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La mitologia psichedelica di «Doctor Strange»


Davide
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Scott Derrickson realizza il miglior adattamento cinematografico di un supereroe targato Marvel

Cupo e minaccioso cantore di scenari infernali, di angosce e possessioni, Scott Derrickson, regista di horror molto celebrati come l’inquietante Sinister e The Exorcism of Emily Rose, alle prese con un budget faraonico, invece di mettere il silenziatore al suo sguardo e alle sue ossessioni, realizza con Doctor Strange il film più entusiasmante della sua già molto intrigante carriera.
Accusato in passato di nutrire fobie criptocattoliche a causa dei mostri, demoni e addirittura diavoli che popolavano i suoi film e dell’approccio mai ironico ma sempre letterale nei confronti della messa in scena del Male (maiuscola obbligatoria), adattando il mondo dello stregone supremo della Marvel per il grande schermo riesce nell’impresa di restare fedele alla sua poetica reinventandola e contemporaneamente trovare la migliore delle chiavi possibili per dialogare con una figura chiave della mitologia Marvel.

Creato da Stan Lee e Steve Ditko (la coppia de L’uomo ragno), il Dottor Strange è il personaggio della Casa delle idee che è riuscito a dialogare meglio di tutti con le insurrezioni psichedeliche della Summer of Love. Gli stati di allucinazione provocati da incantesimi e riti magici, con grande disappunto di Ditko che non ha mai fatto mistero di essere un conservatore, sono sempre stati interpretati da figli dei fiori e hippy come un invito al viaggio alla stregua del celeberrimo mantra «turn on, tune in, drop out» del guru lisergico Timothy Leary.
Così, mentre il mistico Stephen Strange combatteva contro le orde di Dormammu sui piani astrali dell’esistenza, i suoi lettori lo seguivano idealmente lungo i sentieri degli stati di coscienza alterati.

Il primo merito di Derrickson è di avere fatto appello, senza tacerla, proprio a questa mitologia psichedelica, cosa che rende il suo film, senza ombra di dubbio, il più visionario e libero fra tutti gli adattamenti supereroistici (Marvel e DC insieme). Senza contare che così facendo il regista e i suoi sceneggiatori evitano anche il rischio new age che un trattamento superficiale degli aspetti legati alla magia avrebbe inevitabilmente comportato.

Rievocando la storia delle origini di Stephen Strange, chirurgo prodigio che a causa di un incidente perde l’uso delle mani, Scott Derrickson ricorre a un immaginario sincretico che, pur attingendo da Piranesi e Matrix, da Jim Starlin ed Escher, conferisce al mondo del maestro delle arti mistiche una straordinaria felicità tattile, come un origami digitale pronto a rivelare la sua natura di carta di zucchero.
Il set piece iniziale è ambientato a Londra, nella quale la città di vetro e acciaio preconizzata da J.G. Ballard si ripiega su se stessa come se tornasse alle origini della sua ideazione, lì dove comincia il tempo, come un pop-up book pluridimensionale di un bambino demiurgo e sognatore.

A osservare più da vicino le meccaniche del reale che proteggono le architetture del mondo tangibile, si notano intarsi erotici inquietanti che inevitabilmente rimandano alle geometrie dei carillon infernali utilizzata dai cenobiti di Clive Barker in Hellraiser per penetrare nel mondo degli umani (serie della quale Derrickson ha diretto il quinto episodio). Rispetto alla grevità del tocco di Zack Snyder e della irritante pochezza del suo «destruction porn», Derrickson, pur non rinunciando a una sola oncia di spettacolarità, tiene fede sì al giuramento di Ippocrate pronunciato da Strange, ossia salvare vite umane, ma allo stesso tempo dimostra che se si conosce la materia fumettistica, inevitabilmente ne derivano spunti di riflessione notevolissimi rispetto alle possibilità di intrecciare la pagina disegnata e l’immagine (come avviene nel momento più commovente del film).

Alternando con grande sapienza fumettistica dettagli umoristici e altri più schiettamente epici, il film, pur osservando con precisione la scansione classica del racconto di formazione supereroistico, evidenzia che è proprio nella comprensione intima delle strutture di base del materiale d’origine che risiede la libertà di quanti vogliono cimentarsi con i fumetti al cinema. Tant’è vero che persino l’inevitabile cameo di Stan Lee è caratterizzato da un sorprendente tocco di ironia, in linea con la filosofia lisergica del film, presentando il patron Marvel mentre ride di gusto leggendo Le porte della percezione di Huxley.
L’utilizzo della cappa levitazionale, rossa come la mantellina di Superman e premurosa come il cagnolino Krypto, si muove con un’eleganza sensuale che nessuno Snyder al mondo riuscirà mai a comprendere. Nel finale Derrickson vince la sua scommessa più audace: sostituire una battaglia con una riflessione filosofica sulla natura del tempo e gli si perdona anche l’insistito product placement di Jaeger-Le Coultre trasformato così in autentico elemento narrativo. Con Doctor Strange, interpretato da un magnifico Benedict Cumberbatch, Derrickson apre possibilità sin qui inaudite per i supereroi al cinema. Continua.

Giona A. Nazzaro
Fonte: www.ilmanifesto.info
1.11.2016


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A me non è sembrata questa meraviglia.
Si può vedere ma è molto leggerino.
Snyder, tanto criticato dal critico del Manifesto, ha fatto dei brutti film come "300" che a tratti è addirittura ridicolo, ma è stato anche il regista di "Watchmen" che è molto meglio di "Doctor Strange".
Il film di Derrickson ha una morale un po' sempliciotta (dobbiamo morire e non volerlo è male), si risolve con un trucchetto temporale che non significa molto e non dice nulla sul mondo di oggi.
Watchmen non ha una morale consolatoria, è amarissimo, i personaggi sono gagliardi e vitali ognuno diverso dall'altro, parla del nostro tempo dando una inquietante rappresentazione dello stato di eccezione permanente in cui viviamo mettendo in scena la dolorosa sconfitta di chi si ribella perché non vuole né sa come adeguarsi.
Però questo scrive sul Manifesto quindi è chiaro che non può capirci molto.

PS: Dopodiché Snyder ha fatto Batman contro Superman dove si è calato indegnamente le braghe abbandonando qualsiasi velleità di metaforica denuncia politica.


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