Ettore Scola, negro
 
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Ettore Scola, negro


Tao
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Gli esordi da ghostwriter del regista di “Ci eravamo tanto amati” raccontati da lui stesso

ETTORE SCOLA, NEGRO. Insomma, scrittore per conto terzi, ghostwriter, fornitore di gag, battutista a cottimo (lo fu anche Woody Allen, agli inizi). Lo voleva far scrivere sul suo biglietto da visita il giovanissimo Ettore Scola, quando faticava come garzone di bottega per la coppia Marchesi-Metz. Marcello Marchesi e Vittorio Metz, conosciuti nella redazione del Marc’Aurelio: il regista di “La terrazza” e “C’eravamo tanto amati” cominciò a frequentarla quando aveva 15 anni e portava i calzoni alla zuava, dopo la scuola.

E’ lui stesso a raccontarlo, nel numero speciale che Panta ha dedicato a Marcello Marchesi (da Bompiani, curato da Mariarosa Bastianelli e Michele Sancisi). Con tanto di maiuscole, e noi mai avremmo osato cambiare l’estetica del biglietto da visita a uno che aveva cominciato come disegnatore. Altrettanto precisa e gustosa, la descrizione della catena di montaggio che allora si chiamava commedia italiana. La coppia stava scrivendo “praticamente tutto il cinema di allora, anche dieci, dodici sceneggiature contemporaneamente”.

Oggi li veneriamo, o almeno dovremmo, come grandi autori (a Marcello Marchesi scriveva nel 1971 Umberto Eco, allora redattore editoriale Bompiani, per discutere copertina e impaginazione di “Il malloppo”: delirio abbastanza sperimentale di uno abituato a giocare con le parole). Ma loro lavoravano così: “Vittorio e Marcello vivevano more uxorio in una camera doppia dell’albergo Moderno, dove Metz era sempre alla macchina per scrivere, posata sulla toeletta, di quelle con lo specchio girevole, mentre Marchesi distribuiva le pagine, man mano che uscivano, tra i vari copioni – a diversi stadi di lavorazione – disposti sul letto”.

Roba da rimanere incantati, non solo a quindici anni anche a età meno impressionabili, e non volere far altro per tutta la vita. Marchesi e Metz passavano i copioni al giovane Scola, invitandolo ad aggiungere battute, situazioni, gag, lazzi e qualsiasi cosa gli venisse in mente. Una versione ruspante delle writer’s room dove si scrivono le serie tv, solo che in quelle stanze i ragazzini di quindici anni non entrano. Altro gustoso dettaglio, giacché nel cinema che riesce a trovare il suo pubblico vale la regola di Billy Wilder: “Non una riga se non a pagamento” (chi vuole esprimersi, lo fa a suo rischio e pericolo, e non vale insolentire il pubblico che non capisce). Ettore Scola veniva pagato da Metz e da Marchesi, non dai produttori: “Dal ’46-’47, per cinque o sei anni furono loro il mio unico filtro con il cinema, erano il mio mondo”.

Negro e felicissimo. Così felice che ancora ricordava, o credeva di ricordare – ma in fondo è lo stesso, fa parte dell’immagine che vogliamo dare di noi – la battuta sua finita in “Totò Tarzan” (uno degli innumerevoli che il Principe girava in quegli anni). Spedizione nel fitto della giungla, scienziata curvilinea, Totò la guarda e sbotta “Io Tarzan, lei Cita, tu bona”. Solo i grandissimi forniti di autoironia riescono a raccontare storie come questa senza paura di perdere la faccia, o il titolo di venerato maestro.

Mariarosa Mancuso
Fonte: www.ilfoglio.it
20.01.2016


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Black_Jack
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Tanto sopravvalutato Scola.
Il suo miglior film è "Riusciranno i nostri eroi". Sul registro serio è sempre molto didascalico e sentimentale.


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Tanto sopravvalutato Scola.
Il suo miglior film è "Riusciranno i nostri eroi". Sul registro serio è sempre molto didascalico e sentimentale.

Ti prego di non bestemmiare.

Ieri su Raimovie hai avuto i mezzi per apprezzare e possibilmente comprendere due tra i capolavori assoluti del cinema italiano: "Dramma della gelosia" e "C'eravamo tanto amati", diretti proprio da Scola.
Nel secondo si affronta, oltre a tutto il resto, la tragedia politica, culturale e intellettuale della sinistra, nelle diverse correnti in cui si era divisa nel dopoguerra: l'arrivista neoborghese, la democratico-parlamentare e la rivoluzionaria.
Ognuna con le sue contraddizioni e il proprio retroterra ideologico, basato sulla coscienza di classe formatasi in base all'esperienza di vita, ma anche sulle attitudini personali di ognuno dei tre protagonisti, uniti dall'aver combattuto e sofferto insieme nella lotta partigiana.
Altrettanto importanti sono le motivazioni casuali e la capacità di rispondere ad esse di ciascuno dei tre: Gassman, Manfredi e Satta Flores.
Il tutto immerso in un contesto sociale solo apparentemente liberato dal giogo fascistoide di una suddivisione in classi dissimulata ma in realtà rigidissima. Più che classi, infatti, sono caste: in quanto tali il passaggio dall'una all'altra, o meglio ancora la liberazione dalla schiavitù, quando non addirittura emarginazione, che contraddistinguono quelle subalterne e formano la base della ricchezza e del predominio di quelle superiori, può avvenire esclusivamente tramite cooptazione.
Un ordine sociale ancora laidamente immerso negli schemi del ventennio, imposto a suo tempo dalla borghesia quale argine invalicabile alla domanda di emancipazione delle classi subalterne, e nel suo brodo culturale permeato di ipocrisia e di lotta senza quartiere all'intelletto e alla preparazione culturale. Condotta senza quartiere da una maggioranza di mediocri verso quei pochi che solo dessero l'impressione di tentare di affrancarsi dalle tare ataviche dell'italianità. Il vero denominatore comune, insomma, della nostra società. Non solo di quel tempo ma tramandatosi fino a oggi, sia pure sotto spoglie in apparenza mutate ma che in realtà conservano le medesime caratteristiche di allora, solo rese ancor più rigide, mascherate dietro il paravento di un falso interclassismo e peggio del falso mito della meritocrazia.
Film profetici, insomma, di quanto sarebbe avvenuto nella trasformazione successiva della società italiana, dominata innanzitutto dalla ferma volontà di mantenere inalterati i rapporti di classe e immutato il predominio assoluto delle oligarchie nazionali.

Il titolo da te menzionato, per quanto eccellente, assurge solo nel finale alle vette di commovente lirismo dei film di cui sopra. Questo elemento, appunto il lirismo che Scola riusciva a inserire nelle trame dei suoi film integrandolo alla perfezione in uno o più contesti di segno completamente diverso quando non addirittura opposto, rappresenta il vero aspetto primario della sua grande maestria.
Nel film l'accento è posto più che altro sulla componente comica, che trova nel viaggio in Africa compiuto alla ricerca del Titino-Manfredi nauseato dalle convenzioni del mondo consumista e che per questo ha abbandonato la famiglia, un veicolo molto efficace per coinvolgere lo spettatore in una galleria di personaggi e di gag esilaranti.
Qui l'elemento di critica sociale resta sempre forte ma più sullo sfondo. Appunto nella fuga in Africa di Titino, nei dilemmi dell'editore Di Salvio-Sordi rispetto alle consuetudini e ai riti dell'alta borghesia di cui fa parte, che evidenziano i sintomi di una lobotomizzazione di massa ancora in nuce ma che non avrebbe tardato a mostrare i suoi frutti perniciosi, nel rifiuto del passaggio da parte del negriero portoghese che non esita a imporre agli indigeni di formare un ponte umano affinché lui possa transitare con la sua auto.
Malgrado ciò, Di Salvio non esita a imporre dispoticamente il suo volere nei confronti del sottoposto accompagnatore Blier. Sarà proprio Blier nel finale del film, quando Di Salvio sembra cedere alla tentazione di unirsi anche lui al destino africano di Titino, a richiamarlo all'ordine, vera e propria allegoria dell'incapacità e della paura delle classi subalterne nel liberarsi dal giogo che ad esse è stato imposto.

Pur nella sua eccellenza, si tratta di un'opera forse minore nella filmografia di Scola, sebbene sia tra quelle che hanno avuto il successo più grande non solo al botteghino, ma anche nelle repliche TV.

In generale, i film di Scola sono tra i più efficaci nel porre in evidenza quella voragine culturale e valoriale che separa gli autori i registi, gli attori e in generale il cinema italiano anni '60 e '70 dalla catastrofica mediocrità e dall'assenza di qualsiasi contenuto non meramente favolistico che ha caratterizzato quasi tutto quanto prodotto nel periodo successivo. Secondo una metamorfosi regressiva che appare inverosimile e le cui ragioni andrebbero analizzate a fondo per aiutarci a comprendere le azioni, le ragioni e gli obiettivi che hanno caratterizzato il passaggio della società italiana dall'epoca pre-rivoluzionaria degli anni '70 alla normalizzazione affermatasi nel periodo seguente.

Tra le motivazioni vi è senz'altro l'elemento generazionale, di persone che volenti o nolenti sono cresciute in un'epoca storica ben precisa, che ne ha influenzato profondamente il pensiero, l'azione e l'opera.


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Black_Jack
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Ti prego di non bestemmiare.

Lungi da me, è che la vediamo in maniera proprio opposta.

"C'eravamo tanto amati" ha dei bei momenti e lui ha una buona mano da regista ma è scontato, didascalico e non ci vedo nessunissima critica sociale né anticipazione della società odierna, semplicemente il vecchio e logoro topos delle illusioni perdute della giovinezza. Non è "brutto", è prevedibile e moralistico.
Non parliamo poi di "Una giornata particolare".

Invece in "Riusciranno i nostri eroi" è libero dall'obbligo di intenti "alti" e lì dà il meglio di sé. Chi è stato in Africa sa che quel film riesce a rendere in una maniera unica (ed è strano) l'atmosfera di un certo mondo di bianchi avventurieri spiaggiati in un continente lontanissimo. C'è una poetica non banale, non è solo un filmetto comico e al di là del finale che è un po' così e cosà, con un sentimentalismo riuscito solo a metà, il film ha veramente qualcosa di spontaneo che lo rende finalmente fresco, che consente al regista di comunicare qualcosa di originale proprio perché slegato da secondi fini "importanti".
Se vogliamo un po' come Gassman, grande attore drammatico che però ha dato il meglio di sé nella commedia.

"La famiglia" anche ha dei bei momenti ma è pesante, l'ostentato intento "moralistico ma disincantato" offusca la ricostruzione pure molto evocativa e sentita di una vecchia famiglia borghese italiana, la riconciliazione fra i due fratelli è addirittura imbarazzante.

Insomma, un regista borghese romano, "de sinistra" perché andava di moda, sostanzialmente un disimpegnato, uno la cui "critica sociale" è solo buon senso distaccato e mai realmente partecipe.

Oh, a me nun m'ha mai convinto...


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Se i borghesi, quale tu descrivi Scola, fossero stati tutti come lui, questo paese oggi sarebbe diverso.

Trovo appunto una bestemmia derubricare a didascalia la sua profezia di estrema lucidità riguardante la tragedia della sinistra e più in generale della società italiana, con la vittoria a mani basse della sua componente arrivista neoborghese, basata sul denegare e calpestare tutti, nessuno escluso, i suoi presunti valori e ideali, per i quali tanti hanno combattuto e sacrificato persino la vita.

E' impersonata dal Gianni Perego-Gassman che il caso porta a mettersi al servizio del palazzinaro fascista, sfruttatore e profittatore di guerra Aldo Fabrizi, e addirittura a sposarne la figlia pur nell'indifferenza che prova nei suoi confronti, fingendo una falsa ritrosia, secondo la profonda ipocrisia della doppia morale tipica del falso sinistroide. Spinta al punto da abbandonare ogni pudore nell'alterco in cui Gianni Perego-Gassman contesta al suocero il suo non saper corrompere come necessario la classe politica a qualunque livello per trarne i vantaggi necessari a un'industria moderna. Nel caso specifico quella attiva nel campo dell'edilizia in grande stile.
La smodata ricerca del denaro e dell'affermazione porta Perego a perdere tutto il resto: famiglia, affetti, amicizie, valori, per restare infine solo con il "Marchese di cazzuola" Romolo Catenacci-Fabrizi, che tanto disprezzava, nella grande villa miliardaria ormai inutile a tutti gli effetti. Se non quello di rappresentare un eremo e un bastione di difesa nei confronti di tutto quanto in cui egli era convinto di credere e che ha volontariamente perduto.

Tutto questo, assieme alla deriva valoriale di un capitalismo del quale Scola riconosceva già allora l'effettivo portato criminogeno, che malgrado ciò trova negli ex pseudo sinistri i suoi attori più efficaci, è solo un elemento di quanto descritto in "C'eravamo tanto amati". Con un'efficacia stupefacente proprio riguardo a ciò che sarebbe stato l'elemento fondamentale nel succedersi degli eventi e dell'evolversi del paese nei decenni successivi. Preda di una casta di arrivisti dominati dalla sete di denaro e di potere insaziabile, spinta senza parere ai livelli di una sindrome compulsiva.

Per non parlare degli altri elementi altrettanto profetici di critica sociale degli altri suoi film, proprio a partire da "Riusciranno i nostri eroi".
Hanno il solo difetto di essere talmente ben amalgamati nella sceneggiatura da risultare a rischio di venire trascurati o sottovalutati, proprio per l'efficacia degli altri elementi che risultano più fruibili in una visione superficiale dell'opera.

Il discorso di Scola è tanto più meritevole proprio perché inserito in un contesto caratterizzato da eccellenza nella scorrevolezza e nell'assenza di cali d'interesse della sceneggiatura. Quindi alla portata di tutti e meglio comprensibile delle masse. Almeno nelle intenzioni del regista, anche se qui, in base alla tua critica, sembrerebbe dimostrarsi il contrario.

Ecco allora che certi film non basta solo guardarli ma occorre sforzarsi di assimilarne bene i contenuti e analizzarne i significati. Almeno se li si vuole comprendere a fondo, assieme al messaggio che il regista voleva comunicare.


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