Rockefeller, della famosa Dynasty) e scelta rappresentanza di pressoché tutti i settori dell’economia, dell’industria e della finanza in campo mondiale.

Riassumendo, nel suddetto comitato ci sono membri «che hanno incarichi in 13 grandi imprese finanziarie. Dopo la finanza c’è l’industria con 11 imprese; inoltre sono presenti esponenti di 4 think tank, 3 esponenti del mondo politico, 2 di quello accademico».

Niente di che, se non per i nomi. Di quel Bilderberg sono big esponenti per esempio Goldman Sachs, Barclays, Axa, Zurich Insurance, Deutsche Bank, Citigroup, Alcoa, Standard OIL, Jp Morgan Chase, Exxon, Fiat, Shell, Bp, Eni, Areva, Suez-Tractebel, Pfizer, Novartis, Michelin, Daimler, Airbus, Microsoft, Telecom, Telefonica, Vodafone, Nestlé, Unilever, Coca Cola, Alfa Laval, Nokia, Siemens, Saint Gobain, Titan Cement, Procter&Gamble, IBM, Du Pont, Eni, Enel…e ancora.

Un elenco che qui facciamo alla rinfusa e comunque assai significativo: in pratica, presenti tutte le multinazionali e tutte le imprese leader di tutti i settori economici fondamentali nel mondo.

Non sorprenderà che, sempre nel suddetto comitato, «le banche presenti siano 30, di cui 2 sovranazionali. Tra queste, la Banca mondiale», la Bce, le banche centrali di Canada, Olanda, Belgio, Usa.

Né che gli editori o dirigenti di imprese in campo mass media presenti siano 13. Il libro li mette in fila, e non è inutile prendere nota che «tra questi ci sono personaggi che controllano i principali giornali europei e statunitensi». Come El Pais, Le Monde, Washington Post, Financial Times, Die Zeit; e per esempio The Economist, «il quale può essere definito l’organo semi ufficioso del Bilderberger e luogo di intreccio tra potenti famiglie capitalistiche».
Mass media, ma anche Università e consulenze, i rinomati think tank: il Club ne è fornitissimo e per un valido motivo. Infatti, scrive Moro, «sono la faccia culturale della trasnazionalizzazione economica e il braccio ideologico delle corporation che in effetti li finanziano a piene mani». E lo spiega anche meglio, caso mai ci fosse qualche dubbio: «Sedi come il Bilderberg ricoprono grande importanza per il fatto di offrire la possibilità di mettere in contatto il mondo della politica con i think tank e chi gli sta dietro, ovvero le grandi imprese e le grandi banche trasnazionali».

Forse a questo punto vi punge curiosità di conoscere magari qualche nome italiano di affezionati bilderberghiani. Al tema il libro dedica un intero capitolo. Per esempio, in testa c’è Franco Bernabé; a seguire Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Monti, John Elkan, Mario Draghi, Paolo Scaroni, Alfredo Ambrosetti, Gianni Riotta, Domenico Siniscalco, Rodolfo De Benedetti, Fulvio Conti (vice presidente della Confindustria), Corrado Passera, Giulio Tremonti, Paolo Fresco, Gabriele Galateri di Genola, Ferruccio De Bortoli, Marco Tronchetti-Provera, Romano Prodi, Enrico Letta, Giam Maria Gros Pietro, Ignazio Visco… (nomi sconosciuti, vero?).

Caso mai non fosse chiaro di che si tratta, Moro illustra alcuni “profili” dei bilderberghiani nostrani. Il Romano Prodi ad esempio, «Presidente Iri quando questa era una delle prime conglomerate del mondo, presidente della Commissione europea, due volte presidente del Consiglio dei ministri».
E così riassume (in buon italiano: «Per il Bilderberg sono passati tutti i ministri delle finanze dei governi italiani degli ultimi 13 anni e due governatori della Banca d’Italia».

Al Bilderberg evidentemente non ci si incontra per il té delle cinque. Qui dove si incontra «l’elite finanziaria, industriale, politica ed accademica dei Paesi più avanzati». Cioè l’elite «di una classe dominante internazionale».
Del Bilderberg (e della Trilateral, l’altro centro di potere internazionale che nasce nel 1973 su iniziativa di personaggi come Henry Kissinger, Zbigniew Brzezinski, David Rockfeller, cui il libro dedica la seconda parte): ovvero del «dislocarsi dei luoghi decisionali fuori dei parlamenti».

Maria R. Calderoni
Fonte: www.liberazione.it
13.06.2013


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