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Da: www.laregione.ch

Il 'faraone' tragico atto finale

di Aldo Sofia - 3 febbraio 2011

Quell’improvvisa ferita che nel cuore del Cairo lacera piazza Tahrir, tagliata drammaticamente in due dallo scontro fra oppositori e sostenitori di Mubarak, tratteggia uno degli sviluppi e degli scenari più inquietanti per l’Egitto in bilico. Di nuovo, qualcosa di imprevisto. Ma che ha una sua logica.

È infatti difficile pensare che in qualche modo non vi sia la regia del “faraone”, e dei suoi fedelissimi, in questo precipitare della crisi. Far salire la tensione, provocare il caos, innestare la spirale dello scontro civile e fratricida potrebbe non essere soltanto un modo del raìs per dimostrare alla nazione di essere ancora in sella, e di poter contare su una riserva di popolarità che dovrebbe legittimare il rifiuto dell’“intifada”, che invece ne pretende l’immediata resa.

Se questo è il disegno del capo dello Stato, sostanzialmente già deposto dalla rivolta ma ancora rinchiuso nei palazzi del potere, la finalità di quest’ultima mossa è fin troppo evidente.

Si tratta di creare le condizioni che poi imporrebbero la necessità di stroncare, eventualmente anche a costi umani altissimi, una ribellione che non poteva certo accontentarsi della chiusura del parlamento (del tutto irrilevante sulle sorti del paese) e della rinuncia (scontatissima) a un altro mandato presidenziale.

Potrebbe dunque trattarsi del tentativo di fornire il pretesto dell’emergenza e di obbligare surrettiziamente l’esercito a cambiare atteggiamento. Un esercito che finora non è stato affatto neutrale. Ha anzi apertamente solidarizzato con la protesta. I soldati di leva che fraternizzavano con i dimostranti, le sarcastiche scritte anti-Mubarak sulle fiancate dei carri armati, gli immancabili fiori nei cannoni, ma soprattutto quel comunicato dello Stato maggiore che – subito dopo l’arrivo dei tank sulla piazza Tahrir e sui ponti lungo il Nilo – proclamava di capire i motivi della sollevazione popolare, e di non voler sparare un solo colpo contro i manifestanti.

Insomma, un esercito che, col suo peso storico, politico ed anche economico (in Egitto molte imprese sono diretta o indiretta emanazione degli uomini in divisa), si è proposto come garante della prima “rivoluzione” partita veramente dal basso nella storia pre e post-monarchica del paese. Naturalmente, tenuto conto dei bizantinismi della scena mediorientale, nessuno può escludere che tutto questo sia stato e sia ancora il frutto di un ben concordato gioco delle parti. Il pugno di Mubarak (oltre 300 morti ad opera dei reparti di polizia), nel guanto di velluto delle forze armate.

In definitiva, il sodalizio tra il raìs e i suoi generali ha retto per tre lunghi decenni, i tribunali militari hanno fatto la loro parte grazie allo stato d’emergenza mai abrogato dopo l’assassinio di Sadat nel lontano 1981, e l’unico alto ufficiale (il maresciallo Abu Ghazala) che aveva conteso la leadership al “faraone” era stato silurato senza che dalle caserme si levassero voci importanti di vero dissenso. Lo stesso Omar Suleiman, il capo dei servizi segreti per nulla estraneo in tutti questi anni alla macchina repressiva del dissenso, precipitosamente nominato vice-presidente, e oggi considerato il possibile “uomo forte” della scena egiziana, è il prodotto di questa nomenklatura in grigioverde. Un “prodotto” certo più moderno, forse meno ossessivamente diffidente del suo capo, forse più portato alla mediazione, ma fin qui fedele esecutore della politica interna ed estera del “raìs”.

La novità sta semmai nel fatto che Suleiman è improvvisamente diventato l’uomo della Casa Bianca, su di lui conta Obama per concretizzare l’auspicata e immediata transizione democratica, si trovava a Washington allo scoppio della protesta, ed è ben conscio del fatto che anche la sopravvivenza della casta militare egiziana dipende dal miliardo e mezzo di dollari che annualmente l’America garantisce all’Egitto, paese strategicamente vitale per gli Stati Uniti come baluardo anti-islamista e come interlocutore di Israele anche nel contrasto ad Hamas.

Interesse strategico che per la Casa Bianca non cambia, e che ora il presidente americano ritiene meglio tutelato non da un regime illiberale bensì da un Egitto che potrebbe diventare modello di nuova democrazia in tutto il Medio Oriente. Per questo scarica Mubarak (del resto irrecuperabile), garantendosi un minimo di continuità con Suleiman. Ma non è così che l’intende l’ottuagenario leader al tramonto. Che forse vuol forzare la mano al suo vice. Che mandando in piazza i suoi sostenitori vuol fare credere, anche agli alleati occidentali, di essere ancora indispensabile per evitare al paese l’anarchia che favorirebbe il radicalismo islamico. Un Mubarak che dice di voler essere “giudicato dalla storia”. Ma che alla sua storia è forse tentato di aggiungere un ultimo tragico capitolo.


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